Pierre Fresnay è un attore francese, è nato il 4 aprile 1897 a Parigi (Francia) ed è morto il 9 gennaio 1975 all'età di 77 anni a Neully-sur-Seine (Francia).
La cosa più acuta sull’attore di teatro e di cinema Pierre Fresnay l’ha detta, in fondo, un collega, Jean Gabin. È noto che, come dice appunto un proverbio francese, si è traditi soltanto da quelli del proprio sangue. L’osservazione di Gabin non è proprio quella di un traditore, ma sembra l’espressione di un rivale che ha occhi acuti e sa scorgere una fessura nella corazza dell’avversario. L’aneddoto si situa negli anni in cui Jean Renoir girava La grande illusion. Gabin espresse così il proprio giudizio sul collega Fresnay: «Capisci, si tratta di un grande tipo... ma di fronte a lui tu hai sempre l’impressione di sbagliarti di forchetta».
Di suo vero nome Pierre Laudenbach, Fresnay è nato a Parigi il 4 aprile del 1897. I suoi antenati erano alsaziani, cioè gente di confine, di religione riformata; molti pastori protestanti appartengono alla famiglia, ma vi appartiene anche un attore della «Comédie Française», ciò che può spiegare la vocazione, rivelatasi in età giovanissima, del piccolo Pierre. il padre era insegnante di filosofia in uno dei numerosi licei parigini, e il ragazzo fece non poca fatica ,a persuaderlo che la carriera di attore non era troppo in contrasto con le tradizioni familiari. Il successo gli fu subito facile; nel 1919 era già alla «Comédie», che lasciò quattro anni dopo per andare incontro a ruoli più liberi, S’è sposato tre volte e sempre con attrici: l’ultima volta, nel 1932, con la seconda signora Guitry, la nota attrice di commedie leggere Yvonne Printemps, dalla quale non s’è più diviso. Questi i dati esterni.
Ma volendo approfondire il profilo di colui che è forse il più grande attore francese d’oggi, bisogna fermarsi soprattutto sul carattere, sul personaggio. Prima di tutto è necessario tornare alla osservazione di Gabin: Fresnay è un «monsieur», un signore. Lo è per il modo di fare, per il fisico, per il modo di vestire, lo è soprattutto per gli straordinari doni che ha avuto dalla natura. Gli altri attori francesi sono legati a una figura, alla - voce, a certi caratteri esterni, sono schiavi della loro apparenza fisica. Qualsiasi cosa faccia, Gabin sarà sempre un uomo rude, un operaio, o almeno qualcuno che s’è fatto dal nulla. Camminerà goffamente, poggiando con pesantezza sui piedi piatti; non sarà mai un uomo elegante; i suoi capelli si ribelleranno sempre alle cure del pettine. Né Jouvet potrà mai dimenticarsi del naso aquilino, degli occhi troppo acuti, della lunga statura, della mancanza naturale di slancio; sarà sempre legato alla razionalità, a un parlare lento e riflessivo, non potrà mai essere un innamorato pieno di fuoco, qualcuno che aggredisce la vita, Ecco invece Fresnay. È piuttosto basso di statura, ma è ben proporzionato e il difetto non appare: ha un volto dai tratti regolari ma con un’espressione mobilissima. Al naturale gli occhi sono dolci, patetici, la fronte è alta, da intellettuale: e tutto il volto rammenta una vecchia stirpe, macerata nei dubbi e nel pensiero; appartiene evidentemente a qualcuno che da lungo tempo non sa più cosa siano i lavori manuali, la fatica pesante e senza respiro, la preoccupazione del domani, l’ansia del pane quotidiano, dei quattro soldi da portare a casa alla moglie affaticata e ai figli, sempre famelici, che aspettano. Pierre Fresnay recita con la stessa naturalezza con la quale tutti noi respiriamo. È evidente che per lui il raffigurare personaggi, caratteri diversi è un giuoco inesauribile, ricco di risorse infinite. Perché Fresnay non ha preferenze; può essere indifferentemente un ufficiale di cavalleria, un evaso, un amante settecentesco, un vitaiolo principio di secolo, un santo cattolico o un sagrestano vagamente protestante e deista. Può essere, sulla scena, il grande scrittore Marcel Proust, come l’ha raffigurato due inverni fa Malaparte. E raffigurare Proust, a meno di trent’anni dalla morte del romanziere della «Recherche», in una città che era la sua e nella quale vivono ancora molti che lo conobbero di persona, è evidentemente una impresa tale da impressionare qualsiasi attore. Tanto più che Proust non era uno scrittore da accademia, come il tale e il tal altro che hanno apparenza di droghieri arricchiti o di avvocati caduti, chi sa come, nella professione letteraria, ma un artista delicatissimo, molto snob, a suo modo elegante, anche se si dimenticava spesso di levarsi il cotone idrofilo che appariva fuori del solino inamidato quando, felice e sereno, scendeva verso sera le vie del centro in cerca di amici e di ristoranti alla moda. I comici sono tipi ammirevoli, ma è difficile, quando si è attori, p05-sedere il genio creatore e critico di Molière. Però è chiaro che quando si è capaci di. essere nello stesso tempo ineccepibili ufficiali di cavalleria, patetici evasi, santi canonici o sagrestani in sospetto di, pirateria, bisogna possedere un’intelligenza sottilissima.
L’incontro di Pierre col cinematografo avviene prestissimo, nel 1915, quando il nostro non ha che diciotto anni. In quel tempo il cinematografo in Francia è la patria di Lumière, uno scienziato pieno di disinteresse che ha inventato il nuovo mezzo di espressione, e di Méliès, un personaggio buffo e geniale che apre le vie all’imm4ginazione e al sogno, ma è anche la terra di Déroulède, cioè dei borghesi patriottardi che anelano la «revanche» dietro le scrivanie dei consigli d’amministrazione; e siccome siamo nel 1915, nel secondo anno di una guerra lunga e mortale, i borghesi alla Déroulède l’hanno facilmente vinta sui sognatori alla Méliès. È la ragione per cui Fresnay, così ben educato, così fine, inizia la sua carriera cinematografica con una pellicola che si intitola France d’abord; malinconico compito d’un giovane .che l’anno prima aveva avuto la parte di Mario, al Théatre Français, nel «Jeu de l’amour et du hazard» di Marivaux. L’importante tuttavia per un attore giovane è recitare, guardarsi d’attorno, farsi le ossa, far tesoro di preziose esperienze. Quando appare in un brutto film, Koenigsmark, nel 1935, le spettatrici suonano il campanello d’allarme; hanno scoperto un attore di cinema che vorranno rivedere molto spesso. Ma con Fresnay, in questa direzione, non c’è niente da fare. Non gli piacciono le «grisettes», le dattilografe, le «mannequins» cui tanto garba la mediocre letteratura di Pierre Benoit. Egli ama altri testi, tende l’orecchio a un’altra prosa, o forse a un’altra poesia. In un paese di cultura come è la Francia, nel quale la letteratura è prima di tutto un affare di società e addirittura di Stato, è sin troppo facile scoprire, dietro le attrici e gli attori celebri il profilo di un famoso scrittore. Così se, ovviamente, è facile scorgere dietro la «sécheresse» di Jouvet, il volto amaro di Molière e quello patetico di Giraudoux; se Michèle Morgan è, inevitabilmente, la Sylvie di Nerval; se Gabin è un personaggio di Zola; se Barrault è una fantasia di Baudelaire; se Arletty è un’eroina di Charles-Louis Philippe; Fresnay è un tipo che affonda le sue radici più lontano, è l’attore più aristocratico e crudele di Francia, colui che raggiunge ,Racine e il cardinale di Retz attraverso il Laclos delle «Liaisons dangereuses», Trascurando i fatti della vita privata, che non ci appartengono ma che sono rivelatori (l’esclusivo amore per le attrici: ma la languida Champmeslé di Racine ha per Pierre tre volti: è Rachel Bérendt, dell’Odéon, è Berthe Bovy, è, finalmente, Yvonne Printemps), la vocazione raciniana di Fresnay gli è dettata da molte ragioni, e tutte valide: la tradizione ugonotta che compensa il giansenismo dell’autore di «Fedra», il fondo aristocratico (lo straordinario ufficiale di La grande illusion), l’amore delle situazioni eroiche e dell’intrigo, Sous les yeux d’Occident, Le corbeau, Adrienne Lecouvreur, Soprattutto lo scopre il gusto «crudele», che non è la propensione alla crudeltà intellettuale, nel senso del povero Antonin Artaud, quanto piuttosto un’intima propensione verso il cristianesimo rigoroso, dal sacrificio umbratile e come spento, che non chiede ricompensa ma si chiude e ha il premio in se stesso, Questo fondo non lo. si scorge tanto nelle cinematografie più apertamente religiose: in Monsieur Vincent (1947), tecnicamente la cosa più stupefacente di Fresnay sino ad oggi, è né in Dieu a besoin des hommes (1950), quanto nel dimenticato Chéri-Bibi (1938) e in La grande illusion (1937). Se La grande illusion è nella memoria di tutti gli amatori del cinema d’arte, Chéri-Bibi è un film che ha avuto scarsa risonanza. Didetto da un regista non volgare, né sprovveduto, Léon Mathot, Chéri-Bibi è la storia di un forzato che si sacrifica per i compagni. Con la piccola testa intelligente rapata, con addosso i luridi panni del forzato in fuga, per forza di fantasia Fresnay riusciva a trasfondere in noi la sua forza vitale, a farci dimenticare i «décors» evidentemente fasulli, e l’acqua minerale che ci attendeva, ghiacciata, al primo bar di angolo, per trasmetterci la passione della bestia braccata, per farci venir secca la gola, le membra oppresse dal micidiale clima della colonia penale.
In una civiltà nella quale le tre cose che Fresnay considera di più al mondo - l’amore, il sacrificio, l’onore - vengono irrise e neglette, non c’è da stupirsi se la lezione dell’attore sembri un po’ fuori tempo e, per tutto dire, leggermente inattuale. Si ammira l’interprete prodigioso, ma si ha alquanto disdegno per il suo messaggio, per il suo mondo morale. Sembra poi certo a coloro che lo amano, che Fresnay abbia evitato l’ostracismo solo per ragioni tecniche, solo perché sa troppe cose perché ci si possa dimenticare impunemente di lui. I produttori che hanno osato metter da parte Arletty, che è la donna di Le jour se lève, Arletty, la cui frase d’avvio «je m’appelle Garance», in Les enfants du paradis è una di quelle che restano incancellate nei cuori, non son certo tipi da intenerirsi al ricordo dell’ufficiale di La grande illusion che passa oltre i, pregiudizi di casta per tener fede all’onore militare. Ma Fresnay ha il tempo per lui. L’uomo senza vanità che ha disprezzato, al tempo di Koenigsmark, l’omaggio delle sartine, sa che gli anni possono rovinare Jean Marais e far dimenticare Annabella, ma non chi sente come una lezione perenne, nel cuore partecipe, l’eterno rimprovero dell’antica Regina e il lancinante rifiuto dell’Imperatore: «Titus reginam Berenicem dimisit, invitus invitam.»