“Vola Samia come il cavallo alto fa nell’aria... Corri Samia come se non dovessi arrivare in nessun posto...
Vivi Samia come se tutto fosse un miracolo...” dal romanzo Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella
Samia corre veloce, sempre. Con le sue gambette magre corre per le stradine polverose e strette del quartiere per arrivare a scuola prima dell’amichetto Alì. Corre schivando gli ostacoli che incontra negli affollati e pericolosi vicoli di Mogadiscio. Corre per sentirsi libera, per mantenere vivo il suo sogno: diventare la ragazza più veloce della Somalia.
Sa bene, come le ha amorevolmente insegnato il padre, che in quella terra martoriata dalla violenza e rassegnata alla povertà i sogni sono l’unica cosa che possono permettersi. E per una giovane donna, con il dilagare delle milizie islamiche nella guerra civile, va anche peggio, sembra proibito anche sognare.
Senza scarpette da ginnastica, malgrado l’obbligo del velo islamico, Samia non si scoraggia, continua ad allenarsi. Ed è veramente veloce, instancabile. Seppur giovanissima riesce a vincere la corsa cittadina più importante di Mogadiscio.
A 17 anni viene scelta dal comitato olimpico locale per rappresentare la Somalia ai Giochi Olimpici di Pechino. Ai blocchi di partenza di una batteria dei 200 metri femminili che segnerà un momento storico irripetibile, Samia Yusuf Omar si presenta senza velo, sulla fronte ha solo la fascetta bianca che gli regalò suo padre quand’era piccola. Il risultato non conta, Samia è acclamata dal pubblico. Quelle immagini in mondovisione diventano un simbolo di riscatto per le ragazze somale, un messaggio di emancipazione e di libertà per tutte le donne africane.
Ma al rientro a casa il sogno olimpico svanisce, la realtà si rivela drammatica come prima, se non di più. La sanguinosa guerra civile dilaga, Mogadiscio sprofonda nel caos. Oltre a non poter allenarsi, Samia diventa un obiettivo degli estremisti islamici di Al Shabaab, la sua stessa vita ora è in pericolo. Deve lasciare la Somalia, si sposta prima in Etiopia, ma anche lì risulta clandestina. Decide di partire peril Viaggio, l’unica salvezza possibile è raggiungere la sorella in Europa attraversando Etiopia, Sudan e Libia, per poi imbarcarsi con un barcone verso Lampedusa. Il viaggio della speranza si rivelerà un’odissea interminabile, i giorni diventeranno mesi, tra soprusi e umiliazioni, sequestri e ricatti da parte dei trafficanti. Ma non smetterà mai di crederci, cercherà di vivere fino in fondo il suo sogno. Anche se, come le diceva suo padre quando era piccola, in quella parte del mondo “i sogni possono diventare incubi”.
La regista di origini turche Yasemin Samdereli, partendo dall’omonimo romanzo di Giuseppe Catozzella, ha portato al cinema la toccante storia di Samia Yusuf Omar. E lo ha fatto con lo stesso rigore dello scrittore italiano, raccontando con autenticità e in modo credibile la vita di quella ragazzina esile e tenace che stupì il mondo alle Olimpiadi di Pechino. Con uno stile quasi documentaristico, asciutto e per nulla retorico, Non dirmi che hai paura riesce a toccare corde profonde, proprio per la sua sincerità. Molto brave le due attrici che hanno interpretato Samia: Riyan Roble da bambina e llham Mohamed Osman da ragazza. Tutto è stato curato nei dettagli, dalle scenografie ai costumi, dalle musiche alla fotografia.
Nella lavorazione sono stati coinvolti anche la sorella e altri parenti di Samia, ma soprattutto sono state ascoltate molte testimonianze di migranti somali. Perché quella di Samiaè anche, e soprattutto, una storia di emigrazione. Un racconto spietato e straziante di quei viaggi infernali che non sempre si concludono sulle coste dei paesi europei, ormai si parla di decine di migliaia di morti sepolti nel mare dello Stretto di Sicilia. E per i fortunati che riescono a sbarcare, dopo mesi tribolazioni indicibili, la sofferenza e la disperazione non sono finite, quasi sempre inizia un’altra via crucis. Il tutto nell’indifferenza generale, perché poi, nella narrazione mediatica, tutto viene ridotto alla conta dei “clandestini” sbarcati.
Invece, come nello splendido Io Capitano di Matteo Garrone, nel film di Yasemin Samdereli si racconta una vicenda umana, una storia di persone in carne ed ossa, delle loro speranze e dei loro sogni.
Persone come Seydou e Moussa, partiti dal Senegal inseguendo il sogno di diventare musicisti, o come Samia, che ha cercato con coraggio e ostinazione di vivere fino in fondo il suo: poter correre, libera e felice. Un sogno semplice, quasi banale visto dal mondo occidentale, ma proibitivo in molti paesi del sud del mondo dove le guerre, la miseria o il fanatismo islamico negano alle ragazze il diritto all’istruzione, la possibilità di cantare e ballare, persino quella di correre.
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