Enzo Ceccotti è un balordo, un ladruncolo schivo e taciturno. Vive in uno squallido appartamento a Tor Bella Monaca, un quartiere periferico di Roma. Ossessionato dai dvd porno, si nutre avidamente di dessert alla vaniglia.
Dopo essersi buttato nel Tevere per sfuggire alla polizia finisce dentro un fusto abbandonato e si sporca con un misterioso fluido tossico radioattivo. Sopravvissuto alla febbre altissima scoprirà di aver ricevuto una forza sovrumana, in grado di fargli piegare i termosifoni e sradicare un bancomat. Finirebbe sicuramente col diventare un super-delinquente se il destino non gli facesse incontrare Alessia, una ragazza orfana con problemi psichiatrici convinta di vivere nel mondo di Jeeg Robot. L’affetto di Alessia, che vedrà in lui Hiroshi, il protagonista del cartone animato, lo porterà pian piano dalla parte del bene. Enzo-Hiroshi dovrà lottare contro la banda dello Zingaro, un cattivissimo Joker “de noartri” disposto a tutto per raggiungere il potere e la fama. Una serie incredibile di colpi di scena e di trovate esilaranti condurrà i due rivali allo scontro finale, alla battaglia epica tra il bene e il male, naturalmente non potrà che trionfare il bene.
Detta così, la storia raccontata dallo strepitoso esordio di Gabriele Mainetti sembrerebbe assurda e strampalata, cinematograficamente una follia, un azzardo destinato a un b-movie da dimenticare in fretta.
Invece no, Lo chiamavano Jeeg Robot è un film tanto coraggioso quanto riuscitissimo, un’opera geniale destinata a rappresentare un passaggio importante nella storia del cinema italiano degli anni 2000.
Apparentemente la struttura narrativa del film segue l’archetipo classico del mito del supereroe. Anche qui, infatti, un uomo qualunque riceve inaspettatamente dei super-poteri. Non senza difficoltà, attraverso una maturazione interiore, diventa consapevole della responsabilità che la nuova condizione esistenziale gli impone.
Accettandone i doveri morali diventa ufficialmente un supereroe, dovrà quindi combattere contro il male, come sempre rappresentato da un anti-eroe.
Se la struttura narrativa è da heroe-movie americano, per la sua sostanza filmica Lo chiamavano Jeeg Robot è italianissimo.
Si propone come un film di genere ma sfugge a ogni classificazione perché di generi ne mescola tanti - fantasy, noir, azione, drammatico - ci gioca ma senza snaturarli o sconfinare nel grottesco.
Perché la storia di Enzo è tanto bizzarra e inverosimile quanto è credibile e realistica. Il nostro Hiroshi non vive a Tokio o a Gotham City ma nella degradata periferia romana, non ha una tuta per mascherarsi ma un banale cappuccio; senza l’amore di Alessia, il vero super-potere, resterebbe un balordo. Tutti i personaggi sembrano usciti dai fumetti ma, al tempo stesso, sono incredibilmente veri, li sentiamo vicini perché ci trasmettono umanità.
In Lo chiamavano Jeeg Robot Mainetti ci ha messo tutto se stesso, senza calcoli né compromessi. Per questo riesce ad emozionarci, si respira la sua passione per i cartoni animati e per un cinema libero, senza generi o schemi predefiniti.
Come lui stesso ha affermato la storia di Enzo Ceccotti “non è solo la storia di un supereroe di borgata, né una delicata storia d’amore, né una riflessione sulla malavita o una divagazione sui robot dei cartoni giapponesi”. E’ molto di più.
La produzione del film è stata un mezzo calvario. Per cinque anni ha bussato inutilmente a tutte le porte possibili per trovare produttori interessati, alla fine ha ottenuto l’aiuto del Mibact e di Rai Cinema, per il resto ha fatto tutto da solo.
Non si può non elogiare una sceneggiatura innovativa e narrativamente perfetta, scritta a quattro mani da Nicola Guaglia-none e dal fumettista Menotti.
Delle strepitose interpretazioni degli attori basti dire che ai David di Donatello (gli “Oscar italiani”) Lo chiamavano Jeeg Robot ha visto premiati - cosa mai vista - tutti gli interpreti: miglior attore protagonista a Claudio Santamaria, miglior attrice protagonista a Ilenia Pastorelli, attore non protagonista a Luca Marinellie attrice non protagonista ad Antonia Truppo.
In un film dove ogni cosa è curatissima e funzionale alla storia ci sarebbero molti altri aspetti da focalizzare, dalla bella fotografia di Michele D’Attanasio alle splendide musiche curate dallo stesso regista con il compositore Michele Braga.
Molti quaranta/cinquant’enni - ma non solo - sono usciti galvanizzati dalla visione del film, inebriati dall’aver riassaporato ricordi e atmosfere dei pomeriggi passati davanti alla tv negli anni ottanta, con quello strano robot cuore-acciaio, cuore di un ragazzo che senza paura sempre lotterà!
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