Robert Altman (Robert Bernard Altman) è un attore statunitense, regista, produttore, sceneggiatore, è nato il 20 febbraio 1925 a Kansas City, Missouri (USA) ed è morto il 20 novembre 2006 all'età di 81 anni a Los Angeles, California (USA).
Pochi registi sono riusciti a rappresentare l'America, la sua singolarità e le sue contraddizioni come Robert Altman. E pochi registi sono riusciti, nell'arco di una carriera quarantennale, a fare cose così sublimi, errori così clamorosi, inversioni di tendenza e di stile così marcati. Basti osservare che Altman vent'anni fa ha diretto con Nashville (1975) uno dei più grandi film mai fatti sull'America, i suoi sogni, le sue ossessioni. Nel 1985 si è perso in un disastro privo di senso e di stile come Follia d'amore, che seguiva un periodo di non minori disastri(Terapia di gruppo, 1987, più e peggio di tutti). Ed è poi rinato dalle sue ceneri, per ricominciare una serie fortunata di film - da Vincent e Théo (1990), molto interessante anche se poco altmaniano, a I protagonisti (1992), con il suo ritratto al vetriolo di Hollywood (una legittima vendetta di un grande che l'industria ha ostracizzato e maltrattato), al magnifico e crudele affresco di America oggi (1993) -, e per cadere infine nella maniera di se stesso con un film goffamente brillante come Prét-à-porter (1994), prigioniero di uno stile particolarissimo e originale ma anche della mancanza di generosità e di vera attenzione al mondo che racconta. Mentre in Kansas City (presentato a Cannes nel 1996) Altman mette in scena con fredda eleganza la corruzione e la violenza politica dell'età del jazz nella sua città natale.
Del suo passato, più che M.A.S.H., il suo maggiore successo (1970), che ha dato origine a una serie televisiva, i suoi film memorabili e inossidabili dal tempo e dalle mode restano I compari (1971), Il lungo addio (1973) e California Poker (1974), che ha inaugurato lo stile più tipicamente altmaniano - la cinepresa unica interprete di quello che si vede, i suoni che si accavallano, le vicende che si intrecciano - destinato a trovare la sua massima espressione nel capolavoro che è Nashville.
È un peccato che questo stile - perfetto riflesso del ritratto collettivo dell'America postnixoniana, con il suo mix di politica e di spettacolo, di tragedie casuali e di nevrosi sociali - sia diventato maniera in Quintet (1978) e in Health (1980), e sia stato dimenticato nel confuso divertimento di Popeye - Braccio di Ferro (1980). Ma tra i grandi, la visione di Altman, insieme a quella pur così diversa di Woody Allen, è l'unica nell'America contemporanea che non-abbia bisogno di colpi bassi e di effettacci per arrivare a segno.
Da Irene Bignardi, Il declino dell'impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
Che cosa resta di un uomo? La sua luce. Così dei danzatori che hanno lavorato con lui, e che sono morti, dice Mr. A (Malcolm McDowell), centro e cuore della compagnia di ballo che dà titolo a The Company (2003), penultimo film di Robert Altman. Ma certo dietro queste sue parole c'è lo stesso Altman, un altro Mr. A, centro e cuore di un'altra grande macchina di spettacolo. E proprio nella luce che ora ce ne resta a noi torna alla mente Il lungo addio (1973), splendida versione del romanzo di Raymond Chandler.
Con un colpo di pistola, con il più "morale" dei colpi di pistola che siano stati sparati al cinema, Phil Marlowe (Elliot Gould) chiude quel vecchio film. Allora, 33 anni fa, Robert Altman ha 48 anni, essendo nato il 25 febbraio del 1925. Già ha alle spalle film come Anche gli uccelli uccidono (1970), M.A.S.H. (1970), I compari ('9?'). Da li a due anni girerà Nashville, e poi ancora Buffalo Bill egli indiani (1976) e Tre donne (1977). Il suo cinema è già grande, per quanto forse ancor più grande diventerà più tardi, negli anni 90 del secolo scorso e nei primi di questo, a partire da I protagonisti (1992). E proprio nel capolavoro dei 1973 l'ancor giovane Altman racconta il senso profondo del suo modo di girare, e di guardare la sua America.
Quel colpo di pistola, dunque, è la risposta al tradimento e alla delusione, una risposta cruenta e allusiva allo stesso tempo. Al pari del poliziotto privato — raccontato già da Chandler come solitario, disilluso straniero in patria —, anche il regista dichiara d'aver reciso un rapporto, d'aver compiuto Un distacco. È facile intuire che quel tradimento e quella delusione, e dunque quel distacco, riguardano le sue stesse radici, la sua appartenenza e la sua cultura. D'altra parte, proprio come il suo personaggio, anche Altman cerca di alleggerire il dolore e l'amarezza mettendosene, per così dire, a distanza di sicurezza. Non a caso, dopo aver sparato, il suo Marlowe si allontana svagato, lieve come un danzatore, suonando e rielaborando con l'armonica il motivo conduttore del film.
Non è certo ironico, quel colpo di pistola, ma è ironico lo sguardo di Il lungo addio, e lo è nel senso più forte. È come un sorriso amaro, come una testimonianza di prossimità e insieme di distacco. Anzi, è come la testimonianza d'una prossimità che si capovolge in distacco, o di un distacco che tuttavia ancora soffre per una prossimità delusa. La macchina da presa sta addosso al poliziotto, quasi tentasse di avvolgerlo con il suo sguardo. Altman indugia in una circolarità che esprime la solitudine di Marlowe, la sua estraneità nel mondo che lo circonda, ma anche il proprio "prendere in giro" quello stesso mondo, il proprio tenersi a distanza dai suoi valori-disvalori, dai suoi miti- menzogne, dalla sua avidità.
D'altra parte, la circolarità (anche narrativa) è un segno del suo cinema. Molti suoi film sono storie che di continuo tornano su se stesse: storie intessute di microstorie, di vicende particolari che s'incontrano a spirale. Così accade in Nashville e, in vario modo, in M.A.S.H., I compari, Buffalo Bill e gli indiani, Un matrimonio (1978). Così accade, di nuovo, in I protagonisti, e poi in America oggi (1993), il più amaro tra i suoi film, quello in cui più apertamente "gira" attraverso il disordine del suo paese. Con la frantumazione del racconto — con una molteplicità esasperata di short cuts, di inquadrature brevi che si rincorrono —,si tiene a distanza ironica dalla catastrofe. Non c'è scontro fra autore e personaggi, non c'è coinvolgimento (apparente). Ogni storia e frammento di storia vengono presi e abbandonati, ripresi e di nuovo abbandonati, come in uno zapping gigantesco.
E appunto in un gigantesco zapping vivono i personaggi di America oggi. La trama, il significato, il "montaggio" consapevole delle loro vite: tutto è inghiottito in una frantumazione da telecomando. E invece elegante e magistrale è il montaggio del film, che contrappone la leggerezza delle immagini, e il loro ordine espressivo, alla volgarità e alla mancanza di senso umano che pure mostra e racconta. Ed è qui, nella leggerezza dei cinema, nella gioia della sua macchina, che Altman trova una propria "appartenenza" profonda e, alla fine, pacificata.
Per quanto di questa macchina — almeno nella sua versione istituzionale, hollywoodiana — dia una descrizione crudele e sarcastica in I protagonisti, è stata essa davvero la sua splendida patria, quella in cui non era più straniero. Non a caso, a 78 anni, al culmine della propria storia d'autore, Altman pensa e gira un film sul balletto che è, in realtà, un film sul cinema. E però, a differenza del film di 11 anni prima, The Company non ha alcunché da smascherare, né da irridere.
Quello che ora interessa ad Altman è la complessità, la fatica e anche la gioia dei "fare" del Jeoffrey Ballet: la complessità, la fatica, la gioia che portano prima alla singola coreografia, e poi all'opera completa, alla sua luce. E infatti nel film costruisce la sua propria coreografia di inquadrature, a partire dal lavoro che, dietro le quinte, fa nascere l'assoluto danzante. Con un montaggio magico e perfetto, passando dalla platea al dietro le quinte e di nuovo alla platea, il cinema reinventa un suo proprio assoluto. Non sono più (solo) i:corpi dei ballerini che diventano figure immateriali, forme in continua metamorfosi, ma le loro immagini create dall'occhio del cinema. Con. ciò, quell'occhio mette in movimento il movimento, fa danzare la danza, illumina la luce.
La si ritrova, questa macchina prodigiosa che crea spettacolo e leggerezza, in Radio America (2006), l'ultimo e tra i più grandi film di Altman. In quella macchina, per nulla invecchiato, si ritrova anche l'ironico Marlowe, o almeno un suo gemello. Come se uscisse dal cinema di genere degli anni 40 e 50, un poliziotto privato (Kevin Klein) ora si muove tra ombre e luci. È ancor più svagato di quello del '73, e anche più fragile. in compenso, sembra che le abbia ritrovate, una patria e un'appartenenza. O meglio, sembra che nel film siano ancora più presenti e più decisive la patria e l'appartenenza che davvero contano nella vita di Altman: quelle appunto dello spettacolo e della messa in scena. E infatti, per quanto svagato e fragile, il poliziotto si aggira per i corridoi d'un vecchio, glorioso teatro, preso fra la necessità di salvarlo dalla chiusura in nome dei dividendi e la scoperta che proprio lì, fra palcoscenico e camerini, bianca e tentatrice si aggira la Signora della morte.
In quel teatro, dedicato a F. Scott Fitzgerald, Altman ritrova l'America folk di Nashville, ma senza che su di lui gravi l'angoscia di quel film lontano, che nel sogno americano vedeva un incubo. Nella circolarità del racconto ora non c'è più alcuna "presa in giro". C'è invece l'amore profondo per quella tal macchina, capace di fare di uno spettacolo un mondo intero. C'è anche malinconia, e c'è nostalgia, per quanto l'una e l'altra pervase da una pace e una dolcezza che mai s'erano avvertite così forti nel suo cinema.
Poi, nell'ultima sequenza, nella penombra di un bar entra la Signora della morte, bianca e morbida come un angelo di carne. Seduto a un tavolo, il "gemello" di Marlowe la scorge. Non è sorpreso. Solo, si guarda nello specchio che gli sta di fianco, svagato e fragile, leggero come 33 anni fa. E a noi resta la sua luce.
Da Il Sole 24 Ore, 26 novembre 2006
Il successo arrivò a quarantacinque anni, quando con Mash vinse la Palma d'oro a Cannes nel 1970. Fino ad allora Robert Altman aveva fatto un po' tutti i mestieri, compreso il marchiatore di cani a Kansas City, la sua città. Dietro la macchina da presa, però, si mise abbastanza presto per girare film industriali a 250 dollari al mese. La sua prima esperienza come regista cinematografico, nel 1955, con The Delinquents, non fu memorabile, d'altronde con due settimane di tempo non ci sarebbe riuscito neanche Fellini.
«Per me girare un film equivale a fare castelli di sabbia» ha detto il regista di Nashville e America oggi a David Thompson nella lunga intervista fatta nel 2004 (due anni prima della sua morte), che esce ora in Italia. Altman contro Altman colpisce per la sincerità con cui il regista si dà al suo interlocutore. «Tutte le cose che faccio, di qualunque cosa si tratti, hanno una motivazione, non invento niente. All'inizio brancolo sempre nella nebbia, non vedo nulla: so soltanto che se la allontano, poi inizierò a vedere. Non so mai come girerò un film. Allora improvviso».
Robert Altman non solo improvvisava, ma pretendeva che gli attori facessero altrettanto. Molti però non gradivano tanta libertà. Per esempio, Elliott Gould e Donald Sutherland durante la lavorazione di Mash soffrivano di essere ignorati dal regista che, al contrario, lavorava sodo sulle comparse. «Dopo quattro settimane andarono a parlare col produttore con l'intento di farmi licenziare. Gli dissero "Quel tipo ci rovinerà la carriera". Io lo venni a sapere solo un anno dopo, se lo avessi saputo all'epoca avrei mandato al diavolo le riprese. Oppure mi sarei sentito cosi offeso che sarebbe venuto fuori un film diverso». Di lamentele dagli attori Altman ne ha ricevute parecchie nella sua lunga carriera. Dopo avere girato Buffalo Bill, Burt Lancaster commentò: «Altman non mi ha dato nessuna indicazione. Non è un bravo regista».
Niente in confronto a quel che accadde sul set dei Compari tra il regista e II protagonista Warren Beatty. A distanza di più di vent'anni Altman racconta: «Non è stato divertente lavorare con Warren. La cosa migliore che ha fatto è stata portare Julie Christie. "Faccio un film e mi porto anche la ragazza" mi disse. E la ragazza era più brava di lui. Julie è una di quelle attrici intuitive che recitano bene subito, mentre Warren dà il meglio di sé dalla quarta ripresa».
Altman però di riprese ne faceva al massimo cinque, considerando le successive una fissazione dell'attore. In un monologo, dopo nove prove Beatty non era ancora soddisfatto. Nonostante fosse notte fonda chiese di andare avanti. Racconta Altman: «Mi rivolsi al mio aiuto regista e gli dissi: "Io vado a letto. Rimani con Warren e fallo girare tutte le volte che vuole. Ci vediamo domani". Credevo che si sarebbe vergognato, e invece no, girò altre sette riprese. E mi pare che poi utilizzammo la terza o la quinta».
Anche il rapporto con gli sceneggiatori era spesso tempestoso. Bob, come lo chiamavano gli amici, cambiava, stravolgeva, quando non buttava via tutto il lavoro. Per i dialoghi della casalinga che sbarca il lunario con un'hot line domestica, in America oggi, «chiesi a Jennifer Jason Leigh di scrivere le battute perché avrebbe dovuto pronunciarle lei. Jennifer andò in uno di quei luoghi dove ci si masturba e qualche giorno dopo arrivò sul set dicendo: "Be', volete sentire il materiale che ho?". Lei iniziò a parlare davanti alla troupe e lasciò tutti senza parole. "È fantastico" le dissi. "Adesso mentre dici queste cose cambia il pannolino alla bambina"».
Quanto alla sua visione del cinema eccola: «lo credo che sia una forma d'arte, perché non c'è nient'altro che le assomigli. Copiamo tutti da noi stessi o da qualcun altro. Nessuna idea è nata dal nulla». E sulla carriera «Nella mia vita ho avuto cinque nomination all'Oscar, e anche se la gente non mi crede, sono contentissimo di non averlo vinto mai. Quello che mi procura felicità è fare il film». Quando andò in Inghilterra per girare Gosford Park capì la differenza tra gli attori americani e quelli inglesi: «Gli americani si offrono per un tuo film concedendoti al massimo sei giorni. Alan Bates ha lavorato cinque giorni a settimana per un mese e mezzo e non aveva più di cinque battute, si limitava a borbottare sullo sfondo. Gli inglesi, abituati al teatro, ritengono naturale stare costantemente sul set. Se avessi avuto attori americani i loro agenti sarebbero venuti a misurare le distanze delle roulotte, per chiedere di più. Una catastrofe!». Eppure l'ultimo film, Radio America, Altman l'ha girato nel suo Paese, ed è stato il suo commiato. Il 20 novembre dell'anno scorso ci ha lasciati. L'Academy gli aveva pochi mesi prima conferito l'Oscar alla carriera. Di lui ci rimangono più di trenta film e questo ritratto di uomo imprevedibile, generoso, testardo e molto capriccioso.
Da Il Venerdì di Repubblica, 26 ottobre 2007
Assistendo a una sfilata di moda, a Parigi, il regista si entusiasma: «È fantastico - dichiara - È come il circo». Nasce così Prét-à porter (1995). Ma così era già nato tutto il suo cinema, che guarda al mondo come una divertente, paradossale e frenetica gabbia di matti. Dopo aver studiato dai gesuiti (è un buon cattolico), aver partecipato alla seconda guerra mondiale come pilota, essersi impadronito della tecnica audiovisiva facendo film industriali e lavorando in televisione, approda al cinema con opere di scarso peso. Solo quando scopre il «circo», con la farsa bellica di M.A.S.H. (1969), mette davvero piede nel cinema e si fa largo nella professione che sarà per sempre la sua. Ha compreso che l'umanità è in preda al delirio, e il delirio racconterà. La follia di un ragazzo che tenta di volare (Anche gli uccelli uccidono, 1970), l'impresa di due disperati in una città che sta sorgendo nel West agli inizi del Novecento ((I compari, 1971), una allucinata avventura di Philip Marlowe alla caccia di un amico assassino (Il lungo addio, 1973), la frenesia gratuita di due giovani rapinatori ((Gang, 1973), l'inutile fortuna di due scombinati, afflitti dal demone del gioco ((California Poker, 1974) sono alcune tappe della prima stagione altmaniana, che culmina nel formicolante e feroce capolavoro che narra di un festival di country music (Nashville(, 1975).
Incerto sul futuro che l'attende, il regista oscilla fra la psicoanalisi ((Tre donne(, 1977), la farsa convulsa e mediocre ((Un matrimonio(, 1978), una tetra fantascienza ((Quintet(,1978). I risultati non convincono. Si appoggia a commedie che gli permettono di ridurre i costi di lavorazione (se la cava abbastanza bene con (Jimmy Dean, Jimmy Dean,) 1982, e con Streamers, 1983) ma il cinema lo sta emarginando: non è più un autore di successo. Sarà sparando contro il cinema, e la sua atroce filosofia del potere, che troverà l'energia per tornare al centro della scena, con la impietosa descrizione del «circo» Hollywood (I protagonisti,1992). Un passo ancora, e sarà la descrizione del «circo» America, un'altra volta dopo Nashville (America oggi, funereo ritratto sarcastico dei californiani, 1993). Il successivo, parigino Prét-à porter non scopre un «circo» nuovo, gira un poco in tondo.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi, Roma, Newton Compton, 1995