“Le guerre appaiono sempre inevitabili, specialmente quando per anni non si è fatto nulla per evitarle.”
Gino Strada
A un anno dal ripugnante e infame attacco terrorista di Hamas del 7 ottobre, il bilancio dell’altrettanto atroce reazione israeliana è da far gelare il sangue. Più di quarantamila morti e centomila feriti gravi nella sola Striscia di Gaza. Innumerevoli stragi compiute bombardando campi profughi, ospedali e scuole. Due milioni di sfollati che bivaccano per strada, gran parte di Gaza City rasa al suolo con più di centocinquantamila edifici distrutti. Un’emergenza alimentare e sanitaria terribile, di proporzioni inimmaginabili.
Considerando che a Gaza il 43% della popolazione ha meno di 14 anni, la stima di ventimila bambini uccisi risulta verosimile. Senza contare i minori feriti, i mutilati dalle esplosioni, i bambini diventati orfani o i devastanti traumi psicologici che li segneranno per tutta la vita.
Con una tragedia di queste proporzioni, tuttora in corso, proporre un film che racconta una storia di bambini ambientata a Gaza nel 2003 potrebbe sembrare inopportuno o fuori tempo. È vero il contrario. Per diversi motivi.
Sullo sfondo di una Gaza già vent’anni fa devastata dai bombardamenti e dalle incursioni dell’esercito israeliano - si era nel pieno della seconda intifada, cioè della rivolta popolare con lanci di pietre – il film ruota attorno alla vita quotidiana dei bambini palestinesi. Una quotidianità scandita da allarmi aerei e blackout, sparatorie e attentati. Ma fatta anche di solidarietà e amicizia, litigi e giochi tra bande di ragazzini con i mitra di legno, ovviamente “arabi contro ebrei” al posto di “guardie e ladri”.
Lo sguardo cinematografico è quello dei bambini. La macchina da presa si pone alla loro altezza, gli sta addosso in modo febbrile e con inquadrature strette, restituendo allo spettatore i loro stati d’animo, l’angoscia e lo smarrimento di chi non può capire fino in fondo l’odio viscerale degli adulti di entrambe le parti. Quella palestinese di Hamas, che arriva a drogare i bambini per trasformarli in kamikaze, e quella israeliana dei coloni, per cui ci sono solo “due possibilità di futuro: quello in cui non esisteranno più loro o quello in cui non esisteremo più noi”. Se il mondo degli adulti appare irrimediabilmente marcio, senza vie d’uscita che non siano la guerra e la violenza cieca, quello dei bambini resta l’unico punto di vista possibile, l’ultima possibilità di riaccendere un pur flebile luce di speranza di fronte a tanta follia.
Il destino di Mahmud, orfano del padre che è stato martire della resistenza palestinese, e Alon, figlio di coloni israeliani, sarebbe inevitabilmente quello di odiarsi e di combattersi. Ma sono ragazzi e hanno in comune una passione viscerale per il surf. Si incontrano in spiaggia, l’unica zona di Gaza che conserva una parvenza di normalità. Dall’iniziale ostilità pian piano cominceranno a conoscersi, scopriranno che ci sono anche cose li uniscono, che deve pur esistere una terza via rispetto all’eliminazione dei rivali.
Se, tra posti di blocco e coprifuoco, sulla terraferma “ti sembra di vivere in prigione”, afferma Mahmud, “in acqua non ci sono più confini”, l’odio e i pregiudizi possono attenuarsi, si può tendere la mano e sperare in un aiuto. Le onde del mare si possono domare, si può imparare a restare in equilibrio schivando i pericoli.
Ad avvicinare Mahmud e Alon ci pensa Dan, un ex-campione di surf distrutto dal dolore e dipendente dagli antidolorifici che si trova a Gaza per riportare a casa il corpo della sorella, morta sotto i bombardamenti mentre prestava servizio come medico volontario. Dan accetta di insegnare ai due ragazzi i segreti del surf perché sa che quella passione li può unire, che l’acqua del mare può aiutarli a ripulirsi dall’odio e dal disprezzo che ha avvelenato la loro anima.
Per questi motivi, l’esordio al lungometraggio di Loris Lai è un film che appare, oggi più che mai, necessario.
Una regia intensa, che alterna uno stile sobrio e neorealista a scene oniriche e visionarie, quasi da realismo magico, supportata da una fotografia calda e da una colonna sonora coinvolgente, riesce ad emozionare lo spettatore, e senza retorica o facili slogan. Il regista italoamericano ha lavorato con tenacia e caparbietà a questo progetto, la cui idea risale a vent’anni fa. Pur girando in Tunisia, ha fortemente voluto che i protagonisti fossero veramente bambini palestinesi, selezionati nei campi profughi a Tulkarem e Jenin, e israeliani per la famiglia di Alon.
E come nel film anche nella realtà i giovani attori che interpretano Mahmud e Alon sono diventati amici.
Di fronte all’orrore quotidiano di questa guerra che sembra non finire mai è quasi un’eresia pensare che una pace vera sia possibile. L’unica speranza alla quale, come suggerisce il film, dobbiamo aggrapparci, è credere in una generazione di ragazzi capace di surfare tra le onde, restare in equilibrio sull’acqua e non cadere nella tentazione dell’odio e della vendetta.
Anche se, in quella terra insanguinata e straziata, le mani innocenti che in mare possono ancora cercarsi e stringersi, appena fuori dall’acqua si ritraggono subito spaventate.
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