“Il destino ti aspetta sulla strada che hai scelto per evitarlo.” proverbio arabo
Negli anni Novanta la vita quotidiana del popolo algerino è stata funestata da una straziante guerra civile.
Ne furono protagoniste le milizie dei Gruppi Islamici Armati, bande sanguinarie nate dalle ceneri del Fronte Islamico di Salvezza, il movimento politico musulmano costretto alla clandestinità da un golpe militare, attuato proprio per impedirne la vittoria alle elezioni politiche.
Nel corso del “decennio nero”, nell’indifferenza del mondo occidentale, furono trucidate almeno 150.000 persone, la maggior parte civili, tra cui molte donne e bambini, spesso sgozzati come animali, in un crescendo di terrore perpetuato con un’interminabile serie di attentati e stragi.
Sebbene l’Occidente democratico non fosse ancora diventato il nemico contro cui invocare il terrorismo jihaidista, l’avversione alla “corrotta” cultura europea e il rifiuto del “peccaminoso” stile di vita occidentale erano già da tempo i cardini della propaganda fondamentalista.
In questo clima di intimidazione e di tensione sociale crescono Nedjma, Wassilla e le altre studentesse della cittadella universitaria di Algeri. Adolescenti piene di vita, di sogni da realizzare. Ragazze che al hijab – il velo usato dalle donne algerine – preferiscono i vestiti alla moda e il make-up, ai canti liturgici dei muezzin la musica pop e quella dance delle discoteche. Nedjma sogna di diventare una stilista. Con grande abilità disegna abiti, seleziona tessuti e stoffe colorate, che poi cuce e confeziona per venderli alle amiche, di nascosto, nei bagni della discoteca.
Il valore della moda è altamente simbolico, perché oppone l’affermazione della femminilità e la celebrazione del corpo a una cultura che il corpo femminile lo vuole nascondere, coprire, relegandolo alla disponibilità del maschio-padrone. In una società in cui basta indossare i jeans per essere considerata da molti una prostituta, Nedjma “Papicha” non vuole negare la tradizione, la reinventa con fantasia e creatività: trasforma l’haik, la veste bianca delle donne berbere, nei capi colorati con cui vuole fare sfilare le sue amiche-modelle. Non realizza abiti succinti o scandalosi ma normalissimi vestiti.
Papicha, che nello slang algerino indica, in senso dispregiativo, una ragazza libera che veste all’occidentale, non vuole andarsene all’estero, per lei l’Algeria “non è una sala d’attesa” come per molte coetanee, vuole vivere ed essere libera dove è nata, “voglio restare qui per realizzarmi, voglio restare e lottare!” afferma caparbia.
Con le amiche c’è una fortissima complicità, una solidarietà tutta femminile contrapposta alla miseria delle figure maschili, grette e conformiste. La posta è molto più alta di una banale sfilata tra universitarie.
L’esempio di un gruppo di ragazze libere ed emancipate può diventare pericoloso.
La vicenda non andrà nella direzione che Nedjma e le compagne sognavano, i sogni diventeranno incubi. Anche la Storia a venire si dimostrerà spietata nei confronti delle donne algerine, e di quelle maghrebine in generale, il vento di speranza delle più recenti “primavere arabe” è durato pochi mesi.
La regista Mounia Meddour racconta una vicenda in larga parte autobiografica, dovette infatti fuggire a 17 anni in Francia con la famiglia per le minacce dei gruppi islamici al padre scrittore. Dopo diversi documentari, all’esordio nel cinema di finzione, centra un film stupendo, commovente, con una crescente tensione narrativa che trasmette allo spettatore le emozioni e le frustrazioni delle protagoniste.
La regia è intensa, accompagnata da un montaggio vibrante. La cineasta algerina si sofferma molto sui volti, sui primi piani, sulla complicità degli sguardi delle ragazze, sui silenzi e sulle risate che esprimono quel sentimento di sorellanza che rappresenta il filo rosso della storia.
Lina Koudri, l’interprete di Nedjma, è talmente brava da stordire, dolcissima e nello stesso tempo sfrontata, fragile e audace fino all’incoscienza.
Alla fine della proiezione la sensazione è di aver ricevuto un pugno nello stomaco. Il destino che Nedjma ha cercato in tutti i modi di evitare se l’è ritrovato implacabilmente di fronte. Resta però indelebile l’immagine di un gruppo di amiche solidali e coraggiose, giovani donne capaci di sfidare il maschilismo a viso aperto, senza paura.
E se qualcuno continuerà a raccontare la Storia per stereotipi e luoghi comuni, come quello delle donne musulmane che vivono rassegnate la loro condizione sociale, potremo rispondere, sorridendo, “non conosci Papicha!”.
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