La leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca.
Le risate del protagonista del nuovo film di Todd Philips tramutano la citazione di Calvino in un tormentato viaggio nei deliri psicotici della mente umana. Una mente profondamente turbata da un substrato familiare -fatto di violenza, abusi repressi, isterismo- e culturale, figlia di una Gotham City, metropolitana naturalmente povera, dominio di gang e caratterizzata da una profonda oligarchia: il grande potere nelle mani di una ristretta cerchia borghese che disprezza le masse con cinismo.
Siamo nei favolosi e oscuri anni ‘70, quelli che i film di Bronson e di De Niro hanno contribuito a rendere celebri, nei volti di giustizieri che si opponevano alla violenza rispondendo con la violenza. Ed in questo contesto vive Arthur Fleck. Arthur ride ma patologicamente; Arthur è un clown che esercita la risata come strumento di opposizione a un presente a cui vuole sfuggire e da cui viene malmenato, deriso e umiliato. Arthur è un debole, si innamora non ricambiato della sua vicina di casa. Arthur è un reietto della società che per ribellarsi al dolore, alla sua mancata accettazione indossa una maschera e diventa Joker. Arthur è il piede di porco per forzare una rivolta capace di tramutare l’oligarchia di Thomas Wayne (il padre del futuro Batman assassinato al termine del film Zorro come noto in “letteratura” proprio da un uomo con la maschera da Joker) in un’anarchia collettiva.
Il film Joker di Todd Philips, vincitore del Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia, manifesta null’altro che la progressiva discesa di un uomo nell’abisso della follia. E per ossimoro, nella consapevolezza criminale di un oscuro male latente, tumore della società, di Gotham e dei suoi (finti) perbenisti, in cui lo stesso Joker, clown fallito, umiliato persino dal suo stesso divo (fa sorridere. Sì.. è proprio Robert De Niro di Taxi Driver che in quel film ne era il protagonista assoluto) diviene una specie di leader non voluto. Uccide per ripicca, scarica la sua frustrazione nell’isterica quanto inquietante risata e nella sua movenza ipnotica nello scendere le scale, nella sua magrezza aggressiva che Joaquin Phoenix interpreta bene ispirandosi al Heath Ledger nel Cavaliere Oscuro,
Joker si trova emblema del caos, senza saperlo, a gestire una folla eccitata e assetata di rivolta assurgendo a baluardo negativo, marcio sulle masse, irretite anche da uno show televisivo con tanto di morte in diretta che fa tanto kitch.
Ecco cosa rappresenta l’inquietante figura: un grande affresco sociologico e violento in cui si legge tra le righe il riflesso costante dentro le torbide coscienze umane mirate solo alla cieca contemplazione del proprio io. Osservare la propria immagine ci vuol dire Philips, significa confermare noi stessi nella validità di un contorno che ci delimita liberandoci da un indeterminatezza di fondo. Solo chi ha la conferma della propria immagine può difendersi arrogantemente dalla propria identità con le sue divisioni di classe, i propri tic, le proprie idiosincrasie, lanciandosi in un viaggio di scoperta, in una follia narcisistica che si risolve sempre nella ribadita fissità del punto di arrivo coincidente con quello di partenza.
Quello che fa Joker.
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