Paul Newman (Paul Leonard Newman) è un attore statunitense, regista, produttore, è nato il 26 gennaio 1925 a Shaker Heights, Ohio (USA) ed è morto il 26 settembre 2008 all'età di 83 anni a Westport, Connecticut (USA).
Paul Newman si sarebbe affermato con alcuni ruoli come quello di Rocky Graziano in Lassù qualcuno mi ama (Robert Wise, 1956), quello del protagonista in Furia Selvaggia: Billy Kid, il Ben Quick di La lunga estate calda (Martin Ritt, 1958), Lo spaccone (Robert Rossen, 1961): tutti personaggi di ribelli proletari, gente molto diversa dall'attore che li avrebbe interpretati. Paul nasce infatti (il 26 gennaio del 1925) in una famiglia agiata che viveva a Shaker Heights, nell'Ohio, un elegante zona residenziale vicino Cleveland. II padre è il proprietario di un negozio di articoli sportivi (il più grande del paese) e il giovane figlio riceve una buona educazione pur mostrando una certa propensione alle discipline sportive. Si dedica alla recitazione per caso: escluso dalla squadra di football (per punizione: era stato coinvolto in una rissa), decide di impiegare il tempo libero entrando in una compagnia teatrale con la quale farà parecchi spettacoli. La sua carriera d'attore rischia di interrompersi quando il padre muore e il ragazzo si occupa per due anni di gestire il negozio. Ma evidentemente non è quello che vuole: torna dunque alla recitazione e, come avrà modo di dichiarare, fu "molto, molto fortunato". Dopo alcuni lavori fra teatro e televisione, nel 1953 ha un grosso successo in Picnic, una produzione di Broadway che gli vale un contratto con la Warner. Il primo film che gli affida lo studio rischia di chiudere per sempre le porte del cinema all'attore: si tratta di un polpettone e psico-religioso intitolato Il calice d'argento (Victor Saville, 1954). Newman torna a Broadway per ottenere un grande successo con Ore disperate, un ruolo che gli procura in seguito la chiamata per interpretare il pugile Graziano in Lassù qualcuno mi ama, il film che lo consacrerà davvero come divo. Per alcuni anni sarà spesso messo a confronto con Marlon Brando e James Dean, ma con il passare dei tempo Newman si affermerà come star di prima grandezza, interprete sensibile e versatile, uomo di cinema a trecentosessanta gradi (passa infatti alla regia alla fine degli anni sessanta e produce diverse pellicole).
Incantevoli occhi celesti, sorriso audace, sguardo intenso e un po' tormentato. Paul Newman non era "soltanto" un'icona del cinema e uno dei più popolari sex-symbol di tutti i tempi, ma anche un attore di enorme talento, capace di esprimere alla perfezione il malessere, le debolezze e la voglia di riscatto dei propri personaggi. Le sue più grandi interpretazioni restano quelle di "duri" dal cuore tenero, uomini che dietro una sfrontata spavalderia tentano di nascondere un'inconfessata fragilità: da Brick Pollitt, atleta alcolizzato e marito impotente di Liz Taylor ne La gatta sul tetto che scotta, a Eddie Felson, campione di biliardo vittima della propria ambizione ne Lo spaccone; dal gigolò che si adagia in una vita da mantenuto ne La dolce ala della giovinezza al playboy cinico e prepotente di Hud il selvaggio.
Ma Paul Newman è stato anche il leggendario Butch Cassidy, ironico fuorilegge in un Far West al tramonto, ed Henry Gondorff, la simpatica canaglia intenta ad architettare con il socio Robert Redford una divertentissima "stangata". Il suo piglio ribelle, simile a quello di altri due miti appartenenti alla stessa generazione (Marlon Brando e James Dean), con il passare degli anni si era stemperato in uno sguardo bagnato di malinconia, in cui l'azzurro profondissimo degli occhi sembrava quasi evocare il rimpianto per una bellezza ormai avviata al crepuscolo.
Paul Leonard Newman nasce il 26 gennaio 1925 a Shaker Heights, una cittadina dell'Ohio. Dopo aver rinunciato alle sue aspirazioni come pilota, decide di voler fare l'attore e si trasferisce a New York, dove si iscrive all'Actor's Studio. Il debutto a Broadway avviene nel 1953 in Pic-nic, e il cinema non tarda ad accorgersi di lui: dopo un mediocre esordio con Il calice d'argento (1954), nel 1956 Newman interpreta Lassù qualcuno mi ama di Robert Wise, nei panni di un giovane e ardimentoso pugile; il successo è immediato, e in breve tempo l'attore si ritrova nel novero delle grandi star di Hollywood.
Il 1958 è l'anno della definitiva consacrazione, grazie al western Furia selvaggia di Arthur Penn ma soprattutto a La gatta sul tetto che scotta di Richard Brooks, fortunatissimo adattamento cinematografico del dramma di Tennessee Williams, con Newman nel ruolo di un atleta alcolizzato sposato con l'affascinante Elizabeth Taylor. Nel frattempo sposa in seconde nozze l'attrice Joanne Woodward, con la quale nel frattempo recita ne La lunga estate calda e Missili in giardino; il matrimonio fra Newman e la Woodward dura per ben cinquant'anni, fino alla scomparsa dell'attore, e resta una delle unioni più durature nella storia di Hollywood.
Intanto, la carriera di Paul Newman prosegue con I segreti di Filadelfia (1959), Dalla terrazza (1960) ed Exodus di Otto Preminger (1960), dramma storico sulla nascita dello Stato di Israele. Nel 1961, accanto a Piper Laurie, l'attore dà vita a uno dei suoi personaggi più memorabili: quello di Eddie Felson, sfrontato campione di biliardo destinato ad un amaro fallimento nel film Lo spaccone, diretto da Robert Rossen. L'anno seguente, interpreta il bellimbusto che si fa mantenere dalla matura diva Geraldine Page ne La dolce ala della giovinezza di Richard Brooks.
Nel 1963, Paul Newman è protagonista del thriller Intrigo a Stoccolma di Mark Robson e del dramma Hud il selvaggio di Martin Ritt, nella parte del figlio ribelle di un allevatore texano, al fianco di Patricia Neal e Melvyn Douglas. Nel 1966, invece, recita in due fortunati gialli: Detective's story, nel ruolo dell'investigatore Harper, e Il sipario strappato, con Julie Andrews, per la regia di Alfred Hitchcock. L'anno seguente regala un'altra prova magistrale nel film Nick Mano Fredda di Stuart Rosenberg, interpretando un carcerato che tenta disperatamente di evadere dalla prigione.
Nel 1968 debutta dietro la macchina da presa con La prima volta di Jennifer, ritratto al femminile di un'insegnante repressa in cui l'attore dirige sua moglie Joanne Woodward; la pellicola è accolta dal consenso unanime dei critici e gli vale il Golden Globe come miglior regista e la nomination all'Oscar per il miglior film. In seguito, Newman dirigerà anche altre pellicole, fra cui Sfida senza paura (1971).
Nel 1969, Paul Newman è protagonista insieme a Robert Redford del celeberrimo Butch Cassidy di George Roy Hill, in cui dà vita al personaggio del titolo: un bandito che, insieme al suo compare Sundance Kid, svaligia i treni dell'Union Pacific. Butch Cassidy ha un enorme successo e diventa un classico della New Hollywood, mentre il sodalizio fra Newman e Redford sarà rinnovato nel 1973 con la commedia La stangata, storia dell'ingegnosa truffa organizzata da due vivaci imbroglioni nel famosissimo film di George Roy Hill.
Negli anni '70, dopo essere stato diretto da John Huston ne L'uomo dai sette capestri (1972) e L'agente speciale Mackintosh (1973), recita nel film catastrofico campione d'incassi L'inferno di cristallo di John Guillermin e Irwin Allen (1974), in mezzo a un cast di superstar che include nomi del calibro di Steve McQueen e Faye Dunaway. Nel 1976, invece, è un inedito Buffalo Bill nel dissacrante Buffalo Bill e gli indiani, firmato da Robert Altman.
Nel corso degli anni '80, Paul Newman si conferma interprete di primissimo piano grazie a titoli quali Diritto di cronaca di Sydney Pollack (1981), in cui viene messo sotto accusa dalla reporter Sally Field, e Il verdetto di Sidney Lumet (1982), un magnifico dramma giudiziario in cui Newman regala l'indelebile ritratto di un avvocato alcolizzato e alla deriva. Nel 1986 torna a vestire i panni dell'asso del biliardo Eddie Felson, questa volta accanto a un giovane Tom Cruise, ne Il colore dei soldi di Martin Scorsese, per il quale si aggiudica finalmente il premio Oscar come miglior attore, appena un anno dopo aver ricevuto l'Oscar alla carriera.
Nel 1990, Newman recita accanto alla moglie nell'apprezzato Mr. & Mrs. Bridge, diretto da James Ivory, mentre nel 1994 è alle prese con un personaggio crepuscolare nel melodramma La vita a modo mio di Robert Benton. La sua definitiva apparizione sul grande schermo risale del 2002, quando Newman si congeda dal mondo del cinema con una grandiosa interpretazione nei panni di un anziano boss del crimine nel film drammatico Era mio padre di Sam Mendes. Il suo ultimo impegno come attore è però nel cast corale della miniserie televisiva Empire falls (2005), ancora una volta (l'ultima) insieme alla Woodward, prima del ritiro dalle scene.
In oltre mezzo secolo di carriera, Paul Newman ha guadagnato una quantità impressionante di riconoscimenti: oltre all'Oscar per Il colore dei soldi, ha vinto un Oscar alla carriera nel 1986 ed ha ottenuto dieci nomination (nove come attore e una come produttore). Fra gli altri trofei conquistati: un premio a Cannes per La lunga estate calda, un Orso d'Argento a Berlino per La vita a modo mio e tre Golden Globe (di cui uno alla carriera nel 1984).
Oltre che per il cinema, Paul Newman era noto anche per la sua passione per le corse automobilistiche (lui stesso è stato un formidabile pilota). Molto impegnato sul fronte della lotta per i diritti civili e in numerose cause di beneficenza, era da sempre un attivo sostenitore del Partito Democratico, ed era intervenuto spesso nelle campagne elettorali di vari candidati. Sposatosi due volte, Newman ha avuto in tutto sei film, un maschio e cinque femmine; il suo primogenito, Scott, è morto di overdose nel 1978, a soli 28 anni. In ricordo del figlio, l'attore aveva fondato lo Scott Newman Center, un centro per la prevenzione contro la tossicodipendenza.
Divo non basta, personaggio non basta, esempio non basta, e neppure eroe descrive compiutamente Paul Newman. Occorrono tutte quelle definizioni, insieme. Paul si rivelò verso la metà degli anni cinquanta, un momento favorevole per immettersi e dare indicazioni diverse. Aveva trent'anni, era conscio del proprio appeal sul quale lavorare, per cominciare; adesso si trattava di mettere a fuoco le ambizioni, di perfezionare la propria attitudine, di non fare errori. Una decina di anni prima era su una portaerei al largo del Giappone poco prima di Hiroshima. Insomma prese contatto con la guerra. E tornato a casa, entrando nell'Actor's Studio a New York, capì che molto era cambiato, era cambiata l'America e dunque il mondo. Soprattutto, e questo lo interessava da vicino, sarebbe cambiato il cinema. I reduci come lui erano stati testimoni, in Paesi lontani e diversi, di realtà devastanti e sconosciute, che adesso erano conosciute. I film tutti col lieto fine sarebbero stati imbarazzanti. L'eroe assoluto Gary Cooper, marito e padre perfetto, era sorpassato. Ce ne voleva uno nuovo. E il novo eroe fu Paul Newman, attento alla realtà, ai diritti e anche al dolore, al sociale e all'evoluzione generale. Evoluzione significava dunque "ribellione". I suoi compagni del gruppo fondatore dell'Actor's Studio furono tutti ribelli, bastano i nomi: Brando, Dean, Clift. Lui sarebbe stato il più longevo, forse il più intelligente. Aveva talento, ma non quello di un Brando, all'inizio esagerava con la maniera, nel tempo supplì con l'applicazione. Era bellissimo ma cercò sempre di non darlo a vedere. In Lassù qualcuno mi ama ha la faccia devastata del pugile Graziano, nello Spaccone (sono i due titoli che ne fecero un divo) lo picchiano e gli fratturano le mani. Nella Dolce ala della giovinezza gli fracassano il naso con un bastone. Era quasi sempre così. In Nick manofredda, dove fa il detenuto, George Kennedy lo massacra senza pietà, ma lui non cede, si rialza continuamente, maschera di sangue, ma non cede.
Ribelle. Contestò tutti, dai genitori al "padrone", era intollerante alle imposizioni e a tutte le autorità, anche quella trascendente. Sempre in "manofredda" se la prende con quello lassù: "sono qui a invocarti, ma parlo al nulla." Ma Newman poteva essere arrabbiato, ma non ateo, così, alla fine rivede il concetto: "signore, forse le carte me le hai date, ma le ho giocate male."
La famiglia. Negli anni d'oro, i Sessanta, quelli vitali, della consacrazione, non è mai stato padre, se era marito era divorziato con problemi enormi di rapporto con l'ex. In Detectiv's Story a latere della sua indagine, delude ancora una volta la moglie (che ha già chiesto il divorzio), sa di essersi giocato l'ultima possibilità con lei, ma va avanti "devo concludere il mio lavoro" che significa denunciare il suo migliore amico che ha commesso un delitto. "Quando ci siamo conosciuti - gli dice- eri candidato a governatore della California. E' normale per un aspirante governatore assassinare la gente?" Quando l'altro gli punta la pistola per fermarlo, gli dice "puoi spararmi, per come mi sento adesso non sarebbe la cosa peggiore...".
Così alla fine del film Paul, con fatica e dolore, e con rigore, tornava l'eroe nascosto. Ritrovava una morale credibile, non sovrumana. Quasi sempre nei film aveva maltrattato tutti ma finiva per rispettare tutti. Visto che il suo privato Sempre nei film) era disastroso, tanto valeva essere utile agli altri. E dunque valeva l'attenzione ai deboli, agli indifesi e ai diversi e l'applicazione relativa. Era un liberal, nei film e nella vita. Si schierava col candidato democratico, la sua firma era sempre fra le prime nei cartelli dei diritti civili e dei diritti alla pace.
Nei decenni seppe adeguare i ruoli all'età. Minore azione, minore rabbia, ma sempre applicazione assoluta e spinta ideale, seppure nascosta. Mentre avanzavano altri personaggi. Nella generazione successiva forse prevale De Niro, talentuoso, ambiguo, febbrile, ma eroe no, e poi sta invecchiando troppo male. Il "contemporaneo" Clooney, è bello e intelligente, impegnato e trasgressivo il giusto, ma anche lui senza eroismo. Oggi i giovani eleggono, quasi all' unanimità, Johnny Depp, forse più duttile di Newman, collocabile ovunque, anche in abiti femminili che Paul non sarebbe proprio riuscito a indossare.
Chi era nell'età vulnerabile, come chi scrive, quando Newman era modello ostico e difficile ma esempio irresistibile, non può non averlo amato con tutto il cuore. Assumevi la sua energia e il suo incanto, le sue azioni erano le tue. Prendevi i suoi pugni, seducevi le donne con lui, eri al suo fianco quando faceva Harper e guidava la Porsche. Impugnavi stecca da biliardo con lui. Qualcosa di più dell'identificazione.
Con lui eri in buone mani. Le sue indicazioni erano quelle dell'eroe ma dalle misure giuste, trasgressivo senza spinelli.
Adesso che non è più qui non puoi far finta di niente. La sua presenza sullo schermo poteva diventare presenza fisica che ti stava al fianco. Come un amico.
A young, dewy Paul Newman made his unlikely movie debut in this 1954 biblical epic, filmed in color and wide screen by Victor Saville. Clad in a toga, Newman seems to be struggling to forget his Actors Studio training. His role, as a Greek slave commissioned by an early Christian patriarch to fashion a chalice worthy of containing the silver cup used by Jesus at the Last Supper, never moves much beyond the standard biblical beefcake of the period — as forever exemplified by Victor Mature in Cecil B. DeMille’s “Samson and Delilah.”
Earnest as he is, Newman is easily upstaged by Jack Palance, offering one of his maddest performances as Simon the Magician, a wily trickster with satanic facial hair whose job it is in this first century A.D. to produce some miracles spectacular enough to make ’em forget Jesus. Blond, strapping Virginia Mayo, top billed, is Palance’s partner, a courtesan with Midwestern vowels who also holds Newman’s heart in her hands from their days as children together (during which she is played by Natalie Wood). Her good-girl rival is the tiny, birdlike Pier Angeli, portraying a Christian with hopes of bringing the silversmith around, a transformation accomplished with the help of an appearance by a very special guest.
As a director Saville demonstrates little personal commitment to the material. (His previous film was a Mickey Spillane adaptation.) But “The Silver Chalice” is distinguished by a daring use of stylized, theatrical sets, executed in a stripped-down midcentury-modern style that suggests a Jerusalem designed by Philip Johnson. Newman had to wait two years for his next shot, when he replaced the deceased James Dean in the Rocky Graziano biopic “Somebody Up There Likes Me” (Angeli was again his leading lady), at which point his career really took off.
“The Silver Chalice” is one of five titles Warner Home Video is releasing as “The Paul Newman Film Series.” The others are “The Helen Morgan Story” (Michael Curtiz, 1957), “The Outrage” (Martin Ritt, 1964), “When Time Ran Out” (James Goldstone, 1980) and the 1968 film that was Newman’s first and probably best job of directing, “Rachel, Rachel,” starring Joanne Woodward. (Warner Home Video, $19.97, not rated)
Da The New York Times, 15 febbraio 2009
Paul Newman always wore his fame lightly, his beauty too. The beauty may have been more difficult to navigate, when he was young in the 1950's and still being called the next Marlon Brando, establishing his bona fides at the Actors Studio and on Broadway.
Yet Mr. Newman, who died at his home in Westport, Conn., on Friday, never seemed to resent his good looks, as some men did; instead, he shrugged them off without letting them go. He learned to use that flawless face, so we could see the complexities underneath. And later, when age had extracted its price, he learned to use time too, showing us how beauty could be beaten down and nearly used up.
You see the dangerous side of his beauty in “Hud,” Martin Ritt's irresistible if disingenuous 1963 drama about a Texas ranching family in which Mr. Newman plays the womanizing son of a cattleman (the Hollywood veteran Melvyn Douglas), who's hanging onto a fast-fading way of life. The movie traffics in piety: the father refuses to dig for the oil that might change the family's fortunes because he doesn't approve of sucking the land dry. Mr. Newman plays the son, Hud, and it's his job to sneer at the old man's naïveté and to play the villain, which he does so persuasively that he ends up being the film's most enduring strength.
A lot of reviewers clucked about Hud and Mr. Newman's grasping bad-boy ways (the word they used then was materialism), but the camera loves this cowboy Lothario so much — or, rather, the actor playing him — that his father's high-and-mighty ways don't stand a chance. Nobody else much does, either: when Hud hits on the family housekeeper (a smoky-voiced, smoking Patricia Neal), he sinks back in her bed and, with his nose deep in a daisy, asks with a leer, “What else you good at?” Rarely has the act of smelling a flower seemed as delectably dirty. It's no wonder that Pauline Kael, who refused to buy just about anything else this movie was selling, gave Mr. Newman his due.
There are some men, Kael wrote, who “project such a traditional heroic frankness and sweetness that the audience dotes on them, seeks to protect them from harm or pain.” Mr. Newman did that for Kael, enough so that she was inspired to write about her own past and the California town that she “and so many of my friends came out of” — and, here, I think she means girlfriends — “escaping from the swaggering small-town hotshots like Hud.”
What's striking is that what got Kael going wasn't the actor or his performance but the man, who, because he seemed to offer up an intangible part of himself, something genuine and real, something we could take home, became a true movie star.
I don't think Mr. Newman was ever as beautiful as he is in “Hud.” His lean, hard-muscled body seems to slash against the wide-screen landscape, evoking the oil derricks to come, and the black-and-white cinematography turns his famous baby blues an eerie shade of gray. The character would be a heartbreaker if he were interested in breaking hearts instead of making time with the bodies that come with them. That's supposed to make Hud a mean man, but mostly he seems self-interested. No one is tearing him apart and Mr. Newman doesn't try to plumb the depths with the role, which makes the character and the performance feel more contemporary than many of the head cases of the previous decade. He finds depths in these shallows.
Early in his career, Mr. Newman was often mistaken for Brando, so much so that he took to signing the other man's autograph. Both studied at the Actors Studio and jumped to Hollywood, but there's not much else to connect them beyond our demand for the Next Big Thing. The resemblance seems hard to grasp now, given their trajectories and how differently the two register onscreen: Brando sizzles, while Mr. Newman is as cool as dry ice. And unlike Brando, who at his death was often unkindly remembered for his baroque excesses, Mr. Newman seemed immune, bulletproof. (An exception: his support for Eugene McCarthy, which landed him on Nixon's enemies list.) He had a talent for evasion.
It was a talent that served him well during the 1960s, the decade in which he picked up the mantle of Hollywood stardom that Brando had shrugged off. Mr. Newman was one of the dominating male screen figures of that decade, appearing in critical and commercial successes like “Cool Hand Luke,” a 1967 prison movie-cum-religious-allegory, and the 1969 western “Butch Cassidy and the Sundance Kid,” in which he found a partner in charm in Robert Redford. These days, 1969 is more often remembered for another buddy movie, “Easy Rider,” but “Butch Cassidy” may have had more lasting impact on the so-called New Hollywood, which struck gold with two photogenic male leads whose easy, breezy rapport helped transform rebellion into a salable, lucrative package.
Mr. Newman, who signed a contract with Warner Brothers in the 1950s, was a transitional figure between the old Hollywood and the new. Warners foolishly put him in a ludicrous 1954 costume extravaganza called “The Silver Chalice.” He did better as the boxer Rocky Graziano in the 1956 biopic “Somebody Up There Likes Me.” His Lower East Side accent is so thick it could have been served on rye at Katz's Delicatessen, but he holds the screen with his pretty-boy kisser and an intense, at times wild physical performance that suggests a terrific will behind that impeccable facade. He seems to be hurling himself at the camera, as if desperate to get our attention.
The roles improved, as did the performances, and suddenly he didn't seem to be trying as hard. He's silky smooth as a pool shark named Fast Eddie in Robert Rossen's 1961 high-key drama “The Hustler,” in which Jackie Gleason, Piper Laurie and George C. Scott each take turns stealing scenes. At first Mr. Newman seems outclassed by his co-stars — the film asks the actor, a nibbler rather than an outright thief, to do too much big acting. But he's still awfully good. He seduces and repels by turn, pulling you in so you can watch him peel Fast Eddie's defenses like layers of dead skin. It's a wonder there was anything left by the time he revived the character 25 years later in “The Color of Money.”
He won an Oscar in 1987 for best actor for resurrecting Fast Eddie in that Martin Scorsese film, a piteously delayed response from his peers, who dangled six such nominations before giving up the prize. (Hedging its bets, the Academy of Motion Picture Arts and Sciences had tossed Mr. Newman an honorary Oscar the year before.) He's superb in “The Color of Money,” gracefully navigating its slick surfaces and periodically scratching beneath them, playing a variation on what had by then in movies like “The Drowning Pool” (1975), “Slap Shot” (1977) and “The Verdict” (1982) become a defining Newman type: the guy on the hustle who seems to have nothing much left but keeps his motor running, just in case.
The movies are not kind to older actors and yet Mr. Newman walked away from this merciless business seemingly unscathed. During his second and third acts, he kept his dignity partly by playing men who seemed to have relinquished theirs through vanity or foolishness. Some of them were holding on to decency in an indecent world; others had nearly let it slip through their fingers.
Decency seems to have come easily to Mr. Newman himself, as evidenced by his philanthropic and political endeavors, which never devolved into self-promotion. It was easy to take his intelligence for granted as well as his talent, which survived even the occasional misstep. At the end of “The Drowning Pool,” a woman wistfully tells Mr. Newman, I wish you'd stay a while. I know how she feels.
Da The New York Times, 28 Settembre 2008
Paul Newman, one of the last of the great 20th-century movie stars, died Friday at his home in Westport, Conn. He was 83.
The cause was cancer, said Jeff Sanderson of Chasen & Company, Mr. Newman's publicists.
If Marlon Brando and James Dean defined the defiant American male as a sullen rebel, Paul Newman recreated him as a likable renegade, a strikingly handsome figure of animal high spirits and blue-eyed candor whose magnetism was almost impossible to resist, whether the character was Hud, Cool Hand Luke or Butch Cassidy.
He acted in more than 65 movies over more than 50 years, drawing on a physical grace, unassuming intelligence and good humor that made it all seem effortless.
Yet he was also an ambitious, intellectual actor and a passionate student of his craft, and he achieved what most of his peers find impossible: remaining a major star into a craggy, charismatic old age even as he redefined himself as more than Hollywood star. He raced cars, opened summer camps for ailing children and became a nonprofit entrepreneur with a line of foods that put his picture on supermarket shelves around the world.
Mr. Newman made his Hollywood debut in the 1954 costume film “The Silver Chalice.” Stardom arrived a year and a half later, when he inherited from James Dean the role of the boxer Rocky Graziano in “Somebody Up There Likes Me.” Mr. Dean had been killed in a car crash before the screenplay was finished.
It was a rapid rise for Mr. Newman, but being taken seriously as an actor took longer. He was almost undone by his star power, his classic good looks and, most of all, his brilliant blue eyes. “I picture my epitaph,” he once said. “Here lies Paul Newman, who died a failure because his eyes turned brown.”
Mr. Newman's filmography was a cavalcade of flawed heroes and winning antiheroes stretching over decades. In 1958 he was a drifting confidence man determined to marry a Southern belle in an adaptation of “The Long, Hot Summer.” In 1982, in “The Verdict,” he was a washed-up alcoholic lawyer who finds a chance to redeem himself in a medical malpractice case.
And in 2002, at 77, having lost none of his charm, he was affably deadly as Tom Hanks's gangster boss in “Road to Perdition.” It was his last onscreen role in a major theatrical release. (He supplied the voice of the veteran race car Doc in the Pixar animated film “Cars” in 2006.)
Few major American stars have chosen to play so many imperfect men.
As Hud Bannon in “Hud” (1963) Mr. Newman was a heel on the Texas range who wanted the good life and was willing to sell diseased cattle to get it. The character was intended to make the audience feel “loathing and disgust,” Mr. Newman told a reporter. Instead, he said, “we created a folk hero.”
As the self-destructive convict in “Cool Hand Luke” (1967) Mr. Newman was too rebellious to be broken by a brutal prison system. As Butch Cassidy in “Butch Cassidy and the Sundance Kid” (1969) he was the most amiable and antic of bank robbers, memorably paired with Robert Redford. And in “The Hustler” (1961) he was the small-time pool shark Fast Eddie, a role he recreated 25 years later, now as a well-heeled middle-aged liquor salesman, in “The Color of Money” (1986).
That performance, alongside Tom Cruise, brought Mr. Newman his sole Academy Award, for best actor, after he had been nominated for that prize six times. In all he received eight Oscar nominations for best actor and one for best supporting actor, in “Road to Perdition.” “Rachel, Rachel,” which he directed, was nominated for best picture.
“When a role is right for him, he's peerless,” the film critic Pauline Kael wrote in 1977. “Newman is most comfortable in a role when it isn't scaled heroically; even when he plays a bastard, he's not a big bastard — only a callow, selfish one, like Hud. He can play what he's not — a dumb lout. But you don't believe it when he plays someone perverse or vicious, and the older he gets and the better you know him, the less you believe it. His likableness is infectious; nobody should ever be asked not to like Paul Newman.”
But the movies and the occasional stage role were never enough for him. He became a successful racecar driver, winning several Sports Car Club of America national driving titles. He even competed at Daytona in 1995 as a 70th birthday present to himself. In 1982, as a lark, he decided to sell a salad dressing he had created and bottled for friends at Christmas. Thus was born the Newman's Own brand, an enterprise he started with his friend A. E. Hotchner, the writer. More than 25 years later the brand has expanded to include, among other foods, lemonade, popcorn, spaghetti sauce, pretzels, organic Fig Newmans and wine. (His daughter Nell Newman runs the company's organic arm.) All its profits, of more than $200 million, have been donated to charity, the company says.
Much of the money was used to create a string of Hole in the Wall Gang Camps, named for the outlaw gang in “Butch Cassidy.” The camps provide free summer recreation for children with cancer and other serious illnesses. Mr. Newman was actively involved in the project, even choosing cowboy hats as gear so that children who had lost their hair because of chemotherapy could disguise their baldness.
Several years before the establishment of Newman's Own, on Nov. 28, 1978, Scott Newman, the oldest of Mr. Newman's six children and his only son, died at 28 of an overdose of alcohol and pills. His father's monument to him was the Scott Newman Center, created to publicize the dangers of drugs and alcohol. It is headed by Susan Newman, the oldest of his five daughters.
Mr. Newman's three younger daughters are the children of his 50-year second marriage, to the actress Joanne Woodward. Mr. Newman and Ms. Woodward both were cast — she as an understudy — in the Broadway play “Picnic” in 1953. Starting with “The Long, Hot Summer” in 1958, they co-starred in 10 movies, including “From the Terrace” (1960), based on a John O'Hara novel about a driven executive and his unfaithful wife; “Harry & Son” (1984), which Mr. Newman also directed, produced and helped write; and “Mr. & Mrs. Bridge” (1990), James Ivory's version of a pair of Evan S. Connell novels, in which Mr. Newman and Ms. Woodward played a conservative Midwestern couple coping with life's changes.
When good roles for Ms. Woodward dwindled, Mr. Newman produced and directed “Rachel, Rachel” for her in 1968. Nominated for the best-picture Oscar, the film, a delicate story of a spinster schoolteacher tentatively hoping for love, brought Ms. Woodward her second of four best-actress Oscar nominations. (She won the award on her first nomination, for the 1957 film “The Three Faces of Eve,” and was nominated again for her roles in “Mr. & Mrs. Bridge” and the 1973 movie “Summer Wishes, Winter Dreams.”)
Mr. Newman also directed his wife in “The Effect of Gamma Rays on Man-in-the-Moon Marigolds” (1972), “The Glass Menagerie” (1987) and the television movie “The Shadow Box” (1980). As a director his most ambitious film was “Sometimes a Great Notion” (1971), based on the Ken Kesey novel.
In an industry in which long marriages might be defined as those that last beyond the first year and the first infidelity, Mr. Newman and Ms. Woodward's was striking for its endurance. But they admitted that it was often turbulent. She loved opera and ballet. He liked playing practical jokes and racing cars. But as Mr. Newman told Playboy magazine, in an often-repeated quotation about marital fidelity, “I have steak at home; why go out for hamburger?”
Beginnings in Cleveland
Paul Leonard Newman was born on Jan. 26, 1925, in Cleveland. His mother, the former Teresa Fetzer, was a Roman Catholic who turned to Christian Science. His father, Arthur, who was Jewish, owned a thriving sporting goods store that enabled the family to settle in affluent Shaker Heights, Ohio, where Paul and his older brother, Arthur, grew up.
Teresa Newman, an avid theatergoer, steered her son toward acting as a child. In high school, besides playing football, he acted in school plays, graduating in 1943. After less than a year at Ohio University at Athens, he joined the Navy Air Corps to be a pilot. When a test showed he was colorblind, he was made an aircraft radio operator.
After the war Mr. Newman entered Kenyon College in Ohio on an athletic scholarship. He played football and acted in a dozen plays before graduating in 1949.
Arthur Newman, a strict and distant man, thought acting an impractical occupation, but, perhaps persuaded by his wife, he agreed to support his son for a year while Paul acted in small theater companies.
In May 1950 his father died, and Mr. Newman returned to Cleveland to run the sporting goods store. He brought with him a wife, Jacqueline Witte, an actress he had met in summer stock. But after 18 months Paul asked his brother to take over the business while he, his wife and their year-old son, Scott, headed for Yale University, where Mr. Newman intended to concentrate on directing.
He left Yale in the summer of 1952, perhaps because the money had run out and his wife was pregnant again. But almost immediately, the director Josh Logan and the playwright William Inge gave him a small role in “Picnic,” a play that was to run 14 months on Broadway. Soon he was playing the second male lead and understudying Ralph Meeker as the sexy drifter who roils the women in a Kansas town.
Mr. Newman and Ms. Woodward were attracted to each other in rehearsals of “Picnic.” But he was a married man, and Ms. Woodward has insisted that they spent the next several years running away from each other.
In the early 1950s roles in live television came easily to both of them. Mr. Newman starred in segments of “You Are There,” “Goodyear Television Playhouse” and other shows.
He was also accepted as a student at the Actors Studio in New York, where he took lessons alongside James Dean, Geraldine Page, Marlon Brando and, eventually, Ms. Woodward.
Then Hollywood knocked. In 1954 Warner Brothers offered Mr. Newman $1,000 a week to star in “The Silver Chalice” as the Greek slave who creates the silver cup used at the Last Supper. Mr. Newman, who rarely watched his own films, once gave out pots, wooden spoons and whistles to a roomful of guests and forced them to sit through “The Silver Chalice,” which he called the worst movie ever made.
His antidote for that early Hollywood experience was to hurry back to Broadway. In Joseph Hayes's play “The Desperate Hours,” he starred as an escaped convict who holds a family hostage. The play was a hit, and during its run, Jacqueline Newman gave birth to their third child.
On his nights off Mr. Newman acted on live television. In one production he had the title role in “The Death of Billy the Kid,” a psychological study of the outlaw written by Gore Vidal and directed by Arthur Penn for “Philco Playhouse”; in another, an adaptation of Ernest Hemingway's short story “The Battler,” he took over the lead role after James Dean, who had been scheduled to star, was killed on Sept. 30, 1955.
Mr. Penn, who directed “The Battler,” was later sure that Mr. Newman's performance in that drama, as a disfigured prizefighter, won him the lead role in “Somebody Up There Likes Me,” again replacing Dean. When Mr. Penn adapted the Billy the Kid teleplay for his first Hollywood film, “The Left Handed Gun,” in 1958, he again cast Mr. Newman in the lead.
Even so, Mr. Newman was saddled for years with an image of being a “pretty boy” lightweight.
“Paul suffered a little bit from being so handsome — people doubted just how well he could act,” Mr. Penn told the authors of the 1988 book “Paul and Joanne.”
By 1957 Mr. Newman and Ms. Woodward were discreetly living together in Hollywood; his wife had initially refused to give him a divorce. He later admitted that his drinking was out of control during this period.
With his divorce granted, Mr. Newman and Ms. Woodward were married on Jan. 29, 1958, and went on to rear their three daughters far from Hollywood, in a farmhouse on 15 acres in Westport, Conn.
That same year Mr. Newman played Brick, the reluctant husband of Maggie the Cat, in the film version of Tennessee Williams's “Cat on a Hot Tin Roof,” earning his first Academy Award nomination, for best actor. In 1961, with “The Hustler,” he earned his second best-actor Oscar nomination. He had become more than a matinee idol.
Directed by Martin Ritt
Many of his meaty performances during the early '60s came in movies directed by Martin Ritt, who had been a teaching assistant to Elia Kazan at the Actors Studio when Mr. Newman was a student. After directing “The Long, Hot Summer,” Mr. Ritt directed Mr. Newman in “Paris Blues” (1961), a story of expatriate musicians; “Hemingway's Adventures of a Young Man” (1962); “Hud” (1963), which brought Mr. Newman a third Oscar nomination; “The Outrage” (1964), with Mr. Newman as the bandit in a western based on Akira Kurosawa's “Rashomon”; and “Hombre” (1967), in which Mr. Newman played a white man, reared by Indians, struggling to live in a white world.
Among his other important films were Otto Preminger's “Exodus” (1960), Alfred Hitchcock's “Torn Curtain” (1966) and Jack Smight's “Harper” (1966), in which he played Ross Macdonald's private detective Lew Archer.
In 1968 — after he was cast as an ice-cold racecar driver in “Winning,” with Ms. Woodward playing his frustrated wife — Mr. Newman was sent to a racing school. In midlife racing became his obsession. A Web site — newman-haas.com — details his racing career, including his first race in 1972; his first professional victory, in 1982; and his co-ownership of the Newman/Haas Indy racing team, which won eight series championships.
A politically active liberal Democrat, Mr. Newman was a Eugene McCarthy delegate to the 1968 Democratic convention and appointed by President Jimmy Carter to a United NationsGeneral Assembly session on disarmament. He expressed pride at being on President Richard M. Nixon's enemies list.
When Mr. Newman turned 50, he settled into a new career as a character actor, playing the title role — “with just the right blend of craftiness and stupidity,” Janet Maslin wrote in The New York Times — of Robert Altman's “Buffalo Bill and the Indians” (1976); an unscrupulous hockey coach in George Roy Hill's “Slap Shot” (1977); and the disintegrating lawyer in Sidney Lumet's “Verdict.”
Most of Mr. Newman's films were commercial hits, probably none more so than “The Sting” (1973), in which he teamed with Mr. Redford again to play a couple of con men, and “The Towering Inferno” (1974), in which he played an architect in an all-star cast that included Steve McQueen and Faye Dunaway.
After his fifth best-actor Oscar nomination, for his portrait of an innocent man discredited by the press in Sydney Pollack's “Absence of Malice” (1981), and his sixth a year later, for “The Verdict,” the Academy of Motion Picture Arts and Sciences in 1986 gave Mr. Newman the consolation prize of an honorary award. In a videotaped acceptance speech he said, “I am especially grateful that this did not come wrapped in a gift certificate to Forest Lawn.”
His best-actor Oscar, for “The Color of Money,” came the next year, and at the 1994 Oscars ceremony he received the Jean Hersholt Humanitarian Award. The year after that he earned his eighth nomination as best actor, for his curmudgeonly construction worker trying to come to terms with his failures in “Nobody's Fool” (1994). In 2003 he was nominated as best supporting actor for his work in “Road to Perdition.” And in 2006 he took home both a Golden Globe and an Emmy for playing another rough-hewn old-timer, this one in the HBO mini-series “Empire Falls.”
Besides Ms. Woodward and his daughters Susan and Nell, he is survived by three other daughters, Stephanie, Melissa and Clea; two grandchildren; and his brother.
Mr. Newman returned to Broadway for the last time in 2002, as the Stage Manager in a lucrative revival of Thornton Wilder's “Our Town.” The performance was nominated for a Tony Award, though critics tended to find it modest. When the play was broadcast on PBS in 2003, he won an Emmy.
This year he had planned to direct “Of Mice and Men,” based on the John Steinbeck novel, in October at the Westport Country Playhouse in Connecticut. But in May he announced that he was stepping aside, citing his health.
Mr. Newman's last screen credit was as the narrator of Bill Haney's documentary “The Price of Sugar,” released this year. By then he had all but announced that he was through with acting.
“I'm not able to work anymore as an actor at the level I would want to,” Mr. Newman said last year on the ABC program “Good Morning America.” “You start to lose your memory, your confidence, your invention. So that's pretty much a closed book for me.”
But he remained fulfilled by his charitable work, saying it was his greatest legacy, particularly in giving ailing children a camp at which to play.
“We are such spendthrifts with our lives,” Mr. Newman once told a reporter. “The trick of living is to slip on and off the planet with the least fuss you can muster. I'm not running for sainthood. I just happen to think that in life we need to be a little like the farmer, who puts back into the soil what he takes out.”
Da The New York Times, 28 Settembre 2008
L'attore americano Paul Newman è morto venerdì all'età di 83 anni.
Allievo dell'Actor's Studio,protagonista di film di larghissimo successo come Lo spaccone, La stangata, Butch Cassidy e Il colore dei soldi ( per il quale vinse l'Oscar nel 1986),pilota di auto da corsa, ha dedicato l'ultima parte della sua vita alla beneficenza.
Il primo film di Paul Newman, scomparso venerdì all'età di 83 anni, non se lo ricorda quasi più nessuno (Il calice d'argento di Victor Saville, del 1954). Anzi, le biografie riportano il giudizio del «New Yorker», che bollava così la sua prova: «Recita la parte con il fervore emotivo di un autista d'autobus che annuncia le fermate». Quel critico forse aveva ragione sul singolo film, ma visto in prospettiva prendeva un granchio colossale. Newman veniva da una scuola che raramente ha sbagliato: dopo aver studiato arte drammatica alla Yale University, era approdato al mitico Actor's Studio di New York, la fucina dei divi. Un marchio di fabbrica che si è sempre portato appresso la tendenza a caricare emotivamente i personaggi, insieme alla capacità di fermarsi al punto giusto, un attimo prima di strafare. Con quello sguardo «un po' così », quel fascino tanto naturale e insieme consapevole e coltivato, quella facoltà di guardare oltre lo schermo, arrivando dritto al cuore degli spettatori.
Tutte facoltà che un film di poco successivo, questo sì già memorabile, afferma in pieno: Lassù qualcuno mi ama, di Robert Wise. Newman accetta il sacrificio del suo volto e del suo corpo per interpretare il grande pugile italoamericano Rocky Graziano. Il ring, i pugni, una volontà ferrea, i problemi della vita privata. Ci voleva un grande per portare sullo schermo una personalità del pugilato così forte: e l'attore, chiamato a sostenere una parte prevista per James Dean (mentre nel Calice d'argento era previsto in un primo tempo un riluttante Marlon Brando), dimostra di esserlo in pieno.
A partire da questo momento i successi arrivano con cadenza impressionante. Newman è davvero un "nuovo uomo". Piace, coinvolge, addirittura sconvolge interpretando film che segnano il passaggio di Hollywood verso una fase nuova: temi diversi da quelli classici, mentre il sistema dei generi comincia a dare segni di stanchezza; ricerca di pubblici alternativi. Così, a cavallo fra gli anni 50 e 60,inizia il periodo d'oro di La lunga estate calda (Martin Ritt), Furia selvaggia (Arthur Penn), La gatta sul tetto che scotta (Richard Brooks; tutti e tre del 1958), I segreti di Filadelfia, Dalla terrazza, Exodus.
Meriterebbero ognuno un discorso a parte, se non fosse che nel '61 arriva il personaggio forse più noto dell'intera carriera, quell'Eddie Felson (Lo spaccone, regia di Robert Rossen) che sembra aderire alla perfezione all'attore. Giocatore incallito di biliardo, sempre pronto all'azzardo, una faccia da schiaffi che fa anche simpatia. Un personaggio ripreso nell'86, quando Martin Scorsese lo ritrova sì avanti negli anni, ma con la stessa divorante passione, nel Colore dei soldi (con il quale vince l'Oscar come miglior attore).
Oltre ad essere un "bello", Newman è anche un "impegnato". Negli anni 60 molte delle sue interpretazioni condensano in pieno lo spirito del tempo,l'insofferenza per i vincoli, la voglia di libertà, anche infrangendo leggi che si sentono ingiuste. È il caso di Nick mano fredda, diretto nel '67 da Stuart Rosenberg (ma, nei primi anni della favolosa decade, bisogna almeno citare La dolce ala della giovinezza, Intrigo a Stoccolma, L'oltraggio, Il sipario strappato di Alfred Hitchcock): quanti giovani, in tutto il mondo, si sono immedesimati in quel detenuto che resiste testardamente e stoicamente alle angherie del sadico direttore della prigione. Niente e nessuno possono vincerlo: solo la morte può liberare un eroe così grande, decretandone la vittoria morale. È il momento della piena maturità. Newman invecchia bene, accettando interpretazioni ( a cui alterna prove di regia) che aderiscono alla sua personalità. Spesso accanto alla seconda moglie Joanne Woodward e molte altre volte insieme a un'altra icona liberal, Robert Redford. Come nei due film di maggiore successo al botteghino, Butch Cassidy e La stangata, entrambi diretti da George Roy Hill. Seguono le opere con Robert Altman (Buffalo Bill e gli indiani e Quintet) ei film dell'intensa vecchiaia, da Mister Hula Hoop dei fratelli Coen a La vita a modo mio di Robert Benton, fino a Era mio padre di Sam Mendes.
Questo l'attore e il regista. Ma il quadro non sarebbe completo, per capire almeno un poco l'uomo, senza menzionare due passioni che hanno accompagnato Newman per tutta la vita: l'automobilismo e la beneficenza. Nel 1995, a 72 anni suonati, è stato in grado di vincere la 24 Ore di Daytona nella classe GT1; e per quanto riguarda l'attenzione agli altri, fa testo la fondazione Newman's Own che a partire dal 1982 ha distribuito oltre 250 milioni di dollari per scopi educativi e umanitari: ha sostenuto la nascita in tutto il mondo di campi estivi per bambini malati (Hole in the Wall camp). In Italia, il campo è partito l'anno scorso, in collaborazione con Fondazione Dynamo di Vincenzo Manes.
Da Il Sole-24 Ore, 28 Settembre 2008
The blue-eyed star of 'The Hustler,' 'Cool Hand Luke' and 'Butch Cassidy and the Sundance Kid' was at home. He had long battled cancer.
Paul Newman, the legendary movie star and irreverent cultural icon who created a model philanthropy fueled by profits from a salad dressing that became nearly as famous as he was, has died. He was 83.
Newman died Friday at his home near Westport, Conn., after a long battle with cancer, publicist Jeff Sanderson said.
Stunningly handsome, Newman maintained his superstar status while keeping his distance from its corrupting influences through nearly 100 Broadway, television and movie roles. As an actor and director, he evolved into Hollywood's elder statesman, admired off screen for his quiet generosity, unconventional business sense, race car daring, political activism and enduring marriage to actress Joanne Woodward.
Annoyed by the public's fascination with his resemblance to a Roman statue and his Windex-blue eyes, Newman often chose offbeat character roles. In the 1960s, he helped define the American anti-hero and became identified with the charming misfits, cads and con men in film classics such as "The Hustler," "Hud," "Cool Hand Luke" and "Butch Cassidy and the Sundance Kid."
"It's a great loss, in so many ways," Martin Scorsese, who directed Newman in "The Color of Money," said in a statement Saturday. "The history of movies without Paul Newman? It's unthinkable. . . . His powerful eloquence, his consummate sense of craft, so consummate that you didn't see any sense of effort up there on the screen, set a new standard."
Robert Redford, Newman's "Sundance" co-star, said in a statement, "There is a point where feelings go beyond words. I have lost a real friend. My life -- and this country -- is better for his being in it."
Newman's poker-game look in "The Sting" -- cunning, watchful, removed, amused, confident, alert -- summed up his power as a person and actor, said Stewart Stern, a screenwriter and longtime friend.
"You never see the whole deck. There's always some card somewhere he may or may not play," Stern said. "Maybe he doesn't even have it."
Newman maintained his success came less from natural talent than from hard work, luck and the tenacity of a terrier.
"Acting," he once said, "is really nothing but exploring certain facets of your own personality trying to become someone else." In early films, he said, he tried to make himself fit the character but later aimed "to make the character come to me."
The actor was proudest, friends say, of his later Oscar-nominated roles in "Absence of Malice," "The Verdict" and "Nobody's Fool," in which he dug deep into the complex emotions of ordinary men struggling for dignity, justice or a sense of connection. In 2003, he was nominated for an Oscar as best supporting actor for his last feature film appearance, as a conflicted mob boss in "Road to Perdition." Two years later, at 80, he won an Emmy for playing a meddlesome father in "Empire Falls."
"He's a majestic figure in the world of acting," said director Arthur Penn, who worked with him in his early career. "He did everything and did it well."
Part of a generation of edgy, naturalistic New York actors who changed Hollywood in the '50s and '60s, Newman was often compared with fellow Method actors Marlon Brando and James Dean. Film critic David Ansen once observed that if the trim actor lacked the others' physical or psychic presence, he was more approachable, even when he played a heel.
"Newman," Ansen wrote, "is our great middleweight movie star."
Nominated eight times for Academy Awards in the best-actor category, Newman won only once, for "The Color of Money" (1986), in which he reprised the role of "Fast" Eddie Felson that he originated in 1961's "The Hustler." He also took home honorary Oscars in 1985 for career achievement and in 1993 for his humanitarian efforts. In later years, he shunned awards shows, though Oscar, Emmy and Tony nominations continued. He claimed he no longer owned a tuxedo.
In real life, Newman was "the quintessence of class, courtly without being old-fashioned," said Victor Navasky, former editor of the Nation, a liberal magazine in which Newman invested and for which he wrote occasional columns. Private and complex, Newman was also a mischievous beer-loving prankster and an idealist who took to the streets to protest the war in Vietnam.
He was thrilled, friends said, when he heard that he had made President Nixon's enemies list.
Married since 1958 to Woodward, his second wife, Newman cultivated a distinctly un-Hollywood lifestyle, shuttling between a homey New York apartment and a renovated farmhouse in woodsy Westport, from which he pursued passions that included cooking and auto racing.
Highly competitive, Newman was drawn to the track, he told reporters, because in racing, unlike acting, the definition of "good" is not a murky matter of opinion. Although he began to race at 47, he was respected by his sport's peers, and his team placed second in the prestigious Le Mans endurance contest in 1979. At 70, he became the oldest driver to place in a professionally sanctioned auto race when his team took third in the 24-hour race at Daytona, Fla. Still racing into his 80s, Newman escaped uninjured from a car fire in 2005 and entered another race a month later.
Since the 1980s, Newman had devoted more time to Newman's Own, a food products company he founded as a lark that grew into one of the nation's largest charitable organizations. The company, which produces all-natural salad dressings, popcorn, sauces and lemonade, has turned over more than $250 million in after-tax profits to hundreds of groups, including his own Hole in the Wall Gang camps (named after the outlaw gang in "Butch Cassidy").
Friends said Newman abhorred what he called "noisy philanthropy." He felt the awards and honors offered him were excessive and once declined a national medal in a letter to President Clinton, calling such recognition "honorrhea."
When people would say, " 'What a mensch you are,' he would always denigrate himself," said friend Alice Trillin. To friends, Newman was open, if vague, about not always having lived an exemplary life. Exceptionally tolerant of others' foibles, he said, "I used to be a fool myself."
A late bloomer
Friends and neighbors in the Cleveland suburb of Shaker Heights might not have foreseen a future as a sex symbol for Paul Leonard Newman, the late-blooming second son of a sporting goods store owner.
Born Jan. 26, 1925, Newman was too short and scrawny to play football or baseball and once said he regularly had "the bejesus kicked out" of him in school. He was encouraged in the arts by an uncle who wrote poetry and by his mother, who taught him to appreciate music and books and shared details of theater shows she had seen.
Though he acted in elementary and high school plays to the delight of his family, he said his father, a strict, hard-working former journalist, considered him a lightweight and often treated him as if he were disappointed in him.
"I desperately wanted to show him that somehow, somewhere along the line, I could cut the mustard," Newman told Time magazine in 1982. One of the great agonies of his life, he said, was that his father died without seeing his success.
At 18, Newman enlisted in the Navy, hoping to become a pilot in World War II, but he was rejected for being color blind. He spent three years as a radio operator aboard bombers in the Pacific.
Afterward, he enrolled as a 21-year-old freshman at Kenyon College in Gambier, Ohio, where he spent some of his happiest days, playing second-string football, drinking beer and getting into trouble. After a barroom brawl landed him in jail, he was kicked off the team. He turned to acting.
"I was probably one of the worst college actors at the time," Newman said years later. "I learned my lines by rote and simply said them without spontaneity, without knowing what it meant to act and react."
However, novelist E.L. Doctorow, a Kenyon freshman at the time, recalled that "there was no question about his talent." He said Newman was popular for being the leading actor on campus and for the laundry concession he operated.
"He was always entrepreneurial," Doctorow said.
After graduating with a degree in English, Newman acted in summer and winter stock productions in Wisconsin and Illinois, thinking he might eventually teach speech or drama. By then, he had married Jacqueline Witte, a fellow actor, with whom he had three children: Scott, Susan and Stephanie. Scott died in 1978 of an overdose of drugs and alcohol.
When his father died in 1950, Newman moved home to run the sporting goods store. A year later, the store was sold and he fled to New Haven, Conn., where he briefly studied drama at Yale University, specializing in directing, before trying his luck in New York.
"I was prepared to try it for a year and, if I got nowhere, to go back to Yale and get my degree," he told Lillian and Helen Ross in the book "The Player: A Profile of an Art." "I had no intention of waiting around till I was old and bruised and bitter."
In New York, then the center of live television and the home of the Actors Studio, Newman picked up lessons in Method acting, a technique that stressed naturalism, while he auditioned for parts and sold encyclopedias to support his family. He subsequently attributed everything he knew about acting to the creative community of actors, writers and directors at the studio. Later, he was president and, though it was never made public, financed the institution's operations for seven years when it fell on hard times.
Described as "gorgeous and intense," the young Newman quickly found small parts in television shows, including "You Are There," as well as a role as a rich college graduate in the Broadway production of "Picnic," in which Woodward was an understudy. When he asked to play the lead, a sexy braggart, director Joshua Logan said the actor was unsuitable because he lacked any "sexual threat" -- a challenge Newman met by embarking on a lifelong routine of vigorous workouts to stay in shape.
His marriage to Witte deteriorated as he began to attract work and positive reviews while his wife's priorities shifted to the children, according to friends. Newman fell into a period of turmoil in which he and Woodward began an affair.
He was arrested once for running a red light, driving into a bush and leaving the scene of an accident. The breakup of his marriage was drawn out, Stern said, because Newman was so concerned about being fair to his wife and children.
Witte obtained a divorce in Mexico in 1957. A year later, Newman and Woodward married, forming a lasting match that Newman attributed to "correct amounts of lust and respect." The couple had three daughters, Nell, Melissa and Clea.
Despite later rumors that not all was well in their marriage, Stern said they were committed and honored each other's choices in life. Although Woodward once quipped that "a mind is a terrible thing to waste on a Trans Am," Stern said, "they had real reverence for each other's talents and pursuits and idiosyncrasies."
Together they appeared in 11 films, including "The Long, Hot Summer," "From the Terrace" and "Mr. and Mrs. Bridge." Newman also directed her in four other films, including the highly respected "Rachel, Rachel," about a schoolteacher whose fears keep her trapped in a small town.
Stern, author of that film's screenplay, said he sometimes observed Newman watching his wife do something that moved him.
"It was the most exposed face of love I've ever looked at," he said. "You couldn't look at it long. It was like opening the wrong door."
Hollywood studios recruited Newman in 1954, at a time when the film industry, threatened by live television, hired many of New York's most creative actors, directors and writers. According to Penn, Newman "was emblematic of what was coming, the demand for independence that the next generation brought."
At first, however, Newman, the serious actor, could not avoid beefcake roles because his looks were so devastating. When people saw him, Penn said, they "just fell away."
Newman was particularly humiliated by his first film, "The Silver Chalice," in which he was cast as a toga-clad Greek sculptor with stilted lines. When the film aired for a week in 1963 on television, he took out a black-bordered ad in The Times that said, "Paul Newman apologizes every night this week."
Determined not to be just a pretty-boy player for the studio, Newman was among the first actors to buy out his contract with Warner Bros. and later formed his own production companies with colleagues. Newman's penchant for playing a variety of roles reflected "his imagination and his willingness to take a flier," filmmaker John Huston wrote in his memoir, "An Open Book."
The price was a career checkered with miscasting and forgettable roles, including those of a jazz musician in "Paris Blues," a turn-of-the-century anarchist in "Lady L" and a double agent in "Torn Curtain."
Critics and audiences loved him, however, when he played moody Southerners in films based on Tennessee Williams' plays "Cat on a Hot Tin Roof" and "Sweet Bird of Youth." Newman's scheming pool shark in "The Hustler" began a streak of roles that film historians have hailed as capturing the essence of the postwar American man: cool, cynical and confident while the known world of traditional values crumbles around him.
Newman became so popular that he complained later that audiences and critics missed the point in "Hud," a film in which he portrayed the amoral, insolent son of an embattled rancher. Instead of seeing Hud as a tragically flawed character who cared only for himself, audiences adored him. He became an anti-hero, especially among teenagers.
Newman struck another nerve in 1967 with "Cool Hand Luke," in which he played a defiant prisoner on a chain gang harassed by sadistic guards. A memorable scene in which Luke wins a bet by eating 50 hard-boiled eggs triggered egg-eating contests at colleges and among soldiers in Vietnam.
In 1969, when he was Hollywood's most popular leading actor, Newman teamed with Redford in "Butch Cassidy and the Sundance Kid," a movie about two affable bandits who had outlived their time. The highest-grossing western in motion picture history, the film highlighted the handsome duo's comic timing. Fans loved the pair's jump off a cliff and still associate the song "Raindrops Keep Fallin' on My Head" with Newman's bicycle stunts.
Redford said it was the most fun on a film he had ever had, and the film cemented a lifelong friendship between the two actors.
Out of Beverly Hills
If Newman hadn't moved his family away from the glamour and materialism of Beverly Hills to Westport in 1962, he told biographer Eric Lax, he might never have taken up the other things that made his life exciting: politics, racing and a home-grown business.
"It is only when you're away from California that you cannot take yourself seriously" as a movie star, he said.
Throughout the '60s, Newman took high-profile stands against the war in Vietnam. In 1968, he campaigned for antiwar candidate Sen. Eugene McCarthy and was a Connecticut delegate to the Democratic National Convention. The next year, he and Woodward joined an antiwar demonstration in front of the U.S. Embassy in London.
Newman knew his actions were not always popular, and he told the New York Times Magazine in 1966, "A person without character has no enemies." Friends said he was delighted in 1973 when he was listed as No. 19 on Nixon's enemies list, claiming it elevated him in the eyes of his children.
Newman argued politics genially, friends said, and openly admired some conservatives. In 1994, he helped his brother Arthur, a staunch Republican, wage a successful campaign for a City Council seat in Rancho Mirage.
In the late '70s, bored with acting, Newman fell into a slump that paved the way for what has been called one of the most successful career transitions in movie history.
Intrigued by racing after making the film "Winning" in 1969, Newman began planning film shoots around his racing schedule. His focus, athleticism and knowledge quickly won over skeptics who were used to dilettante actors hanging around the track, said champion driver Mario Andretti.
"If he would have started earlier, he would have been just as successful as his acting, no question," Andretti said. When Newman formed his own team, Newman-Haas Racing, Andretti raced for him for 12 years.
Reinvigorated, Newman returned to acting, exploring character roles with new and unexpected depth. Critic Pauline Kael called Newman's portrayal of a washed-up ice hockey coach in "Slap Shot," a 1977 comedy, "casual American star-acting at its peak." In the 1980s, he became active again in the Actors Studio in New York, contributing funds and serving as president of the board.
In 1981, Newman was nominated for an Oscar for his role in "Absence of Malice," as a businessman libeled by Sally Field's gung-ho young reporter, whose story leads to his friend's suicide.
Another nomination followed for his portrayal of an alcoholic lawyer redeemed by his pursuit of justice in 1982's "The Verdict."
When Newman finally won an Oscar in 1986 for "The Color of Money," it was neither his nor director Scorsese's best effort and was seen by some observers as compensation for having been overlooked in "The Hustler."
Wanting to avoid another public defeat, Newman stayed home for the ceremony. Later, he said of the win: "It's like chasing a beautiful woman for 80 years. She finally relents and you say, 'I'm terribly sorry, I'm tired.' "
His real-life role as a philanthropist began just before Christmas 1980 when he and his friend A.E. Hotchner made a batch of salad dressing in a bathtub to bottle for friends.
Newman was as much a perfectionist about his cooking as his art, friends said. "He knew the exact amount of fat that goes into the perfect hamburger," Stern said. "In his salads, he sliced the celery the exact width."
In restaurants, Newman was known to ask for olive oil, vinegar, chopped celery, salt, pepper and mustard to make his own dressing. On one occasion, when waiters at Chasen's in Beverly Hills wouldn't comply, he took the salad into the men's room and washed the dressing off. "They brought the stuff he wanted, and he made the dressing," Stern said.
Newman told reporters he never imagined the dressing would be sold nationally, but after the Christmas leftovers were given to gourmet shops, the lark became a challenge.
When it became clear the dressing could make a profit, especially with his face on the label, Newman decided to give back some of what luck and the world had given him.
"It was a spur-of-the-moment thing -- 'Let's just do this and give it all away,' " his daughter Nell told the New York Times in 1998.
Newman and Hotchner wrote witty labels to go with the company's motto: "Shameless exploitation in pursuit of the common good," which later became the name of their book that describes their adventures in business.
The company grew to produce many products, including popcorn, salsas, pasta sauces, marinades and Woodward's "Old Fashioned Roadside Virgin Lemonade."
In 2006, he opened Dressing Room: A Homegrown Restaurant to benefit the Westport Country Playhouse, one of Newman and Woodward's favorite projects.
As a result of his business success, Newman donated more than $250 million to 1,000 groups, including the Scott Newman Center -- devoted to anti-drug education -- and several Hole in the Wall Gang camps, designed for children with life-threatening diseases, with locations in France, Ireland and Israel as well as the U.S. Every summer, Newman stayed at the original camp in Ashford, Conn., where he told ghost stories and staged shows with other celebrities for children who knew him only as the face on the lemonade carton.
"If I leave a legacy," he said in 2006, "it will be the camps."
This year, he turned up at a meeting of parents and children at the first camp and reportedly said: "I wanted to acknowledge luck. The beneficence of it in many lives and the brutality of it in the lives of others, especially children, who might not have a lifetime to make up for it."
Rather than hiring grant officers, friends say, Newman and Hotchner chose the charities themselves in a casual way. Newman once wrote a check on the spot for someone who knocked on his door saying the local fire department needed a new fire engine, said Navasky, the Nation magazine editor.
Despite his fears that actors risk corruption by placing a "premium on appearance," Newman valued keeping himself fit. He did push ups and ran up and down stairs until he was 80. He soaked his face in ice water or would swim in a cold lake when he could.
Newman played sexy-senior roles into his 70s with films such as "Twilight" and moved on to cantankerous-father parts in "Message in a Bottle" and the TV film "Empire Falls." He was nominated for a Tony as the stage manager in a Broadway revival of "Our Town" and an Emmy for a taped TV version. After "Road to Perdition," he did voice work for the animated film "Cars" in 2006.
Newman didn't hide his disappointment that filmmaking had abandoned the "theater of the mind" for the "theater of the senses." He lamented that skyrocketing costs had increased the pressure on actors, writers and producers who could no longer afford to make mistakes and be part of a "growing-up process."
In 1997, he hinted he was struggling, explaining to National Public Radio's Daniel Zwerdling that "sometimes you begin to lose your center. . . . You become a collection of the successful mannerisms of the characters you play. . . . What you try to do is get rid of those successful mannerisms, get back to what you are at the core of your own personality."
In 2007, Newman announced his decision to retire, saying he'd lost confidence in his abilities, that acting was "pretty much a closed book for me."
Besides Doc Hudson, the animated Hornet voiced by Newman in the film "Cars," he called the role of Sully in 1994's "Nobody's Fool" the closest he had come to playing himself. Critics called Sully a "classic Newman type" -- an aging version of a witty loner who keeps friends and family at a distance to protect himself. A bond with his fearful little grandson opens up the possibility of becoming more involved with an estranged son and the rest of the community.
"The most Paul moment," Stern said, "is when he sees the crazy lady down the street and offers his arm and walks her back home as if she were a queen. That's how I'll always remember Paul: dignifying other people."
In addition to his wife of 50 years, Newman is survived by daughters Susan, Stephanie, Nell, Melissa and Clea; two grandchildren; and his brother Arthur.
Da The Los Angeles Times, 28 Settembre 2008
Refusing to romanticize his nonconformist characters, the star put his sex appeal to complicated and fascinating use.
Paul Newman, that pure and concentrated essence of classic movie stardom, reinvented himself a couple of times in the span of his long career, until he ended up playing the kind of guy he might have become had he never left his native Shaker Heights, Ohio: an ultra-conservative, cold-fish Midwestern lawyer, married for decades to the same woman (see his performance in the Merchant-Ivory jewel box "Mr. And Mrs. Bridge," from 1990).
But he'll be best remembered for playing the polar opposite, a recurring persona he took up and reprised from 1958 through 1969, the nonconformist ne'er-do-well, idolized by criminals and women who knew better, reviled by authority and tradition.
A quick survey of the characters Newman inhabited during that time reveals several recurring traits. There's the matter of his alarming beauty, which was almost always treated as a complicating factor in his characters' lives. An otherworldly Adonis, he could have simply gone the tuxedo route, but he had a fondness for playing rough-and-tumble losers, drunks, failures and outcasts. His rebel nonconformists were often nonconformist in pointless, self-serving, usually self-destructive ways that he refused to romanticize.
Remarkably, he was almost never paired with the great beauties of his time, appearing instead opposite actresses of lesser looks than his. Piper Laurie, Patricia Neal, even Joanne Woodward -- whom he would eventually marry and remain with for life -- played characters in thrall to his charm and charisma, usually to their detriment. The most beautiful actress he was ever cast opposite also happened to play the character he rebuffed most cruelly: Elizabeth Taylor's sex-starved Maggie, longing hopelessly for passion from his closeted gay Brick in "Cat on a Hot Tin Roof."
It's not the sort of thing you see much at the movies anymore -- the examination of the male bombshell, a character as irresistible as he is casually destructive to himself and others. It's hard to imagine a modern-day movie star putting his sex appeal to such complicated, fascinating use. Even when Newman's characters liked women, he wasn't very good to them. In "Hud," he tried to rape his housekeeper. In "The Hustler," he took up with a disabled alcoholic who, for a while, supported him. In "Sweet Bird of Youth," he hustled rich older women for money and an entree into show business, repeatedly abandoning the girl he loved to pursue his dream of stardom. In "Cool Hand Luke," where the only woman in sight was his mother, he broke her heart.
And yet the Paul Newman anti-hero, a rake if ever there was one, was irresistible to men and women alike. (What is "Cool Hand Luke" if not a polyamorous bromance writ large?) His early characters were at once vulpine and preyed upon; twice, in separate films, he uttered a variation of the line, "Everyone wants a piece of me." Newman was savvy enough to know when to start moving away from the roles that used his beauty as a basis for his characters. And that intelligence and grounded self-awareness shines through in all his performances. The slow Newman grin, the same one that charms George Kennedy in "Cool Hand Luke," made it clear that he was always aware of the effect he had on others, and when and how to modulate it for maximum impact.
His characters' vanity got them into worlds of trouble, but Newman's complete lack of it came across clearly in the roles he chose and the life he lived.
Da The Los Angeles Times, 28 Settembre 2008
Cool Hand Luke, The Verdict, Butch Cassidy, Absence of Malice, The Hustler
Today, as the world mourns the loss of Paul Newman, one of its greatest actors and philanthropists, I thought it would be fitting to seek out the memories of several of those who knew him longest and best: his friends, co-stars, and contemporaries from Hollywood's Golden Age, during which he began his remarkable career more than half a century ago.
After graduating from Kenyon College in 1949, Newman spent a year at Yale University's School of Drama, then decided to try his luck in New York. There, he enrolled at the Actors Studio and learned Method acting under the tutelage of Lee Strasberg, Elia Kazan, and Martin Ritt.
His classmates included future stars Marlon Brando, James Dean, Marilyn Monroe, and Cliff Robertson, who would go on to win the Academy Award for Best Actor for “Charly” (1968), and who today remembered how impressed he was with Newman even then.
“He was very, very likable, straightforward, and his word was his bond -- he was an honest man,” Robertson, now 85, told me Saturday morning. Robertson also recalled that, contrary to popular belief, success did not always come easily to Newman.
“In the beginning, he did some things that were not notable that would have finished some people's careers,” Robertson chuckled. “We go way back to ‘The Silver Chalice.' That was his first movie,” Robertson said of the 1954 film, which he noted could easily have been Newman's last.
"Silver Chalice" was part of a string of early Newman yawners on TV and film, but Newman broke the trend following the death of his friend James Dean in 1955. Shortly thereafter, Newman inherited two of Dean's upcoming roles -- boxer Rocky Graziano in “Somebody Up There Likes Me” (1956) and Billy the Kid in “The Left Handed Gun” (1958) -- and demonstrated more depth of character in both. Subsequently, Robertson recalls, “I was always impressed with his humility” and his “lovely family.”
Ernest Borgnine, who won the Academy Award for Best Actor for “Marty” (1955), came up in live television and film at about the same time as Newman, but only worked with him for the first time decades later in Hawaii on the film “When Time Ran Out” (1980). Borgnine, now 91, became emotional this morning as he reflected on Newman's passing: “What can you possibly say about such a wonderful, dedicated man? He was a great guy.” Like most people in and out of Hollywood, he said he learned of Newman's prolonged illness from “reading about it in the papers.”
“I feel he is much better off, God bless him," Borgnine said. "I feel so sorry for his wife, Joanne, who is just the most lovely person, too. But, hey, he left his mark, God bless him, and you can't say no more than that, by golly. He left not only that, but he left a wonderful thing that he'd been doing for everyone—I mean, donating all his money from different things that he's done to help children.”
Newman was often considered a guy's guy for gritty performances in films like “The Hustler” (1961), “Cool Hand Luke” (1967), and “Slap Shot” (1977), to say nothing of his pair of buddy films opposite Robert Redford, “Butch Cassidy and the Sundance Kid” (1969) and “The Sting” (1973), or his off-screen love of speed racing. Female audiences also admired him, not only for his chiseled face and sea-blue eyes, but for being known as a genuinely good guy who remained married to the same woman, the Oscar-winning actress Joanne Woodward, for 50 years.
His female co-stars were known to uniformly adore him -- Elizabeth Taylor from “Cat on a Hot Tin Roof” (1958), Eva Marie Saint from “Exodus” (1960), and Piper Laurie from “The Hustler” (1961) have all spoken of how much they enjoyed working with him. So did Patricia Neal, the one leading lady who won an Academy Award for Best Actress for her work opposite him, for “Hud” (1963), when we spoke earlier this morning.
Patricia Neal, now 82, says she was at the beauty parlor when “somebody came in and told me that Paul had died, and I was heartbroken, because he was a beautiful man. I knew that he was a little ill, and I knew that he was probably going to die, but you know it's just so heartbreaking when one hears it.”
Neal says she will never forget the first time she met Newman, years before they ever appeared in a film together. She had just arrived at the Actors Studio for the first time, walked in, spotted Newman, “and I couldn't take my eyes off of him… I thought he was the most handsome thing I'd ever seen in my life.”
When they were reunited years later for “Hud,” under the direction of their former instructor Ritt, she says Newman was incredibly helpful, and that their off-screen friendship was the polar opposite of their characters' contentious on-screen relationship: “I loved Paul. He was a gorgeous actor, and a fabulous man, and so generous with me.”
Hollywood's beloved elder statesman Mickey Rooney, who just turned 88 and is, as Newman was, one of the last remaining greats, also offered his thoughts this morning. Rooney never worked with Newman and rarely crossed his path, but he says he always greatly admired him from afar, and counts a number of his films -- “Butch Cassidy,” “The Verdict,” “Cat on a Hot Tin Roof,” and “The Long, Hot Summer” -- among his personal favorites.
As an actor, Rooney says “[Newman] was great, he was unforgettable, and I think that's the treasure that he leaves.” Moreover, he adds, “his character was great -- he was a gentleman, and he was kind, and considerate.”
Asked what he thinks Newman's legacy will be, Rooney paused for a moment and then said, “I don't emulate anybody; Paul didn't either. We're all individuals, and it's just something that you have or you haven't got—and he had it.”
Da The Los Angeles Times, 28 Settembre 2008
Eppure lui non si piaceva come attore Pagò un annuncio sul giornale per scusarsi col pubblico de Il calice d'argento Con Butch Cassidy e La stangata in coppia con Redford scrive la sua leggenda L'Oscar arriva nell'87 per Il colore dei soldi.
Il mito si è spento giovedì scorso a 83 anni Paul Newman. Da tempo malato di cancro ai polmoni, l'attore aveva chiesto, mesi fa, di poter tornare a casa dove ha trascorso gli ultimi giorni con la moglie Joanne Woodward e le figlie.
Se avete in casa il dvd di Cars - sì, quel cartone animato sulle automobili - perché l'avete regalato ai vostri bambini, infilatelo nel lettore e ascoltatelo in lingua originale. La voce di Doc - l'ex campione, la vecchia auto da corsa - è la sua. Lui ci scherzava («Ho iniziato la carriera con una conferenza sulla pessima recitazione e l'ho finita con il ruolo di un'automobile») ma sotto sotto quel cartone doveva essergli piaciuto, perché era un appassionato di corse e nel'79 era arrivato secondo alla 24 ore di Le Mans: un podio al quale probabilmente teneva più che all'Oscar.
Ora che ci ha lasciati, sappiamo che sulla sua tomba non verrà scritta la frase alla quale lui stesso aveva pensato: «Qui giace Paul Newman, morto di dolore perché i suoi occhi erano diventati marroni». Gli occhi sono rimasti azzurri fino all'ultimo, e Newman era, anche dopo gli 80 anni, un vecchio bellissimo. Di lui Lee Strasberg, il suo maestro all'Actor's Studio, diceva: «Se fosse stato meno bello sarebbe stato più bravo di Marlon Brando». Una frase che ricorda quella che George Best, il «quinto Beatle», il famoso calciatore del Manchester United, diceva di sé: «Se fossi stato meno bello non avreste mai sentito parlare di Pelè». È curioso come i belli, a volte, fatichino a fare i conti con la propria bellezza. Newman raccontava di aver capito l'effetto che faceva alle donne durante le riprese di Hud il selvaggio, in Texas, nel 1963: «Tentavano letteralmente di scavalcare la recinzione del motel dove abitavo. All'inizio, è gratificante. Ma solo all'inizio... poi capisci che ti confondono con i ruoli che interpreti, e che tutto ciò non ha niente a che vedere con il vero te stesso». Ciò non toglie che per decenni Paul Newman è stato uno dei divi più «redditizi» di Hollywood, e che in questo successo il fascino sia stato importante almeno quanto il talento. Lui, però, aveva un pessimo rapporto con il proprio alter-ego, là sullo schermo: «Non riesco a guardarmi. Se mi rivedo in una scena osservo solo la tecnica, gli errori, la fatica che mi è costata».
È una fatica che risale agli inizi della carriera. Paul Newman non è stato attore per vocazione, non era quel che si dice «un talento naturale». Figlio di un negoziante di articoli sportivi, nasce a Cleveland, Ohio, il 26 gennaio del 1925. Dopo aver servito in Marina (come marconista) durante la guerra, lavora nel negozio paterno e vive una gioventù turbolenta: espulso dall'università, nel 1950 ha già un figlio, un matrimonio compromesso e un sacco di voglie matte in testa. All'inizio degli anni 50, già grandicello, ritenta con gli studi: si iscrive a Yale, frequenta la compagnia teatrale universitaria e tenta la fortuna a New York. Nel'53 ottiene il ruolo da protagonista nel dramma Picnic di William Inge ed entra all'Actor's Studio per caso: accompagna un'amica che ha bisogno di un partner per un'audizione, come a volte capita non prendono lei e notano lui. Ma fin da allora, ha raccontato, la recitazione per Newman non è gioia ma lavoro, duro lavoro: una dolorosa terapia per superare le proprie insicurezze.
Il passaggio al cinema è traumatico. La «conferenza sulla pessima recitazione» di cui parlavamo in apertura è il modo in cui Newman descrive il proprio esordio, nel 1954, in Il calice d'argento, pessimo film in costume sul Santo Graal diretto da Victor Saville. II giovane Paul è così deluso dalla propria performance che paga di tasca propria un annuncio su un giornale per scusarsi con gli spettatori. Ma è solo questione di tempo. Il cinema americano, alla metà degli anni 50, sta cambiando. Sotto i colpi della tv, il vecchio studio-system hollywoodiano perde centralità. Si diffonde un nuovo gusto, piacciono facce diverse, meno da «star», più vicine alla gente reale. Una nuova generazione di attori sta per imporsi: vengono dal teatro, sono seguaci del Metodo (quello che Strasberg insegna all'Actor's Studio, ispirandosi alla tecnica del russo Stanislavskij), lavorano duramente sull'identificazione psicologica, portano nel cinema le inquietudini e le ribellioni giovanili del dopoguerra. Uno di loro, già famosissimo in teatro, è un divo del cinema dal'48: Montgomery Clift, esordiente «alla pari» con John Wayne nel meraviglioso western II fiume rosso, di Howard Hawks. Un altro, Marlon Brando, ha fatto il botto nel 1951 portando sugli schermi Un tram che si chiama desiderio. Un terzo, James Dean, esplode come una meteora due-tre anni dopo: tre film (La valle dell'Eden, Gioventù bruciata, Il gigante) e una morte che lo consegna alla leggenda. Intanto Newman suda, fatica, arranca. Ma il secondo film, nel'56, è decisivo: il ruolo del pugile italo-americano Rocky Graziano si presta ai supplizi fisici e psicologici che il giovane attore si infligge. Il film, Lassù qualcuno mi ama, è un successo. Newman, lavorando con Graziano che è poco più anziano di lui (del '22, campione del mondo dei medi tra il '47 e il '48), scopre che il pugile, un paio d'anni prima, è stato perseguitato da un altro giovane attore che voleva «studiarlo» per interpretarne la vita: «Si chiamava Marlon Brando, lo conosci?». Anche da questa coincidenza, Newman capisce di aver scelto il cavallo giusto. Fa di Rocky un giovane chiuso e disadattato, che attraverso la violenza esprime rabbia e bisogno di amore. Qualcosa di simile fa, due anni dopo, interpretando Billy the Kid in Furia selvaggia, di Arthur Penn, il western più psicoanalitico della storia: una rilettura molto «newyorkese» del celebre fuorilegge, non a caso tratta da un dramma di Gore Vidal che con il vero West aveva ben poco a che fare.
Il '58 è l'anno in cui Newman diventa un divo: interpreta, oltre a Furia selvaggia, La lunga estate calda (nel quale ritrova un'attrice già conosciuta in teatro, Joanne Woodward: non si lasceranno mai più) e La gatta sul tetto che scotta, da Tennessee Williams, dove ingaggia con Liz Taylor un rovente duello di sensualità. Otto Preminger lo chiama nel '60 per Exodus: «È l'unico attore ebreo che non sembra ebreo», dice. Sì, Newman - i cui genitori vengono entrambi dall'Ungheria - è ebreo al 50%, anche se non ha mai pubblicizzato troppo questa sua origine. Nel '61 Robert Rossen, un regista da riscoprire, gli regala uno dei suoi ruoli più belli, il giovane Eddie Felson che sogna di sfidare a biliardo il campione Minnesota Fats: il film è Lo spaccone, ammirato e citato da tutti gli appassionati della stecca, anche dal Francesco Nuti di lo Chiara e lo Scuro. Seguono Hud il selvaggio, Detective's Story, Nick Mano Fredda e gli amatissimi Butch Cassidy e La stangata, entrambi di George Roy Hill, dove forma con Robert Redford una coppia irripetibile. Sono i film che, negli anni 60, scrivono la sua leggenda. Comincia a collezionare candidature agli Oscar: sono già 7, senza nessuna vittoria, quando finalmente vince nel 1987 per Il colore dei soldi, seguito -infinitamente inferiore - dello Spaccone. Forse per scaramanzia, non si presenta alla cerimonia, e in seguito dichiara: «E come inseguire una bella donna per 80 anni, e quando lei finalmente cede, doverle dire: mi spiace, sono stanco».
Man mano che gli anni passano, i ruoli si evolvono: anziché il giovane bello ma autistico, incapace di trovare un posto nel mondo, comincia ad interpretare uomini maturi, a volte quasi saggi, come Butch Cassidy e l'Henry Gondorff della Stangata - e in quegli stessi anni sono indimenticabili le sue prove in Un uomo oggi, L'uomo dai 7 capestri (stranissimo western grottesco di John Huston) e Agente speciale Macintosh. Èbello pensare che la svolta della carriera sia una giornata molto particolare descritta da Hill in un «dietro le quinte» di Butch Cassidy: «Per mesi avevamo pensato che Brando avrebbe interpretato Butch, e Newman il più giovane Sundance Kid. Quando Brando rinunciò e fu scritturato Redford, la nuova distribuzione dei ruoli non fu chiarita, e al primo giorno di prove Newman cominciò a leggere la parte del Kid, e Redford quella di Butch. Dovetti dir loro: scusate ragazzi ma avevamo pensato il contrario, Paul fa Butch e Robert fa il Kid». Da quell'equivoco Robert Redford ha ricavato il Sundance Festival... e Newman, chissà, una nuova consapevolezza, una dimensione di «uomo fatto» che prima era incompiuta, e che lo aveva reso perfetto in ruoli da emarginato, da violento controvoglia, da reietto. Dopo, invece, vengono parti sempre problematiche, ma con una nuova, potente solennità, come l'avvocato del Verdetto, Il poliziotto di Fort Apache: the Bronx, e naturalmente l'Eddie Felson invecchiato, capace di tenere a bada il giovane fan Tom Cruise, nel citato Il colore dei soldi.
Nel frattempo Newman si è rivelato anche un bravo regista. Ha diretto 5 film: Rachel, Rachel (1968), Sfida senza paura (1971), L'effetto dei raggi gamma sulle margherite (1972), Harry&Son (1984) e Zoo di vetro (1987), dal dramma di Tennessee Williams. Sono molto diversi l'uno dall'altro e testimoniano soprattutto un affettuoso lavoro sugli attori, si tratti dell'adorata Joanne Woodward o del sommo Henry Fonda (lui e Newman interpretano due fratelli nel durissimo Sfida senza paura, forse il più inatteso e interessante del mazzo). Dagli anni 70 Newman si confronta anche con la Nuova Hollywood, interpretando un cialtronissimo William Cody in Buffalo Bill e gli indiani di Altman e arrivando fino a Mister Hula-Hoop dei fratelli Coen. L'ultimo, vero film è Era mio padre di Sam Mendes, ennesima candidatura (la decima) all'Oscar.
Tre ultime cose. È sempre stato un convinto sostenitore del partito Democratico ed era orgoglioso che il suo nome comparisse nella lista dei «nemici» di Richard Nixon ai tempi del Watergate. Ha avuto un enorme successo con la linea di prodotti alimentari «Newman's Own»: gli ha fruttato, negli anni, circa 200 milioni di dollari andati tutti, dicasi tutti, in beneficenza. E nonostante la leggenda, non era un tappo. Quando lo vedemmo da 3-4 metri di distanza a Cannes, l'anno in cui presentò Zoo di vetro, ci sembrò alto come noi. II sito internet www.imdb.com indica un'altezza di 1,77. Chi scrive è 1,76. Un centimetro fa la differenza.
Da L'Unità, 28 settembre 2008
Come accade tuttora per Steve McQueen, la pubblicità sfrutterà a lungo lo sguardo azzurro di Paul Newman, morto ieri a 83 anni, dopo un'agonia fin troppo seguita dalla stampa e una vita esaltata tanto dal successo (e da quello di Joanne Woodward, seconda moglie); quanto amareggiata dalla scomparsa di Scott, figlio di primo letto.
Nella filantropia concreta degli ultimi anni di Newman non c'era solo la. Voglia di trovare un'alternativa alla passione per le corse in auto, che lo aveva portato in pista- a Le. Mans e a Indianapolis. Doveva esserci anche il dolore venato di rimorso di un padre capace di dare al figlio dalla gloria riflessa ai soldi sicuri, ma non ciò ché il figlio voleva di più: tempo e considerazione del padre.
Le tv hanno già cominciato a .spartirsi il ricordo: di Newman, a colpi di «omaggi», modo finto-nobile per trarre nuovi introiti indiretti dall'aver acquisito i diritti dei sui vecchi film. Era quel-lo che Newman meno desiderava: non molti anni fa aveva pubblicato un'intera pagina su un quotidiano di Los Angeles per scusarsi della ripetuta diffusione del Calice d'argento di Victor Saville, scadente esordio-cinematografico, dove Anna Maria Pierangeli (solo Pier Angeli per gli americani) interpretava sua moglie.
Fra questi episodi estremi, mezzo secolo di carriera e una settantina di film, da attore nella Hollywood dell'ultimo divismo, per lo più girati fra anni Cinquanta e Settanta; numericamente'esigue e ignote al grosso pubblico, invece, le regie, di Newman. Ma l'ultìmo Festival di Cannes -'nel quarantennale sessantottardo - ha riproposto Gli effetti dei raggi gamma sui fiori di Matilda, dove c'è tutto, meno la «fantasia al potere» e il «vietato vietare» della contestazione francese.
L'alone del divo ha messo in ombra l'intellettuale, il marito felice (quanti a Hollywood hanno avuto una sola moglie?) e il padre infelice (stesso destino di Coppola e Pollack). Ogni commemorazione è tenuta a evocare splendori; e ogni commemorazione, specie in tv, evocherà ardori femminili estesi a quattro generazioni. E noli solo quelli femminili: virile pugile in Lassù qualcuno mi ama di Robert Wise, uno dei suoi film migliori, sempre accanto alla Pierangeli, Newman interpretava - due anni dopo cioè mezzo secolo prima dei Segreti di Brokeback Mountain - non solo il pistolero omosessuale Billy the Kid in Furia selvaggia di Arthur Penn, ma anche il ricco marito «indifferente» alle grazie di Elizabeth Taylor nella Gatta sul tetto che scotta di Richard Brooks, tratto dal dramma di Tennessee Williams.
Era la prima fase della carriera di Newman, ancora d'impronta teatrale e pericolosamente simile a quella dell'archetipo, Marlon Brando, dei belli e dannati del periodo. Uscire da quella scia è stato uno dei problemi di Newman: non ci è mai riuscito dal lato mitico, ma ci è riuscito, da quello economico perché quasi tutti i suoi film incassavano, a differenza di quelli con Brando. E se nei drammi Brando era superiore, nelle commedie prevaleva Newman: i begli occhi: lo rendevano irresistibile come simpatico mascalzone, perfino quando dovevano confrontarsi con quelli, sempre azzurri ma meno vivaci; di Robert Redford, come in Butch Cassidy di George Roy Hill, dove l'omoerotismo della vicenda si diluiva nella terza misura di seno di Katherine Ross, il cui personaggio si concedeva serenamente a entrambi.
Sono rari i film dove i ruoli di Newman prescindano dalla seduzione. La questione poteva essere camuffata in peggio, come appioppandogli il ruolo del violentatore, come nell'Oltraggio di Martin Ritt, vano rifacimento di Rashomon di Akira Kurosawa; o quello del maturo capobanda assassino nell'Uomo dai sette capestri di John Huston (scritto da John Milius), mettendogli accanto per pochi attimi un altro grande mito sexy della sua stessa generazione: Ava Gardner.
Una Academy ancora poco incline ad apprezzare i personaggi problematici si trovò fuori sincrono - con l'apice della carriera di Newman: solo quando lui era già sessantenne, gli diede dunque l'Oscar per Il colore dei soldi di Martin Scorsese, rifacimento non proprio magistrale dello Spaccone di Robert Rossen, quello sì un capolavoro grazie anche a un immenso Newman. Si noti: fra i comprimari dello Spaccone c'era Jake La Motta, che a Scorsese avrebbe poi ispirato Toro scatenato.
Newman aveva a quel punto una dimensione che prescindeva anche dai riconoscimenti prestigiosi. Una della scene più famose, in uno dei film di maggiore incasso d'ogni tempo, Emmanuelle di Just Jaeckin, schierava le ventenni Sylvia Kristel e Christine Boisson a contemplare con ritorni molto, - molto piacevoli per loro - Newman sulla copertina di una rivista. Un quarto di secolo dopo, nella miglior versione (non dichiarata) del Lungo addio di Raymond Chandler; Twilight («Crepuscolo») di Robert Benton, saranno nel personaggio di Susan Sarandon intensi pensieri adulterini su un Newman ormai settantenne. Era sesso, solo accennato, adeguato alla seconda età per lei e alla terza di lui, che aggirava la convenzione hollywoodiana per la quale il vecchio con desideri è un vecchio porco. Per violare certi tabù non bastava esser (stati) belli; occorreva anche esser bravi. Ricordiamo dunque così Newman, in quel ruolo da dorato crepuscolo; e nel ruolo colpevole e sofferente di Era mio padre di Sani Mendes, dove aveva accettato, come per espiazione, il suo solo personaggio atroce: un padre che condanna il degno figlio (putativo) per salvare quello indegno.
Da Il Giornale, 28 settembre 2008
L'attrice girò con lui Ormai non c'e più scampo. «Un brutto film, lo accettai solo per rivederlo. La moglie, Joanne Woodward, lo teneva sempre d'occhio»
Valentina Cortese si schermisce con grazia. «Sto male - dichiara con la sua piccola voce che ha incantato generazioni di spettatori -, un mese fa, mentre riordinavo un vecchio armadio dove avevo riposto un baule di Eleonora Duse in cui la nostra straordinaria attrice aveva messo i copioni originali di D'Annunzio, sono caduta e mi sono fratturata una vertebra. Un incidente che mi ha costretta a rinviare il recital Duse legge i versi di Gabriele che avrei dovuto recitare al Teatro di Verdura, il palcoscenico del mio amico Dell'Utri». Impossibile arginare Valentina che, nonostante un noiosissimo raffreddore, parla a raffica di D'Annunzio, di Boito e della Duse come se li avesse conosciuti personalmente.
Ma io interrompo quel flusso precipitoso di parole per darle la drammatica notizia della scomparsa del suo amico Paul Newman. Per un attimo, d'improvviso, la sua voce al telefono tace. Si sente solo, in sordina, un fastidiosissimo sibilo che mi lascia interdetto. Possibile che la Cortese, in preda all'angoscia, abbia interrotto la comunicazione? Per fortuna, invece, non c'è nulla da temere. E subito Valentina, con le lacrime nella voce, comincia a tessere, addoloratissima, uno di quei meravigliosi monologhi di cui lei sola è capace. «Quando è avvenuto?», chiede disperata. «lo che qui, mentre a stento mi riprendo, chiudo la radio e spengo la televisione, non ho sentito nulla. Anche se noi tutti che l'abbiamo tanto amalo, ci aspettavamo da. un momento all'altro che dovesse accadere».
Come lo ricorda, cara Valentina, lei che con lui tanto tempo fa recitò in un fïlmone catastrofico intitolato Ormai non c'è più scampo?
«Accettai di girare quella brutta pellicola, che per fortuna oggi nessuno ricorda, solo per avere il piacere di rivederlo».
Dove vi eravate conosciuti?
«A Hollywood, vent'anni prima, quando ero io America al soldo di Selznick. Ltd, allora, era legato da un contratto di ferro con la Metro Goldwyn Mayer che lo obbligava a recitare in copioni così brutti da fargli venire conati di vomito, povero caro. Una sera alcuni amici comuni ci presentarono. Stavamo entrambi cenando da Ciro's, il ristorante chic di Santa Monica, e Paul si lamentava con Anna Maria Pierangeli del film in citi lavoravano insieme, un pasticcio biblico intitolato Il calice d'argento. "Ma come -ripeteva indignato -, a me che ho studiato all'Actor's Studio e mi son fatto le ossa a Broadway, il cinema offre porcherie simili". A me quel bellissimo ragazzo dai grandi occhi azzurro cielo fece subito un'immensa tenerezza. "Non preoccuparti, caro - cercai di consolarlo -, prima o poi, verrà il tuo momento. E allora tutta Hollywood striscerò ai tuoi piedi, puoi starne certo"».
Possibile che dopo vi siate perduti di vista per tanto tempo?
«Capita spesso nel nostro mondo, purtroppo. Anche se di tanto in tanto ci mandavamo dei bigliettini d'incoraggiamento. Pensi che quando, per un soffio, non vinsi l'Oscar per Effetto notte, il film di Truffaut dov'ero un'attrice che andava sempre a sbattere contro una porta come in una comica di Ridolini, lui che l'Oscar non l'aveva preso mai mi telegrafò. "Chi è più geniale di Buster Keaton - mi scrisse - non ha bisogno di premi di consolazione". Una. battuta che in sé riassume tutta la storia di un'amicizia».
Poi finalmente giraste insieme quell'unico film. Che cosa ricorda di quel periodo?
«Lavoravamo alle Hawaii. In piena estate, con cinquanta gradi all'ombra. Per distrarci andavamo a nutrire i delfini all'Animal Circle, a due passi dalla spiaggia dove avevano luogo le riprese. È alla sera, in compagnia di sua moglie,Manne Woodward, che lo teneva d'occhio come un'istitutrice svizzera, mangiavamo chili di pop corn che lui stesso si divertiva a preparare. Con lui non ho perso soltanto on grande amico. Con Paul se ne va l'ultima traccia della mia giovinezza».
Da Il Giornale, 27 settembre 2008
Attore o pilota? la domanda è lecita pensando a Paul Newman. Piccolo di statura - il suo incubo - grande come attore, almeno superbo come pilota. Anche se a cavallo tra il ruolo di gentleman e quello di professionista. E persino in quello di team manager, nel mondo delle corse che contano negli States, non esclusa la celebre Indy. Gli occhi più belli e più blu di Hollywood, purtroppo, li rivedremo solo nei tanti memorabili film interpretati dall'attore americano. Che a 83 anni ha deciso di lasciare questo pianeta e una delle sue grandi passioni: le automobili. Suo malgrado - «perché nella mia testa c'è sempre l'ardore e la passione di un ragazzo» - come amava dire ad anici e ammiratori. Al punto che fino a poco tempo fa si era cimentato al volante di splendide Gran Turismo da 500 cavalli. Partecipando con costanza a varie competizioni, specie nelle gare di durata, senza mai poter sconfinare - per ragioni di anagrafe - in quella FI che pur osservava con interesse. Poco importa. Se Paul Newman lo ricorderemo per il suo impegno nel sociale, per le tante donazioni, il mondo dell'automobile lo ricorderà come grande e raffinato esperto. E collezionista di pezzi rari e introvabili, del valore di svariati milioni di curo. Non il solo, nel mondo di Hollywood. Facile ricordare James Dean, morto giovanissimo al volante di una Porsche 550 Speedster nel 1955. O Steve McQueen, altro attore-pilota, anzi, più pilota che attore: al volante di una Porsche, riuscì a comandare la celebre 12 ore di Sebring del 1970, davanti allo squadrone ufficiale Ferrari. Per cedere solo nel finale il comando della gara, accontentandosi di una prestigiosissima piazza d'onore. Anche Steve morì di tumore, ma a poco più di 50 anni. Anche l'interprete di Papillon e di tanti altri celebri film aveva nei suoi garage blindati splendide automobili da collezione. Come Paul Newman. Non c'erano corse, raduni, mostre di auto moderne o d'epoca, che non lo vedessero tra i protagonisti. Nel 1979 partecipò con una sua scuderia alla 24 ore di le Mans, e su una Porsche 935 (un mostro da oltre 700 cavalli) guidata insieme a Rolf Stommelen e Dick Barbour, si classificò secondo assoluto nella classica francese. D'accordo, i suoi tumi di guida furono certo inferiori a quelli dei piloti titolari della casa di Stoccarda. Ma non è da tutti viaggiare sul celebre rettilineo delle Heunadierès a velocità comprese tra i 350 e i 400 km/h. Non solo. Nel 1995, dunque a 70 anni suonati, vinse la 24 Ore di Daytona per la classe GIS, arrivando terzo assoluto. Insomma il pilota più anziano a riuscire in una impresa simile. Solo tre anni fa, a 80 anni - e sempre a Daytona - uscì illeso dall'incendio che distrusse la sua Crawford, durante una sessione di prove libere. «Alla passione non si comanda - disse -. E solo il mio modo di concepire la vita: non rinunciare mai a quello che ami».
Numerose, anche negli ultimi anni, le sue visite a Maranello, a quella Ferrari che ha sempre ammirato e i cui modelli voleva accaparrarsi come un quadro d'autore. Tra i film più famosi legati alla sua grande passione, Indianapolis pista infernale, girato nel 1969. Dove interpretò, senza controfigura, un pilota in crisi coniugale, recitando con Joanne Woodward, che aveva sposato nel 1958 in seconde nozze, dopo 9 anni di matrimonio con Jackie Witte, e che gli è rimasta accanto fino alla fine.
Da L'Unità, 28 settembre 2008
Ha pure creato un villaggio vacanze per bambini malati di cancro, fatalità della sorte, proprio il male che l'ha ucciso È stato sempre dalla parte dei democratici E non ha risparmiato accuse al governo per le strumentalizzazioni dell' 11 settembre filantropo. Così lo raccontano i media Usa: attore e filantropo. Newman ha dedicate tutta la vita ad aiutare i più deboli. Con i barattoli di salsa della sua linea alimentare ha incassato una fortuna tutta devoluta in beneficenza...
«Attore e filantropo Paul Newman è morto questa mattina nella sua casa in Connecticut. Aveva ottantatre anni». Così le centinaia di canali televisivi e radio in America hanno annunciato la morte di Newman, affiancando alla professione che lo ha fatto conoscere ed ammirare nel mondo, all'attività a cui ha dedicato buona parte della sua vita: usare il suo nome e il suo sempre bellissimo volto per portare avanti le idee in cui credeva e aiutare gli altri. Paul Newman era un filantropo forse ancora prima di essere una delle icone del cinema americano. «La cosa che più mi imbarazza - aveva detto durante una delle sue ultime interviste - è che ha fatto più soldi la mia faccia su un barattolo di salsa che in centinaia di film!». I barattoli di salsa erano quelli della linea di prodotti alimentari, fondata nel 1982, che ha fruttato 250 milioni di dollari interamente devoluti in beneficenza. «È iniziato tutto quasi per scherzo - aveva detto durante una delle sue ultime interviste, per il film Era mio padre, nel 2002 -. Nessuno di coloro che ha pensato e attuato questa cosa insieme a me aveva la minima idea che si sarebbe trasformata in un business da centinaia di milioni di dollari».
Le sue attività a favore dei meno fortunati erano numerosissime. Nel 1987, Paul Newman aveva creato il primo villaggio vacanze per i bambini malati terminali e l'associazione «The Hole in the Wall Gang», per la gestione dell'iniziativa. Grazie a Paul Newman ogni anno tredicimila bambini malati di cancro vengono assistiti e curati gratuitamente mentre trascorrono una vacanza serena.
Ironia della sorte, il capostipite di quella generazione di celebrità politicamente e socialmente attive, che ora vanta nomi come Leonardo DiCaprio, Angelina Jolie e Tom Hanks, e scomparso proprio per un tumore ai polmoni. Completato qualche mese fa l'ultimo ciclo di chemioterapia al Weill Cornell Medical Center di New York, aveva chiesto di poter tornare a casa, nella sua villa di Westport, nel Connecticut, e vivere gli ultimi giorni in famiglia, senza clamore. Aveva anche deciso di regalare ad un amico la sua amata Ferrari con il numero di gara 82. Le auto erano state il suo primo amore. Giovanissimo, ben prima di iniziare a recitare, Paul Newman aveva dovuto rinunciare alla carriera di pilota professionista per problemi alla vista.
La notizia della sua malattia -circolava dallo scorso gennaio. Il 23 maggio l'attore aveva rinunciato al suo atteso debutto come regista teatrale con Uomini e Topi di John Steinbeck. L'annuncio shock era arrivato il mese successivo, per bocca dell'amico scrittore A.E. Hotchner: «Paul è in cura per uri tumore». Poi era stato silenzio, sino a questa mattina, quando la notizia è trapelata ed è iniziato il consueto rito sull'Hollywood Boulevard: la stella di Paul Newman, piazzata qualche centinaio di metri ad ovest del Kodak Theatre, il teatro degli Oscar, è stata coperta di fiori, candele, bigliettini di saluto. È il modo che ha la gente di qui per dimostrare il proprio affetto verso il mito.
La famiglia dell'attore ha rilasciato un comunicato in cui si legge che «Paul Newman ha recitato in numerosi ottimi ruoli in tutta la sua vita, ma il migliore è stato quello di padre affettuoso e marito dedito». Paul Newman è stato sposato per 50 anni con Joanne Woodward. A chi gli chiedeva del segreto di uno dei pochi matrimoni duraturi a Hollywood Newman rispondeva: «Ho bistecche a casa, perché dovrei uscire per farmi un hamburgher?». E poi, più seriamente: «Le persone restano sposate per scelta, non perché chiudono a chiave le porte». La sua scelta è stata quella di vivere una vita privata di basso profilo, sempre misurata, anche quando si è trattato di superare il dolore della morte del primo figlio, Scott, ucciso nel 1978 da un'overdose (Paul Newman aveva sei figli, tre nati dal primo matrimonio con Jackie Witte, Scott, Susan e Stephanie e tre figlie nate dalla duratura unione con Joanne: Elinor, Melissa e Claire). Nato a Cleveland, Ohio, da un commerciante di origine ebree Arthur, e da una cattolica ungherese, Theresa, Paul è stato da sempre un liberai convinto e coraggioso. Critico della prima ora dell'attuale amministrazione, dopo l'undici settembre aveva tuonato contro la gestione della tragedia. «Peggio di tutti quei morti è stato solo il modo con cui certa gente ha approfittato della vicenda. Mi riferisco al Governo e ai servizi segreti. In America è venuto a mancare il senso della critica per eccesso di patriottismo». E ancora: «Quindici anni fa la media dello stipendio di un funzionario era quindici volte superiore al salario di un operaio. Oggi è 400 volte di più. Guadagnano cifre spropositate e non sono neanche onesti. Non c'e mai stato, in tutta la mia lunga vita un tempo in cui tante istituzioni sono state sotto accusa: il mondo degli affari, il Governo, la Chiesa». Diceva questo sei anni fa Paul Newman. E ora l'America ha perso anche questa voce critica.
Da L'Unità, 28 Settembre 2008
Addio a Paul Newman ultima leggenda del cinema. Bello, bravo, generoso, l'attore americano più amato.
È morto, dopo una lunga malattia, Paul Newman, ultima leggenda di un'epoca in cui Hollywood contava ancora sul fattore umano e non sugli effetti speciali, il protagonista, con Joanne Woodward, di uno di quei matrimoni esemplari fatti di passioni comuni e di intelligenza. Uno dei volti più belli del cinema (il duello era tra lui e Marlon Brando).
Ma anche un uomo con una straordinaria volontà di fare - cinema, teatro, avventura, persino gastronomia, un impegno liberal sempre dichiarato - e un talento che si è espresso in modo ineguale eppure sempre memorabile.
Se ne è andato un uomo che ha avuto la disgrazia di essere troppo bello (e la fortuna di avere talento). Era nato nel 1925 a Cleveland, Ohio, da un padre di origine ebraica e da una madre cattolica ma per tutta la vita lui avrebbe dichiarato di sentirsi ebreo, «perché è una sfida più grande», Aveva subito dimostrato una passione notevole per il mestiere che poi sarebbe stato il suo per tutta la vita. Fin dagli anni dell'università in Ohio (da cui fu cacciato, raccontano i biografi, per aver sbattuto una cassa di birre sulla macchina del preside). Fin da quando dovette decidere che non avrebbe preso il posto del padre alla guida all'emporio sportivo della famiglia ma avrebbe continuato nel suo tentativo di diventare un attore. Un tentativo che lo portò a Yale, dove frequentò la Yale School of Drama e dove si sposò una prima volta, poi all'Actors Studio, dove studiò in un interessante gruppetto di cui facevano parte Geraldine Page, Rod Steiger e James Dean, poi alla sua apparizione a Broadway in Picnic, che avrebbe segnato l'inizio della sua carriera di attore - e l'inizio dell'amore con e per Joanne Woodward, che fu la sua seconda moglie e la moglie di tutta una vita.
Ma era bello, troppo bello, Paul Newman, con la faccia perfetta, il profilo impeccabile, gli occhi di un blu inquietante (anche se quei begli occhi blu, si scoprì quando cercò di farsi arruolare durante la guerra, erano quelli di un daltonico e lui dovette accontentarsi di fare il telegrafista). Cosa si fa di uno così eccezionalmente bello? Così bello che, ai tempi, si discuteva con animazione su chi lo fosse di più, fra lui e Marlon Brando, più vecchio di un anno, anche lui passato per la scena di Broadway ed immediatamente diventato una star e un'immagine rivale. Il bellissimo Paul avrebbe trovato il suo profilo di attore più tardi, dopo molti film in cui era più bello che bravo (e dire che era bravo): da Il calice d'argento (1954) di Victor Saville (che lui stesso definì «junk», una schifezza) o da Lassù qualcuno mi ama (1956) di Robert Wise a La gatta sul tetto chescotta (1958) di Richard Brooks.
La maturità è tutto, diceva il Bardo. E i suo ruoli Paul Newman li trovò quando era non più un ragazzo ma un uomo.
Con Furia selvaggia (1958) di ArthurPenn, dove il suo Billy the Kid è insicuro e fragile, tenero e crudele. Con Lo spaccone (1961) di Robert Rossen, dove incarna il personaggio che lo promosse grande attore e lo fece entrare nella leggenda cinematografica americana. Con Hud il selvaggio (1963) di Martin Ritt, dove in un ruolo da ragazzaccio cattivo e immorale conquistò comunque i cuori. E, definitivamente promosso al ruolo di star, con Butch Cassidy (1969) di George Roy Hill, dove era nettamente più attraente (è la mia personale opinione) persino del suo seducente alter ego e «gemello» Robert Redford - che tornerà ad essere il suo complice nel delizioso divertimento che è La stangata (1973), il film in cui Newman rispose a modo suo all'ossessione di essere considerato troppo bello, facendosi trovare nella prïma scena del film ubriaco, con la barba lunga e il naso malconcio.
All'inizio degli anni '60 Paul Newman era diventato la star che sognava. Una star con un grande culto della famiglia, che ruotava attorno a una forte personalità come quella di sua moglie Joanne Woodward, e con molte ambizioni. Per esempio quella di dirigere.
Cosa che fece con La prima volta di Jennifer (1968), costruito, appunto, attorno a sua moglie Joanne, poi con Sfida senza paura (1971), poi con Gli effetti dei raggi gamma sui fiori di Matilde (1972), poi, dopo un intervallo di molti anni, con Harry & Son (1984) e con Zoo di vetro (1987): abile sì, nella prima fase della sua carriera di regista, ma forse troppo visibilmente serio e ben intenzionato. Più lieve poi, in Harry & Son. Classico e toccante nella pièce di Tennessee Williams con cui tornava ad alcune atmosfere della sua giovinezza cinematografica.
E siccome era bello, e una star, ma non privo di senso dell'umorismo e della realtà (come ci si può fidare, diceva, di un'industria cinematografica «che. pochi anni fa. Ha avuto i suoi massimi incassi grazie a due robot e uno squalo?»), Paul Newman si è buttato anche in altre avventure. Come il teatro, naturalmente, che ha continuato fino a poco tempo fa. Ma anche avventure più eccentriche. Eccolo dunque pilota molto professionista e molto apprezzato di auto da corsa. Eccolo inventore e produttore di una celebre vinaigrette venduta in bottigliette adorne di un'etichetta con la sua bella faccia sorridente (Appelation Newman Controlée) - i cui introiti sono stati però da sempre destinati a finanziare la Scott Newman Foundation, la fondazione creata in nome di suo figlio Scott, morto di overdose, per studiare il problema della rappresentazione della droga nei media.
Ma più che nei molti film di qualità o di routine della sua maturità (da Hombre di Martin Ritt a Il sipario strappato di Hitchcock, da Nick Mano fredda di Stuart Rosenberg a L'agente speciale MacIntosh di John Huston, da Buffalo Bill e gli indiani di Robert Altman a Il colore dei soldi di Martin Scorsese, che non riuscì tuttavia a battere il modello di Lo spaccone, anche se gli fruttò l'unico Oscar della carriera), Paul Newman, negli ultimi anni della sua carriera, ha lasciato il segno con due personaggi «vecchi» di grande incisività: l'avvocato alcoolista di Il verdetto (1982) di Sidney Lumet, a cui l'attore regala una forza umana e un senso crepuscolare straordinario, e il gelido uomo d'affari di Mister Hula Hoop (1994) dei Coen: un'affermazione, da parte del grande attore ormai anziano, ormai segnato, ormai imperfetto, della sua bravura: a prescindere da quel volto perfetto, da quel profilo di medaglia, da quegli occhi blucosì gelidi, così caldi.
Da La Repubbica , 28 settembre 2008
Era diventato il più amato degli attori americani alla fine degli anni'50, già ultratrentenne, mentre una valanga di virili ma usurati cinesex symbol si avviava all'oscurità della pensione.
Appariva come un nuovo Marlon Brando, però meno fosco e più bello, adatto quindi a far singhiozzare per sfinimento amoroso le nuove platee femminili già impazienti dei loro confini domestici, con quei bei melodrammi spesso insensati e talvolta ispirati a Tennessee Williams o a William Faulkner o a John O'Hara in versione molto edulcorata. Gli occhi azzurri di Paul Newman divennero leggendari, e anche nei film in bianco e nero riuscivano a illuminare lo schermo, straziavano le partner, ammutolivano le romantiche platee: lui li considerava un fastidio, e per tutta la vita li nascose con spessi occhiali scuri, portando anche barbe finte per riuscire a sfuggire agli assalti delle ammiratrici. Disse una volta: «Sulla mia tomba vorrei che scrivessero, “Qui riposa un uomo che divenne finalmente qualcuno quando i suoi occhi diventarono castani”».
Paul Newman è morto a 83 anni, sfinito da un tumore ai polmoni, circondato dal rispetto, dal silenzio e dalla discrezione, dopo una intera vita in fuga dalla trappola della celebrità, dall'avidità e curiosità dei media e dei fan, dai languori delle donne, della sua mitica e commovente bellezza e dal suo lento sfaldarsi, una vita affollata di impegni e interessi per non farsi divorare dalla fama e dal divismo. Gli piacevano nei film i ruoli che avrebbero dovuto rendere meno aggressivo il suo fascino, e che invece facevano di lui l'uomo che tutte le donne avrebbero voluto aiutare, redimere, avere, con i suoi vezzi d'attore, i bronci, i mutismi, gli sguardi disperati, gli improvvisi lucenti sorrisi, quella faccia bella e virile, quei corti ricci capelli che diventati bianchi lo rendevano ancora più glamour, e quei cappelli da cowboy calati sugli occhi, e la sigaretta allato delle labbra e le magliette sudate che quarant'anni fa costituivano la massima cinetrasgressione erotica.
Restio ai doveri coniugali poi con una giovanissima Elizabeht Taylor dalla vita di vespa in La gatta sul tetto che scotta, disoccupato furibondo in La lunga estate caldaaccanto a Joanne Woodward di cui si innamorò ovviamente riamato, malgrado la presenza di una moglie, Jackie Witte, e di tre figli piccoli, Scott, Susan e Stephanie; poi di film in film, rabbioso mantenuto, indomabile ribelle, geniale bidonista, avvocato ubriacone, sino alla sua ultima apparizione di spietato mafioso. Sino all'ultimo film, segnato dalla vecchiaia come da una polvere corruttrice, continuava ad emanare una sempre più struggente seduzione, e si sa che a Hollywood e altrove molte signore non smisero mai di farsi illusioni, tentando con perseveranza approcci anche vistosi. Inutilmente, dice la cronaca o forse la leggenda: nel senso che assolutamente inviolabile fu la sua fedeltà alla seconda moglie, Joanne Woodward, venerata per l'intelligenza, la bravura d'attrice, la dedizione a lui e alle loro tre figlie, Elinor, Melissa e Claire.
Pareva quasi una ripicca snob, un modo di distinguersi dal disordine hollywoodiano, da cui lui comunque si teneva lontano, isolato nella sua magnifica casa a Westport, nel Connecticut, una magione di assoluta classe e rarità, risalente al 1760. Gli attori si sa si danno alla bella vita, cambiano moglie, ne prendono di sempre più giovani, accumulano avventure e famiglie, seminano infelicità e rancore? Lui invece, no, e finché la morte non li ha separati, ha vissuto e amato la stessa donna, la stessa moglie, per 50 anni, festeggiando le nozze d'oro nel gennaio scorso. Si erano conosciuti nel 1953 recitando insieme a Broadway la versione teatrale di Pic-nic, ma avevano finito per innamorarsi quattro anni dopo sul set di Una lunga estate calda dove lei bionda cotonata ricca e capricciosa si incapricciava anche di lui, forse perché ingiustamente accusato di piromania. Grande passione, veloce divorzio dalla prima moglie, matrimonio a Las Vegas nel gennaio del '58, regalo di lui una tazza d'argento con inciso la scritta, «Hai voluto a tutti costi abbarbicarti ad Apollo, se ti capiterà di non riuscire a digerirlo, questa ti servirà». br/>
Gli capitava di baciare appassionatamente, nei film, Elizabeth Taylor o Patricia Neal, ma gli toccava ribaciare anche sullo schermo soprattutto l'adorata moglie, in almeno sette film. Baci casa e lavoro, che funzionavano benissimo. Erano in tanti, prima o poi, a chiedergli villanamente, più o meno, lei che potrebbe avere chi vuole, le donne dei sogni di massa, lei che ha ballato anche con Marilyn Monroe e chissà quante belle ragazze lesi sono offerte, come mai sta sempre con quella che non è mai stata una gran bellezza e pare pure antipatica e si da delle arie e ha solo 5 anni meno di lei e quindi è decrepita? Pare che rispondesse, ma si spera di no; «Perché andare a cercare degli hamburger, quando in casa ho una magnifica bistecca?». Poi, più serio spiegava: «Ha sempre accettato incondizionatamente le mie scelte e i miei comportamenti, compresa la mia passione per le auto da corsa, che lei deplora. Questo è vero amore». E anche: «Noi due non abbiamo niente in comune se non il fatto che ci capita di fare film insieme; ognuno ha i suoi amici e i suoi interessi, non ci soffiamo sul collo, ci sentiamo liberi: sono le nostre distanze a unirci». Con la sua distanza e con pudore, lei gli è stata vicina nell'incolmabile vuoto di una improvvisa tragica assenza tutta sua, di lui, di un rimorso senza fine, forse di tutti e due: la morte per overdose dell'unico figlio maschio, Scott, nato dal primo matrimonio, a 28 anni nel 1978, attore fallito, figlio forse trascurato e comunque soggiogato da un padre troppo bello e troppo fortunato. Solo con lei, Joan Woodward, Paul Newman ha pianto, dandole l'ennesima prova d'amore, di fiducia, di condivisione, nel bene e soprattutto nel male.
Da La Repubblica, 28 settembre 2008
Si e spento all'età di 83 anni uno dei più grandi attori di tutti i tempi. Dall'esordio come Rocky Graziano in Lassù qualcuno mi ama all'Oscar per Il colore dei soldi. La passione per le auto da corsa, la politica e soprattutto il volontariato.
Hollywood piange uno dei suoi divi più grandi, una leggenda del cinema. Dopo una lunga malattia, Paul Newman si è spento nella sua villa di Westport, nel Connecticut, dove aveva voluto farsi riportare dall'ospedale dopo l'ultimo inutile ciclo di chemioterapia per un tumore ai polmoni. Accanto a lui la seconda moglie Joanne Woodward, 50 anni di matrimonio, uno dei più solidi di Hollywood, e le sue cinque figlie.
Paul Newman (nato a Cleveland, Ohio, nel 1925 da padre ebreo di origine tedesca e madre cattolica con radici ungheresi) aveva il dono della simpatia. Della razza dei Burt Lancaster e dei Robert Redford, piaceva alle donne e ai loro compagni. Era senza ombra di dubbio un uomo bellissimo (e lo è rimasto sino all'ultimo), un'icona glamour anche grazie ai suoi celeberrimi occhi blu da cui traspariva, però, soprattutto intelligenza. Il suo fascino, infatti, proveniva da qualcosa di più profondo che si esprimeva in una recitazione dalla naturalezza e dalla credibilità immediate. Pur attore completo, capace di recitare sia in commedie, anche sofisticate, che in drammi, poteva essere definito un «simpatico mascalzone» grazie a quel Lassù qualcuno mi ama di Robert Wise (1956) dove interpretava l'italoamericano Rocky Graziano che, attraverso la boxe, passava dalla delinquenza alla redenzione. Questo "tipo" sarà ripreso con maestria più volte all'attore e gli suggerirà il personaggio del giocatore di biliardo di Lo spaccone (1961) di Robert Rosse che sarà ripreso da Martin Scorsese nel Colore dei soldi in cui Newman è il "maestro" di Tom Cruise (Oscar per il miglior attore nel 1986, che però Newman non ritirò personalmente perché non presenziò alla cerimonia viste le tante vote, nove, in cui era stato nominato e mai premiato).
Bastò la prova di Lassù qualcuno mi ama a convincere gli hollywoodiani che il nuovo attore, nonostante il fisico atletico e persino una certa somiglianza, non sarebbe mai diventato un Marlon Brando dei poveri, ma avrebbe percorso una sua significativa carriera. Dopo le recite giovanili a teatro (Newman non lo abbandonerà neppure in seguito), un apprendistato presso l'Actor's Studio in cui imparò a disciplinare le proprie possibilità ma a guardarsi anche dai vezzi che caratterizzavano quel celebre istituto, Newman venne scritturato da Hollywood che pensava di farne un nuovo Robert Taylor in racconti avventurosi ambientati in lontani passati (vedi il suo primo film: Il calice argento).
Ma altre erano le intenzioni e le abilità di Newman, che vennero messe in luce da una serie di film realizzati da registi di prim'ordine quali Penn, Ritt, Brooks, Preminger (l'impegnato Exodus sulla nascita di Israele, 1960), Hitchcock (Il sipario strappato, 1966, avvincente film di spionaggio ambientato nella Germania dell'Est), Houston, Lumet. Guardandoli al lavoro, Newman imparò il mestiere di regista come mostrano i solidi film da lui retti, dei quali si ricorderà La prima volta di Jennifer (1968) e Harry & son (1984), sofferto film autobiografïco sui difficili rapporti tra padri e figli, girato dopo la morte per overdose del suono unico figlio maschio, Scott, nel 1978.
La carriera di Newman conta una sessantina di film, molti titoli di prestigio, che segnano, soprattutto a cavallo degli anni '60, la storia di Hollywood. Rivisti oggi non hanno perso quasi per nulla il loro sapore: a partire da quelli "teatrali" tratti dai drammi di Tennesse Williams: La gatta sul tetto che scotta (1958) accanto ad uri affascinante Liz Taylor e La dolce ala della giovinezza (1962). Cuivanno aggiunti Furia selvaggia, Hud il selvaggio, Nick manofredda, Butch Cassidy (1969), western intrigante e anomalo che creò una delle coppie più belle della storia del cinema, Newman-Redford. I due torneranno insieme con grande divertimento e immenso successo nel 1973, nel ruolo di due truffatori ne La stangata di Roy Hill. Ancora attuali e freschi, naturalmente, i film citati in precedenza tra i quali andranno ricordati quelli, numerosi, che Newman interpretò accanto alla sua seconda moglie, Joanne Woodward (La lunga estate calda del 1958 tratto da un romanzo di William Faulkner, Missili in giardino, Dalla terrazza, Un uomo oggi). Dalla Woodward ha avuto tre figlie; altre due dalla prima moglie. Un lungo matrimonio, forte come la passione che l'attore aveva per le corse automobilistiche. Superati i sessant'anni, Paul Newman si divise tra il volontariato in opere di beneficenza e il cinema. Ma continuò a interpretare film. E incontrò anche un autore, James Ivory, che ne 1990 diresse lui e sua moglie in Mr. & Mrs. Bridge, racconto simpatico e commovente. Ultimamente aveva interpretato Era mio padre accanto a Tom Hanks. Ma i galloni di divo l'attore li aveva conquistati da tempo, da quel lontano, ma sempre vivo, Lassù qualcuno mi ama.
Da L'Avvenire, 28 settembre 2008
II divo dagli occhi blu che sognava di fare il pilota e da giovane era scambiato per Marlon Brando.
Le corse automobilistiche per Paul Newman erano ben più di un passatempo. Una inguaribile passione (che si intrecciò con quella per il cinema in diverse pellicole, come «Indianapolis pista infernale»), coltivata fin dalla fine degli anni Settanta. Abiti sportivi e sguardo competente, era frequentissimo vederlo nei box dei più importanti circuiti del mondo, quando non seduto in prima persona nell'abitacolo di un bolide. Una passione che gli diede le soddisfazioni più grandi nel 1995 quando, nonostante i 70 anni compiuti, vinse la 24 ore di Daytona. Al volante di una Ford Mustang Cobra si impose nella categoria prototipi GTI, giungendo terzo assoluto e laureandosi il più anziano pilota di un team vincente nella competizione. Ma già nel 1979 aveva partecipato con una sua scuderia alla 24 ore di Le Mans, con una Porsche 935 guidata insieme a Rolf Stommelen e Dick Barbour che si classificò seconda. In seguito corse a lungo per il Bob Sharp Racing Team. Nel 1999 si tolse anche la soddisfazione di guidare una Ferrari 355 TB in una delle corse del campionato Challenge Usa organizzato dalla Ferrari North America sul circuito di Lime Rock in Connecticut.
Era un divo. Ma di certo era anche un attore, via via con gli anni, sempre più grande, con tutte le virtù, l'interiorità, la misura, di quanti avevano applicato ad ogni passo della loro carriera i metodi dell'Actors Studio.
Ricordo, qui su «Il Tempo», come annotai ammirato la sua interpretazione, già nel '56, del personaggio del pugile Rocky Graziano nel film di Robert Wise «Lassù qualcuno mi ama». Il contrario esatto della caratterizzazione esteriore di un campione sul ring, raccolto, attento, riflessivo; con la capacità di «scrivere» reazioni, emozioni. Sentimenti solo ricorrendo alla mimica, con gestualità controllata. Un successo che doveva presto, come si usa a Hollywood, costruirgli su misura una serie di personaggi coraggiosi, ma sempre con rispetto e con onore, nell'ambito delle leggi e della giustizia. Come ne «La lunga estate calda» (1958) di Martin Ritt, a ianco di quella attrice tutte intensità, Joanne Woodward, che più tardi sarebbe diventata non solo la sua seconda moglie ma anche la musa nei film che, a sua volta, avrebbe finito per dirigersi da solo. Un binomio che a tal punto cominciò a sostenerlo, anche nella recitazione, da vederla premiata quello stesso anno addirittura al Festival di Cannes. Con consensi convinti e ormai unanimi. Rinnovati nei film che immediatamente seguirono, quali «Furia selvaggia» in cui Arthur Penn, esordendo nella regia, gli chiese con successo di rinnovare il «tipo» James Dean; «La gatta sul tetto che scotta» di Richard Brooks, da Tennessee Williams, a fianco di Elizabeth Taylor; « Exodus» nel 1960 in cui la regia di Otto Preminger e la bella sceneggiatura di Dalton Trumbo, gli permisero di proporsi, raccontando la nascita dello Stato d'Israele, con una maturità ché non era più soltanto espressiva, ma anche psicologica; frutto sia dell'età sia dell'esperienza. Dimostrata via via, con sempre più saldo rilievo, in tutti i grandi film interpretati nei Sessanta, da «Detective Story», di Jack Smight, a fianco di Lauren Bacall, al «Sipario strappato», di Alfred Hitchcock, a «Butch Cassidy» di George Roy Hill, una tragicommedia, questa in cui svelava anche doti sottili di umorismo; fino agli inizi dei Settanta, a proporsi con accenti enigmatici- in quel misteriosissimo film di Robert Altman che era «Quintet» preceduto da uno dei suoi successi più celebri, «La stangata», ancora una volta con Roy Hilm, che lo vide gareggiare alla pari con un partner di doti simili, Robert Redford.
Gli anni Ottanta, superato il momento comunque fecondo che lo vide alternarsi con impegni serie dietro la macchina da presa («La prima volta di Jennifer», «Sfida senza paura», «Gli effetti dei raggi gamma sui fiori di Matilde», festeggiatissimo a Cannes, «Harry e Son», offuscato dal ricordo del suicidio recente dell'unico figlio Scott, Zoo di vetro», interpretato dalla moglie Joanne Woodward, lo vedono rinnovare, con meditati moduli espressivi, il segno dell'onesto e del coraggioso presente nella sua recitazione dagli esordi. Lo ritroviamo in «Bronnx 41° distretto di polizia», di Donald Petrie, ne «Il verdetto» di Sidney Lumet e più di tutti, in quel «Colore dei soldi» di Martin Scorsese che, doto tante attese e tanta dimostrazione di meriti sicuri, gli vide finalmente attribuire l'Oscar.
Poteva dirsi pago. Poteva accettare di invecchiare come, non seguendo neanche in questo le consuetudini hollywoodiane, aveva accettato di non ringiovanire il suo volto sempre più rugoso, invece andò avanti impavido, mietendo, anche in questa sua nuova fase della vita e dell'arte, consensi forti, senza mai riserve. In «Mr. And Mrs. Bridge», di James Ivory, di nuovo fedelmente con Joanne Woodward; in quella splendida caratterizzazione, fra il grottesco e l'astuto, che i fratelli Coen avevano costruito per lui in «Mister Hula Hoop»; in quel personaggio di sessantenne scriteriato e sempre fuori della norma che campeggiava ne «La vita a odo mio» di Robert Benton.
Una delle ultime volte che ho scritto qui di lui è stato agli inizi del Duemila, per la sua interpretazione di un boss della mala in «Era mio padre» di Sani Mendes. Fra lo spietato e il comprensivo, in attentissimo equilibrio fra crudeltà e pietà. E sempre con il carisma celebre di quegli occhi azzurri che un giorno a Woody Allen, maligno ma forse anche invidioso, avevano fatto pronunciare la celebre battuta: «Vi immaginate Paul Newman il giorno in cui, svegliandosi si accorgesse che i suoi occhi sono diventati neri?».
Da Il Tempo, 28 settembre 2008
Hollywood è a lutto. Robert Redford, George Clooney, Julia Roberts, il regista Martin Scorsese, tutti lo piangono. Piangono il compagno di tante avventure cinematografiche e il maestro. «Ho perso un vero amico», ha detto Robert Redford, che fu suo partner nel classico western «Butch Cassidy and the Sundance Kid» e in «La Stangata». «Ha creato uno standard incredibilmente alto per tutti noi - ha commentato George Clooney - Ha lasciato un grande vuoto». L'attrice Sally Field ha detto che «è stata una benedizione averlo conosciuto: oltre ad essere un grande attore era anche una grande persona». Julia Roberts è andata oltre: «Era il mio eroe». Per il governatore della California Arnold Schwarzenegger «tutti gli uomini sognavano di essere come lui e tutte le donne lo adoravano». Martin Scorsese ha detto che la sua morte «lascia un grande vuoto: è impensabìle una storia del cinema senza Paul Newman. La sua presenza, la sua bellezza, le complesse emozioni che riusciva ad esprimere: dove saremmo senza di lui? Oltre ad essere un grande attore era anche una persona eccezionale». Una portavoce dell'attore ha confermato che Newman è morto dopo una lunga battaglia contro il cancro. Marni Tomljanovic ha spiegato che la leggenda di Hollywood aveva terminato ad agosto un ciclo di chemioterapia contro il cancro. «Paul Newman era un grande attore. La sua grande passione erano le corse di auto. Il suo amore erano la famiglia e gli amici - ha dichiarato Robert Forrester, vicepresidente della Newman's Own Foundation -. Il suo cuore e la sua anima erano dedicati alla causa di fare del mondo un posto migliore». Vincenzo Manes - presidente della Fondazione Dynamo, primo fondo italiano impegnato nella «venture philantropy» al quale si deve la realizzazione della struttura - dopo aver annunciato la scomparsa di Paul Newman ne ha ricordato le qualità artistiche e umane. Intanto venivano proiettate immagini dell'attore relative anche alla sua visita, due anni fa, al cantiere della struttura e anche alla Ferrari a Maranello dove provò in pista la Ferrari 599 GTB Fiorano. « È stato un grande attore, regista, corridore d'auto, imprenditore, filantropo, fortemente impegnato in politica tanto da essere il numero 19 nella lista dei nemici di Nixon, un marito e padre amorevole - ha detto Manes -. Lo conoscevo da tre anni e mezzo, lui era venuto qua e io ero andato in America più volte. Era una persona straordinaria: la cosa che più mi ha impressionato era la sua semplicità».
«Non era per niente uno spaccone, al contrario amava ridere, una persona carina e semplice, fedelissimo alla moglie, una cosa davvero rara a Hollywood - ha detto Elsa Martinelli -. L'ho incontrato nel '64 quando ero ospite a casa di John Wayne». Gina Lollobrigida invece rivela che aveva «posato per me quand'era 50enne, per un servizio fotografico. Era meraviglioso. Lui era appena uscito dalla sauna e ha accettato di farsi fotografare seminudo, nel ghiaccio, fuori dalla sua casa. Era un uomo da rispettare e apprezzare».
Da Il Tempo, 28 settembre 2008
Il suo maestro, Lee Strasberg, che lo tenne a battesimo all'Actor's Studio diceva che «sarebbe grande come Marlon Brando, se solo fosse stato meno bello. Aveva il talento ma faceva troppo spesso affidamento sul suo sex appeal e rimaneva così in superficie davanti ai ruoli più impegnativi». Ma Newman replicava: «Recitare è come calarsi i pantaloni: resti in bella mostra davanti a tutti. Essere un attore vuole dire restare bambini e io volevo solo scappar via dal negozio di articoli sportivi che mi aveva lasciato mio padre».
Confinato per molti anni nel ruolo del «bello senz'anima», rifiutato fino alla tarda età dal mondo di Hollywood che per nove volte lo candidò all'Oscar premiandolo una sola volta (per «Il colore dei soldi» quando non si presentò nemmeno, e naturalmente vinse), col locato implacabilmente in tutte le classifiche dei rotocalchi per divi e mai in quelle dei critici meritocratici, l'ebreo ungherese dagli occhi azzurri che a Cleveland era nato nell'agiatezza e che nella campagna americana sarebbe tornato per vivere la sua lunghissima storia d'amore con la moglie Joanne Woodward, è stato l'autentico anti-divo per eccellenza. Prima ancora del confronto con Marlon Brando, con cui venne sovente scambiato in gioventù («ho firmato - disse - più di 500 autografi con il suo nome»), dovette sopportare il raffronto con James Dean la cui morte precoce procurò a Newman i due primi ruoli d'eccellenza: quello di Rocky Graziano in «Lassù qualcuno mi ama» e quello di Billy the Kid in «Furia Selvaggia». Bastarono questi ruoli, oltre a «La gatta sul tetto che scotta», «La lunga estate calda» e «Lo spaccone», per costruirgli il personaggio che lo ha reso immortale. «La prima volta in cui ho capito che le donne mi guardavano in un certo modo fu quando giravamo in Texas "Hud il Selvaggio" - ricordava -. Le donne volevano letteralmente piovere nel letto del mio motel. All'inizio fa piacere. Poi ti accorgi che ti con
fondono con i personaggi che hanno visto al cinema, gente che non ha nulla a che fare con te. Io non avevo nessun talento naturale. Non ero un atleta, anche se ho giocato tanto a football, non ero un attore, uno scrittore, un regista, nemmeno un buon imbianchino. Così ho dovuto sempre lavorare sodo perché niente mi veniva naturalmente». Da questa timidezza segreta, dal desiderio di smarcarsi rispetto allo stereotipo che gli Studios gli cucivano addosso, nasce la biografia parallela di Paul Newman. In politica è sempre stato un democratico convinto, tanto da rompere l'amicizia con Charlton Heston quando costui si schierò con i Repubblicani e da militare da attivista in due campagne presidenziali.
In famiglia è stato un marito leale sia con Jackie Witte (madre di tre figli e lasciata con profonda sofferenza nel 1958) che con Joanne Woodward, sposata nello stesso anno, madre di altri tre figlie e al suo fianco fino alla morte. Nella vita amava il rischio, adorava correre in macchina, e non ha mai smesso pur non centrando mai la vittoria (miglior risultato, un secondo posto alla 24 ore di Le Mans).
Nel privato non ha mai fatto mostra di sé, neppure quando perse l'unico figlio maschio per un'overdose letale, ma è stato sempre impegnato in generose campagne filantropiche a favore dei bambini malati terminali e alla beneficenza destinò anche tutti i proventi della sua impresa alimentare, la fortunata linea gastronomica «Newman's Own».
Nel lavoro è sempre stato generoso con i colleghi, dall'amico più caro Robert Redford, fino al giovane Toni Cruise che accompagnò per mano verso il successo. Quando si vide attribuire l'atteso Oscar commentò: È come inseguire una bella donna per 80 anni. Quando finalmente ti dice di sì, tu hai solo la forza di sussurrare «Sono terribilmente mortificato, ma adesso mi sento soltanto stanco».
Da Il Tempo, 28 Settembre 2008
Muore a 83 anni, dopo un altro combattimento perduto, contro il cancro questa volta, Paul Newman, l'«ultimo divo».
Occhi azzurri, sguardo aperto. Spavaldo e istrione, dall'ironia misteriosa che gli angoli della bocca maneggiano come un teramin. Un coraggio fin troppo esibito, eppure di discrezione quasi imbarazzante che suggerisce strane commistioni sessuali. Fu così fl suo americano in oltre 60 film dal successo travolgente, come le automobili da corsa che ha guidato per tutta la vita: Nick mano fredda, Butch Cassidy, La stangata... Anche se la sua forte ostilità ai riti di Hollywood gli fruttarono un solo Oscar (Il colore dei soldi), grazie a Martin Scorsese (oltre a quello, rituale e tardivo, alla carriera alla metà degli anni 80).
Newman è stato il pezzo più resistente e combattente di una generazione di attori e militanti «liberal» che, tra gli anni '50 e '60, fu vittima, non indocile, della fine del sogno americano e del ricambio generazionale di una Hollywood che aveva usato la crociata anticomunista anche per abbassare i costi di produzione (e dunque annientare la generazione rooseveltiana troppo esosa).
Ma anche i nuovi divi furono tutt'altro che servi «flessibili». Paul Newman, dopo Berkeley e gli studenti assassinati della Kent University, fece campagna elettorale per McGovern; dopo Nixon con Carter, e oggi era con Obama. Individualisti, ma democratici, jeffersoniani e «controculturali», tra guerra fredda e sinistri segnali di un maccartismo ostinato, i suoi colleghi se ne andarono via, quasi tutti, giovanissimi, Marilyn e Dorothy Dandridge, Jimmy Dean e Monty Clift, Steve McQueen e Susan Hayward... Erano i kennediani di Hollywood, il sintomo di un altro possibile «nuovo patto». Persero la vita subito, ma il cinema lo cambiarono, irreversibilmente. «Ultimo divo», Newman, ha proseguito la loro battaglia anche perché lui, e sua moglie Joanne Woodward, non sono mai stati tipi da Hollywood. Diventato un adorato sex symbol negli anni,in cui la televisione stava schiacciando di manierismo lo Studio System, divise con Mgilon Brando il compito di riportare al cinema i conflitti della vita e della strada. Fu proprio un aspro dramma, di taglio quasi neorealista, a lanciarlo, Lassù qualcuno mi ama, nel 1956.
Attore «molto, molto sensibile», parola di Al Patino, Newman preferì il cinema all'economia, dopo l'università, perché vuole andarsene di casa il prima possibile. Manca insomma di quella «forza interiore indistruttibile e fatale» che in Marlon Brando sarà devastante. Ma dopo l'orrore del suo esordio, capace di buttare al vento tutto il prestigio conquistato off Broadway, Calice d'argento (giurerà e manterrà la promessa di non travestirsi mai più da Jack Smith), Newman collezionerà una dozzina di film antisistemici, diretti da ex osservati a vista del maccartismo come Wise, Ritt, Brooks e Penn (Billy Kidd, Furia selvaggia), che porteranno sul lettino di Freud l'intera mitologia Usa, dal bandito primordiale d'America al campione sportivo„ fino al maschilismo (fatto a pezzi nel dramma sudista di Tennesse Williams La gatta sul tetto che scotta) che deve aver decostruito, passo dopo passo, al fianco della sua seconda moglie, l'attrice di bravura mozzafiato Joanne Woodward, che sarà spesso la sua partner, anche cinematografica. Coppia inossidabile e impenetrabile, come un tempo era stata solo quella tra Joel McCrea e Frances Dee, a prova di cacciatori di gossip, come Hedda Hopper.
Sempre disinteressato al carnevale merceologico che è collegato a Hollywood, troppo indipendente, autonomo e senza alcun desiderio di ottimizzare le sue performance, Newman lavora molto. Dirà a Al Pacino: «se interpretassi solo i film che mi piacciono ne farei uno ogni 5 anni». Ma, dal 1982, Newman è anche autosufficiente economicamente perché ha fondato la Newman's Own e attraverso gli alimenti e i condimenti può fare beneficienza (bambini, tossicodipendenti, i malati di aids...) e finanziare giornali e organizzazione della sinistra progressista. Dal 2006, per esempio, premia chi più coraggiosamente difende il «primo emendamento» della costituzione, relativo alla libertà di espressione, di stampa e di culto, con 20 mila dollari all'anno.
Come regista sarà l'autore di opere di ricerca e problematiche, mai «standard», polisenso, dal corto On the harmfulness of tobacco ai lunghi Rachel Rachel (in Italia La prima volta di Jennifer, '68) a Never give a inch ('71), cioè Sfida senza paura, che forse è il suo film più importante. Racconta la storia conflittuale e drammatica di una famiglia di boscaioli, dall'indomito spirito Whitman e Thoreau, individualisti drastici, ma, come i piloti Anpac, capaci di sfidare i sindacati, in occasione di uno sciopero mal congeniato, aggiungendo e non togliendo contenuti sociali e emozionali «alti». Non a caso li guida il patriarca, un magnifico Henry Fonda. Tre le altre regie successive Gli effetti dei raggi gamma sul comportamento delle margherite (1972), Harry & son (1984), dedicato al figlio morto di overdose, e Zoo di vetro (1987), sempre da Tennesse Williams. Cominciò quando, forse per polemizzare con i diktat delle majors, molte star ppassarono alla regia provvisoriamente (Brando, Gene Kelly, Charlton Heston, Burt Reynolds, James Caan), tranne Redford e Eastwood.
Tra i successi indimenticabili di Paul Newman primo periodo, quello del «bello e dannato», del teppista che ha dentro tanta passione e amore da non sprecare in carcere, anche Exodus di Otto Premmger (1961), film schierato a favore della formazione dello stato di Israele, Lo spaccone di Martin Ritt, dove il suo virtuosismo raggiunge l'apice (seconda candidatura all'Academy Award) e La dolce ala della giovinezza di Brooks, da Faulkner (che conquista Cannes). Sono i capolavori della cosidetta cool Hollywood, che scodellò film di glaciale, manieristica bellezza (e spesso veleno al botteghino) perché, come nel jazz dei tardi anni 50, lo studio system dava sì forma a un cinema mai prima tanto fluido, perfetto, moderno e glamour, di ogni genere e tipo, e assistito da uno sfarzo tecnologico imbattibile, ma non riusciva più a afferrare lo spirito impazzito dei tempi (di conflitto atomico). L'immediatezza della tv, il kennedysmo che sembrò sbaragliare il maccartismo, la sopravvivenza di un arcaico codice di autocensura a Hollywood, l'insorgenza femminista e le esplosioni di soggettività desiderante polietnica avevano frastornato e portato il cinema Usa al ko tecnico, fino a scappare sul Tevere per risparmiare (Cleopatra) o far propaganda anticomunista in stil novo (Il sipario strappato di Hitchcock, 1966). Il consumo più vitale era però entrato in diaspora e indicava nell'esodo, nell'underground, nelle produzioni e nei consumi indipendenti nel «sex drugs and rock'n roll» la strada maestra da seguire. Paul Newman fu il perfetto traghettatore di quelle pulsioni, riportandole da fuori a dentro Hollywood, anzi nella «new Hollywood», sottoponendo tutti i generi a revisione e modernizzazione necessaria, dal western, (L'oltraggio, Hombre) al genere sportivo (Indianapolis pista infernale di Goldstone), al catastrofico (L'inferno di cristallo). Il sodalizio con Stuart Rosenberg, regista formatosi nei drammi tv, alla scuola neorealista di Paddy Chayefski, da Nick Mano fredda a Un uomo oggi a Per una manciata di soldi è stata intensa e controcorrente quanto quello con Jack Smight, John Heston (L'uomo dai 7 capestri, L'agente speciale Mackintosh), Robert Altman (Buffalo Bill, Quintet). L'intemo stato maggiore del cinema progressista ha poi lavorato con lui: Pollack, Lumet, Scorsese, Joffè, Ivory, i Coen, Robert Benton fino a Sam Mendes, astro nascente inglese che viene dal palcoscenico, Era mio padre (2002).
Da Il Manifesto, 28 settembre 2008
Nato il 26 gennaio 1925 a Shaker Heights, Cleveland (Ohio), il papà è un commerciante ebreo di articoli sportivi, la mamma è di origine ungherese. Si laurea in economia al Keynon College, fa teatro a Yale e poi, dopo la guerra (marconista negli aerei della marina) si perfeziona con Lee Strasberg all'Actor's Studio. Parallelamente pilota automobilista professionista sarà 2' alla 24 ore di Le Mans 1979, con una Porsche 935, e 1', con una Ford Mustang Cobra, a Daytona 1995 (dalla scuderia Newman-Hass uscirà Nigel Mansell). Quando per «Colpo secco» ('77) George Roy Hill, il regista del suo duetto magico («Butch Cassidy», '69, e «La stangata», '73) avrà bisogno di un buon pattinatore sul ghiaccio, sceglierà lui, non AI Pacino. Broadway lo lancia: «Picnic» di William Inge ('53) e «La dolce ala della giovinezza», al fianco di Geraldine Page. L'esordio sul grande schermo è legato a «Il calice d'argento» di Victor Saville, 1955, kolossal storico religioso in cinemascope e technicolor. Un fiasco, di cui si scuserà pubblicamente. Nel 1956 il suo Rocky Graziano conquista tutti: in «Lassù qualcuno mi ama» (The Rack) di Robert Wise: sa urlare anche quando non apre bocca. Nel 1958 è «Billy Kidd» (Furia selvaggia) di Arthur Penn, portando da Freud il mito del bandito «primordiale d'America». E sposa, dopo il divorzio con Jackie Witte (3 figli), l'attrice Joanne Woodward (altre tre figlie). Sarà coppia inossidabile, nonostante alcuni gravi lutti come la morte per troppi tranquillanti nell'alcol, nel 1978, del figlio Scott, sia sul set che fuori. Newman in 60 film, conquista 9 nomination agli Oscar, che vincerà solo nel 1986 («II colore dei soldi» di Martin Scorsese) dopo quello, di riparazione, «alla carriera» dell'86.. Dal 1982 ha fondato la Newman's Own, compagnia produttrice di alimenti e condimenti biologici, i cui proventi (250 milioni di dollari nel 2008) vengono devoluti quasi interamente in beneficienza e in finanziamenti per organizzazioni politiche progressiste e giornali di sinistra (come «The Nation»). Come regista firma opere di ricerca, dal corto «On the harmfulness of tobacco», ai lunghi «Rachel Rachel» (La prima volta di Jennifer, '68); «Never give a inch» (Sfida senza paura '71), sindacalisti troppo rigidi e boscaioli molto Whitman, con Henry Fonda; «Gli effetti dei raggi gamma sul comportamento delle margherite» ('72), «Harry & son» ('84) e «Zoo di vetro» ('87). Tra i successi indimenticabili di Newman primo periodo, «bello e dannato»: «La lunga estate calda» di Martin Ritt e «La gatta sul tetto che scotta» di Richard Brooks, da Tennesse Williams, candidato all'Oscar ('58), «Dalla terrazza» di Mark Robson, «Exodus» di Otto Preminger e «Lo spaccone» di Martin Ritt (seconda candidatura, '61), «La dolce ala della giovinezza» di Brooks, da Faulkner (premio a Cannes,'62), capolavori «cool». Attraverso «II sipario strappato» di Hitchcock, ('66), e «Lady L» del collega Peter Ustinov ('65) traghetterà il vecchio studio system nella «new Hollywood», sottoponendo generi e divismo a revisione e modernizzazione: dal western («L'oltraggio», '64 e «Hombre», '67), al genere sportivo («Indianapolis pista infernale» di Goldstone, '69), al catastrofico («L'inferno di cristallo» di Guillermin e Irwin Allen, '74). Il sodalizio con Stuart Rosenberg, formatosi alla scuola neorealista tv di Paddy Chayefski, da «Nick Mano fredda» (terza nomination), '69, a «Un uomo oggi» (1970) a «Per una manciata di soldi» ('72) è stata intensa e controcorrente quanto quello con Jack Smight («Harper», '66, «Guerra amore e fuga» '69), John Huston («L'uomo dai sette capestri» '72 e «L'agente speciale Mackintosh» '73) e a quella con Robert Altman («Buffalo Bill», '76 e «Quinte5 '79). L'interno stato maggiore del cinema progressista e liberal ha lavorato con lui: Petrie (Fort Apache the Bronx, 81); Pollack («Diritto di cronaca», '81), Lumet («Il verdetto», '82), Scorsese, Joffè («L'ombra di mille soli», '89), Ivory («Mr & Mrs. Bridge», '90), i Coen («Mister Hula Hoop», '94), Robert Benton («La vita a modo mio», '94 e «Twilight», '98) fino a Sam Mendes, «Era mio padre» (2002).
Da Il Manifesto, 28 settembre 2008
«La sua morte è stata privata e discreta così come era stata tutta la sua vita». La famiglia di Paul Newman lo ricorda a poche ore dalla scomparsa: «Nostro padre - hanno sottolineato le figlie - era un simbolo raro di umiltà e di altruismo». Il riferimento è l'attività di beneficenza spesa nel corso della sua carriera.
Ha poca voglia di parlare il suo partner e amico Robert Redford, in pellicole come «Butch Cassidy» e «La stangata»: «Ho perso un vero amico. C'è un momento in cui i sentimenti vanno oltre le parole. Ecco la mia vita, e quella di questa nazione, è stata migliore grazie a lui». Meryl Streep dice: «Mi mancherà Paul Newman, mancherà a ognuno di noi. Ha avuto una vita di cui andare orgogliosi, per la sua famiglia, il suo impegno benefico. Per tutta la vita ha dato milioni milioni e milioni di dollari a tante comunità. E poi c'è la sua carriera, che è indelebile».
Sam Mendes, che lo ha diretto in «Road to perdition» (Era mio padre»), film con Tom Hanks girato nel 2002, lo definisce «Un uomo incredibile, esattamente agli antipodi delle star di Hollywood. Non aveva un ego devastante, né amava circondarsi da una coorte di «amici» personale». «Paul Newman uno spaccone? per niente», parole di Elsa Martinelli che lo ha conosciuto nel '64 quando era ospite a casa di John Wayne: «Era uno che al contrario amava ridere, una persona carina e semplice tra l'altro fedelissimo alla moglie, una cosa davvero rara a Hollywood. Devo dire che allora andare a trovare John Wayne era come andare dal Papa, ma Newman vi posso assicurare era autentico, uno che amava ridere, per niente tenebroso anzi casomai un fanfarone». Gina Lollobrigida, ricorda un particolare di un servizio fotografico dove l'attore posò per lei quando aveva 50 anni: «Lui era appena uscito dalla sauna e ha accettato di farsi fotografare seminudo, nel ghiaccio, fuori dalla sua casa. Era un uomo da rispettare e apprezzare».
Da Il Manifesto, 28 settembre 2008
L'intervista alla Loren, che con il divo interpretò Lady L. , racconta: era gentile, timido, semplice.
L'amore per le corse il dolore per la morte dell'unico figlio maschio.
Il personaggio Dal '58 marito di Joanne Woodward
Giovani, belli, adorati dal pubblico, inseguiti da Hollywo od. Era fatale che Paul Newman e Sofia Loren (all'epoca Sophia) tinissero a far coppia su un set. Così nel '65 i due attori girarono il film Lady L. , ispirato al romanzone romantico di Roman Gary e diretto da Peter Ustinov. Oggi, la notizia della morte di Newman coglie Sofia di sorpresa: «Che dolore, che batosta», esclama la diva, impegnata a Londra nelle prove del musical di Rob Marshall Nine, nel duale interpreta la madre di Fellini.
Sapeva della malattia di Newman?
«Sì, ma non mi aspettavo che morisse tanto presto. Quando muoiono personaggi così, ci si dispera e si pensa che, poco alla volta, i, grandi se ne vanno».
Il vostro primo incontro?
«Avvenne in occasione del film. Non ci eravamo mai visti prima».
Che uomo era, Paul?
«Di una bellezza indescrivibile. E attaccatissimo al suo lavoro. Prima di interpretare una scena coinvolgente, si emozionava da morire. E nei rapporti con gli altri era gentile, semplicissimo, timido. Non sembrava nemmeno un attore».
In che modo si manifestava la sua timidezza?
«Nell'assenza assoluta di esibizionismo. E nel fatto che spesso gli sudavano le mani, al punto che portava con sé un asciugamano».
Era consapevole di essere un sex symbol?
«Nemmeno per sogno! Era innamoratissimo di sua moglie Joanne, che veniva a trovarlo sul set incinta del secondo figlio».
La fedeltà coniugale di Newman: realtà o leggenda?
«Realtà assoluta. Per spiegarla, Paul diceva: perché dovrei andare fuori a mangiare un hamburger, se in casa ho la bistecca?».
Newman lascia eredi?
«Difficilissimo rispondere. Io non ne vedo … Magari nel futuro … Paul apparteneva alla generazione di Marlon Brando: divi bellissimi e bravissimi. Dopo di loro sono venuti Al Pacino; De Niro, Hoffman: attori simpatici, ricchi di talento e titolari di un altro tipo di cinema che non puntava più sulla bellezza, sulla magia di certe facce capaci di illuminare lo schermo».
Il film più bello di Paul Newman, secondo Sofia?
«La stangata. E La gatta sul tetto che scotta: che coppia, con Liz Taylor!».
Da Il Messaggero, 28 settembre 2008
Anche gli dèi muoiono, allora. Tra gli dèi dello schermo, Paul Newman sembrava quello più vicino ad acciuffare l'immortalità. Nei suoi 83 anni di vita gli era andato quasi tutto a meraviglia (carriera, amore, famiglia, simpatia da parte del resto del genere umano). Gli mancava solo l'eternità fisica. E invece è arrivata "a livella" come la chiamava Totò (che nonostante l'aspetto ridanciano aveva una concezione tragica della vita). La falce che decapita inesorabilmente tutti, giganti e nanetti.
Gigante (dello schermo) certamente Newman lo è stato per almeno 30 anni. Dalla sua prima candidatura (...) all'Oscar (per "Lassù qualcuno mi ama") alla sospirata, vittoria della statuetta nel 1988 ("Il colore dei soldi" di Scorsese). E il successivo ventennio, quello del tramonto è stato punteggiato di apparizioni sempre belle, sempre applaudite (il babbo di Kevin Costner in "Le parole che non t'ho detto", il boss mafioso di "Era mio padre").
Per la verità quando iniziò in cinema alla metà degli anni '50 nessuno era disposto a dargli gran fiducia. Veniva è vero dal mitico "Actors' studio" ma la strada sembrava sbarrata da due giganti della stessa provenienza: Marlon Brando e James Dean (che in privato mostravano una personalità più proterva, esplosiva di quella del tranquillo, professionale Paul). Ma Dean muore quasi subito sfracellandosi nella sua Porsche, e Brando comincia a farsi male da solo, piantando grane, rifiutando film, pretendendo compensi stratosferici.
Un buon carattere
Newman invece ha buon carattere, è puntuale e disciplinato e quando lo scelgono per sostituire i due superstar (in "Lassù qualcuno mi ama" e in "Furia selvaggia") non li fa rimpiangere. Anche lui è atteggiato e gigione come quasi tutti gli allievi dell'Actors, ma a differenza di molti colleghi l'istrionismo non è per lui una malattia terminale. Pian piano riesce ad asciugare il suo gioco, a parlare invece di declamare o borbottare, a essere insomma un vero animale cinematografico. Se la candidatura all'Oscar per "Lassù" gli fa guadagnare il rispetto, "La lunga estate calda", uscito due anni dopo, lo fa diventare sex symbol.
Le spettatrici scoprono i suoi occhi di ghiaccio, il pubblico della domenica mostra di gradire il suo sorriso di ragazzo dietro il gallismo del bullo. Nella "Lunga estate calda", dove è un vagabondo di oscuri natali che affascina un'ereditiera del profondo Sud, l'ereditiera è impersonata da Joanne Woodward (che a differenza di Paul un Oscar l'ha già vinto). È l'inizio di un amore destinato a durare sul serio tutta la vita. Un caso abbastanza unico nella storia di matrimoni tra divi. Negli anni '60 e metà dei '70 Newman è l'indiscusso re di Hollywood.
I titoli di successo non si contano. "Dalla terrazza" e "Hud il selvaggio", "Intrigo a Stoccolma" e "Nick mano fredda", "Butch Cassidy" e "La stangata". "Lo spaccone" e "La gatta sul tetto che scotta". A rigore l'unica volta che è stato cane in vita sua risale al 1954, nel ridicolo kolossal "Il calice d'argento". È un sonoro flop e il miglior critico italiano sostiene che Newman è un incapace che vuol fare il Brando senza possederne un briciolo del talento. Lui non legge il "pezzo". Però è perfettamente d'accordo e lo dimostra qualche anno dopo quando "Il calice" è rimesso in circolazione per sfruttare la sua popolarità che è ormai immensa. Newman pubblica un avviso sui giornali. «Non andate a vedere quel film. Lo interpreta un vero cane. Firmato Paul Newman» .
Sei nominations
Ai suoi livelli, il divo poteva persino permettersi il lusso di darsi dell'incapace. E di fare il modesto, paragonando la sua bravura («Tutta acquisita, tutta artigianale» sostiene) a quella «naturale, immensa, quasi un dono divino» della moglie Joanne. Nessuno gli crede. Forse solo le giurie che danno gli Oscar. Nella sua carriera, Paul è candidato sei volte, ma manca scandalosamente il bersaglio per le prime cinque.
Si decidono solo nel 1988 per una delle sue apparizioni in fondo meno memorabili, il vecchio giocatore di biliardo di "Il colore dei soldi" di Scorsese, un film che curiosamente rappresenta un passaggio di testimone. Lo sparring partner è Tom Cruise che nel decennio successivo farà mostra di una comunicativa che ricorda, quella fanciullesca e insolente, del grande Paul.
Amato sullo schermo, Newman è riuscito a esserlo anche nella vita. Pur essendo il numero uno nell'Olimpo di Hollywood, ha cercato (per calcolo o moto spontaneo) di farlo pesare il meno possibile. Mentre tanti colleghi giocavano agli uomini del mistero o prendevano a calci i paparazzi, lui ai festival andava incontro di sua iniziativa alle folle plaudenti, stringeva mani, firmava autografi sulle bracciotte nude delle fans.
Faceva sembrare ogni giovanotto un amicone e ogni fanciulla un'amichetta. Forse recitava anche lì. Forse no. Comunque nella prima ipotesi ha recitato bene, anche meglio che sullo schermo. La sua esistenza, e anche il suo tra
monto (perché il tramonto doveva arrivare dopo 30 anni di regno) sono sempre stati accompagnati dal rispetto, magari anche dall'affetto.
Ottantrè anni di vita meravigliosa dunque?
Non proprio, la vita come la morte non guarda in faccia nessuno. Per Paul la legnata (l'unica, ma durissima) della sua esistenza arriva nel 1980 quando il suo unico figlio maschio, Scott, muore di overdose.
Un brutale monito per un uomo che tanti ritenevano un prediletto degli dei, che a questo mondo prediletto non è nessuno. E che il destino può preparare infernali imboscate a chi è da troppo tempo ricco e felice per far caso all'infelicità di chi gli sta attorno.
L'ultimo atto<br/>
Newman ha abbandonato il set nel 2007. La notizia della sua malattia ha iniziato a circolare a gennaio. Poi i giornali, ad agosto, hanno pubblicato una sua foto all'uscita dell'ospedale, fragile, smunto, su sedia a rotelle, i leggendari occhi blu ormai vitrei e perduti. E molti lettori sono allibiti. L'ultima immagine che avevano di Paul era quella in fondo abbastanza recente di "La vita a modo mio". Dove Paul già settantenne, ma ancora aitantissimo, riusciva a portar via, con totale plausibilità, Melanie Griffith a Bruce Willis.
Da Libero, 28 settembre 2008
Non sans humour, ce grand gaillard à corps félin, éclat viril et profil grec, avait imaginé ainsi son épitaphe : "Ci-gît Paul Newman, mort en raté car ses yeux sont devenus marron." Ce regard bleu qu'il avait franc, scrutateur, intègre, avait été en effet son handicap en même temps que son plus bel atout. C'est grâce à lui qu'il avait décroché son premier contrat de cinéma, pour un film en Technicolor. C'est à cause de lui que, considéré comme un pâle substitut de James Dean, une doublure fade de Marlon Brando, on le considéra un temps comme un beau gosse plutôt que comme un tempérament.
Atteint d'un cancer des poumons, mort vendredi 26 septembre à l'âge de 83 ans dans sa maison du Connecticut, Paul Newman était devenu une icône, le charmeur introverti pour lequel les femmes soupirent, le rêveur insoumis que les hommes admirent.
Né en 1925 dans l'Ohio d'un père juif d'origine allemande et d'une mère hongroise catholique, Paul Newman songeait à faire une carrière de footballeur lorsque la guerre l'a éloigné des stades. Sportif, il se passionnera pour la course automobile, participant plusieurs fois aux 24 Heures du Mans.
Il fait ses classes à l'université Yale et à l'Actors Studio de Lee Strasberg. Tempérament d'irréductible, résolu à ne pas abuser de son pouvoir de séduction, plutôt timide et angoissé en privé, il se voit comme un acteur cérébral, préparant ses rôles avec scrupule, les interprétant avec subtilité, sans cabotinage, puisant sa force dans l'intériorisation.
Voyou frondeur dans Marqué par la haine, il doit attendre la fin des années 1950 pour sentir poindre sa popularité. Coup sur coup, en 1958, Les Feux de l'été, de Martin Ritt, Le Gaucher, d'Arthur Penn, La Chatte sur un toit brûlant, de Richard Brooks, La Brune brûlante, de Leo McCarey, font apparaître un type : rebelle taciturne, déclassé boudeur, traumatisé enfiévré, apathique parfois agité de saccades paroxystiques. Irradiant, à la fois, d'un indiscutable sex-appeal et de l'orgueil des détachés.
Il ne va pas tarder à incarner une certaine Amérique, celle de la fêlure, du déséquilibre, de la recherche d'identité. Dans Le Gaucher, western signé par un cinéaste "anti-mythe", il donne un profil freudien à Billy le Kid, éternel adolescent en quête de père, atteint d'une difficulté d'élocution. C'est un homme fragile, torturé, mari alcoolique qu'une cheville brisée oblige à s'appuyer sur des béquilles, qui affronte Liz Taylor dans La Chatte sur un toit brûlant, d'après Tennessee Williams.
"Il y a toujours en lui quelque chose qui demeure secret et refuse de se dévoiler facilement, dit Richard Brooks. Son grand talent lui permet de garder en lui ce secret qui est l'explication de tout être humain. Paul possède une sorte de pureté. Il s'efforce toujours de conserver une sorte de dignité, une certaine décence, une certaine honnêteté qu'il veut préserver au fond de lui-même, en dépit des côtés répugnants de son personnage."
Brooks le dirige à nouveau dans Doux oiseau de jeunesse (1962), toujours d'après Tennessee Williams, où il incarne un gigolo qui accepte de satisfaire les besoins sexuels d'une star déclassée pour décrocher un contrat à Hollywood. Au fil des ans, Paul Newman joue ce qu'il n'est pas : le pire visage d'une Amérique imbibée de bourbon. Des égoïstes, arrogants, machistes, brutaux. Minable en proie au fantasme de la promotion sociale (Ce monde à part, 1959), cynique éleveur de bétail (Le Plus Sauvage d'entre tous, 1963), détective insolent enquêtant dans les eaux troubles (Détective privé, 1966), arriviste dégénéré (WUSA, 1970, où il voulait dénoncer la corruption politique de la droite), réactionnaire obstiné (Le Clan des irréductibles, 1971).
Plus tard, le bourgeois coincé de Mr et Mrs Bridge, de James Ivory (1990), ou le PDG machiavélique du Grand Saut des frères Coen (1994). Ses personnages affichent leur ambiguïté, leur masochisme, leur marginalité. Conquérant rattrapé par l'échec ou loser triomphant : il sait que rien n'est acquis, qu'il n'est homme digne de ce nom que torturé. Ce qu'il exprime, c'est que l'on peut avoir un physique de charmeur et une âme de fêlé.
Mais Paul Newman sait aussi jouer avec ironie et désinvolture, camper un aventurier romantique (Butch Cassidy et le Kid, 1969), un prince de la ruse (L'Arnaque, 1973). Il ne rechigne pas à la provocation de Robert Altman, qui démythifie l'imagerie de l'Ouest et pourfend l'industrie du spectacle dans Buffalo Bill et les Indiens (1976).
Dans Juge et hors-la-loi, de John Huston (1972), il transforme le fameux juge Roy Bean, grand manitou de la justice à l'ouest du fleuve Pecos, en hurluberlu barbu, imposteur et amoureux platonique d'une chanteuse de bastringue.
Un titre majeur échappe à cette recension : L'Arnaqueur, de Robert Rossen. C'est un jalon dans sa carrière, encore un personnage d'arnaqueur puni, si emblématique qu'il l'interpréta deux fois. Ce requin des salles de billard, qu'il avait joué en 1961 avec les tics et la morgue d'un promu de l'Actors Studio, est ressuscité vingt-cinq ans plus tard par Martin Scorsese dans La Couleur de l'argent (1986), rôles inversés : du disciple de George C. Scott qui le traitait d'éternel perdant, il devient l'initiateur de Tom Cruise, nouvel emblème d'une Amérique qui se déhanche et agite sa queue de billard pour frimer. Avec son oeil langoureux et sa voix rauque, Newman apprend la vie au gamin, lui expliquant qu'il faut faire semblant de perdre pour mieux gagner.
Ce rôle lui vaut l'Oscar (tardif) du meilleur acteur, un an après qu'il a reçu la statuette convoitée pour l'ensemble de sa carrière, un an avant que les Oscars lui en décernent une nouvelle au titre de ses activités humanitaires. D'où cette réflexion dépitée : "C'est comme avoir fait la cour à une belle femme pendant quatre-vingts ans. Elle finit par céder, et l'on dit : "Je suis vraiment désolé, mais je suis un peu fatigué.""
L'acteur s'était fait réalisateur en 1968, dirigeant son épouse Joanne Woodward dans Rachel Rachel. Suivront De l'influence des rayons gamma sur le comportement des marguerites en 1972, L'Affrontement en 1984 et La Ménagerie de verre en 1987, des films qui le voient poser un regard complice sur l'univers des femmes. "Je fais des films, je joue, je suis époux et père pour une seule et unique raison : me sentir vivre."
Da Le Monde, 28 settembre 2008
Des millions d'Américains ne connaissent qu'une image de Paul Newman : l'effigie coloriée qui orne les bouteilles de vinaigrette, les sachets de pop- corn ou les pots de sauce tomate de la marque Newman's Own. Un quart de siècle après sa fondation en 1982, cette petite entreprise a généré 250 millions de dollars de profit, une somme dont la totalité est allée à des fondations ou des associations caritatives.
Figure majeure du cinéma, Paul Newman restera également comme l'un des grands philanthropes de son époque, contribuant à inventer une manière de faire des affaires résumée dans la devise moqueuse de Newman's Own : "Exploitation éhontée dans le souci du bien commun". Newman et son partenaire en affaire, l'écrivain A. E. Hotchner, exploitaient donc sans vergogne la célébrité de l'acteur et sa valeur marchande, qu'ils avaient affectée à une ligne de produits gastronomiques dont la qualité était reconnue par la plupart des spécialistes.
L'essentiel du travail de Newman est consacré à l'affectation de ces profits : en 1988, il fonde une colonie de vacances destinée aux enfants atteints de maladies graves. Baptisés du nom de la bande de Butch Cassidy and the Sundance Kid, The Hole in the Wall Gang, ces camps de vacances ont accueilli 135 000 enfants. Après la mort, en 1978, de son fils Scott d'une overdose de calmants et d'alcool, Paul Newman fonde une organisation destinée à "prévenir la toxicomanie par l'éducation".
Les profits de Newman's Own ont également servi à défendre le premier amendement de la Constitution américaine (qui garantit la liberté d'expression) ou à aider les réfugiés kosovars en 1999. L'acteur avait ainsi défini ce désir de partager : "Je crois que j'ai voulu prendre en compte la chance. Sa bienveillance dans ma vie, sa brutalité dans celle des autres."
Cet engagement philanthropique était le pendant de son engagement politique. Militant pour les droits civiques dans les années 1960, Paul Newman soutient en 1968 la candidature à la présidence du sénateur démocrate Eugene McCarthy, ce qui lui vaut d'être placé à la 19e place sur la liste des ennemis du président Richard Nixon. Au printemps 2008, il est encore devant les caméras pour enregistrer un message de soutien au comité pour l'élection des sénateurs démocrates. Pendant les primaires, il avait contribué aux campagnes d'Hillary Clinton, Bill Richardson et Barack Obama.
Da Le Monde, 28 settembre 2008
La filmographie de Paul Newman cinéaste tient sur les doigts de la main : cinq longs métrages, conçus entre 1968 et 1987. Ce quintet lui a cependant suffi pour acquérir dans cette sphère le respect comme metteur en scène.
Une couleur primaire domine cette œuvre brève : le lien. Tout part de lui et y revient. Le lien avec son épouse et actrice fétiche Joanne Woodward, qui joue dans quatre de ses films, et celui qui en découle : le lien familial qui forme le sujet monomane de son travail.
Indépendance. Rachel, Rachel (1968) est autant un film avec que sur Woodward. Portrait à la fois tendre et aigu d'une institutrice toujours célibataire ballottée entre une mère qui l'ennuie et un amant médiocre, le film va prendre à revers critique et profession de l'époque, qui n'imaginaient pas le placide acteur hanté par des univers aussi dysfonctionnels. Rachel, Rachel enregistre à sa façon cette proximité amoureuse très moderne entre les deux pôles qui orientent la caméra, l'œil du cinéaste et l'objet de son attention.
Le projet dégage un parfum de film d'auteur à l'européenne, influencé par les ressacs Nouvelle Vague, un peu comme Cassavetes et Gena Rowlands l'expérimentent à la même période, mais avec cette particularité : Newman, enfant béni du commerce hollywoodien, place son activité de cinéaste sous le signe d'une déclaration d'indépendance à l'égard du système dont il est issu. Surprise supplémentaire : il ne joue pas dans son propre film, refusant de tirer trop facilement profit de sa notoriété.
Cette absence de narcissisme est certainement une clé pour comprendre le rapport entre le Newman acteur et le Newman cinéaste. Et pour saisir la tenue générale du bonhomme.
Il récidivera quatre ans plus tard sur un schéma comparable, avec ce qui est souvent tenu pour son chef-d'œuvre, De l'influence des rayons gamma sur le comportement des marguerites (1972). Là encore, c'est sur les épaules de Joanne Woodward qu'il fait reposer l'essentiel de son film - même s'il y dirige aussi leur fille commune. Extraordinaire étude de mœurs sur un trio familial féminin des classes moyennes au début des années 70, le film est plus ouvertement réaliste et social, tendance Pialat, que le précédent. Il forme encore à ce jour un document impérissable sur le monde américain d'alors, et dessine la trace d'une hypothèse étonnante pour le cinéma indépendant de ce pays. Une piste de rigueur, de liberté et d'engagement dont on cherche désespérément les échos.
Inconsolable. Le Clan des irréductibles (Sometimes a Great Notion, 1971) est un cas à part : la réalisation du film n'a été prise par Newman qu'en cours de route. Il faisait déjà partie du casting et a dû remplacer au débotté Richard Colla. Parce qu'il raconte comment une famille de bûcherons de l'Oregon se retrouve dans le refus d'une grève, on a jugé le film conservateur et antisyndicaliste, ce que Newman réfutait : le motif familial, là encore, et le face-à-face avec Henry Fonda avaient suffi à l'attirer. Néanmoins, c'est sans doute le film qui lui ressemble le moins.
En revanche, l'Affrontement (Harry and Son, 1983) est celui qui lui ressemble le plus, puisqu'il fait directement écho à la tragédie personnelle de Paul Newman, qui a perdu son fils aîné, Scott, mort d'une overdose à 28 ans. Il y joue lui-même le rôle de Harry, père malhabile, en conflit avec son fils Howard, aussi inconsolable qu'incapable d'une réconciliation.
Enfin, avec la Ménagerie de verre (1987), il donne une version presque amortie de la première pièce de Tennessee Williams, qui ressoude néanmoins les deux fils conducteurs du Newman cinéaste : la névrose familiale pour donner sa matière au scénario et, pour donner sa lumière à l'image, une passion magnifique pour sa femme et actrice.
Da Libération, 29 settembre 2008
Bilanci non ne ha mai fatti, progetti a lunga scadenza neppure e di scrivere le sue memorie non ha mai avuto l'intenzione. È stato troppo occupato a vivere, giorno per giorno, a tempo pieno. Costituiscono una bella e felice ricorrenza oggi gli ottant'anni di Paul Newman, ma non si può dire altrettanto per quei cinéfili (soprattutto coté femminile) che alla fine dei Sessanta si divisero, complice il trionfo di «Butch Cassidy», sulla palma del sex-appeal da assegnare a uno solo dei romantici banditi Newman & Redford. Fatto sta che, nostalgia canaglia a parte, il ragazzo-bene di Cleveland non ha mai perso un colpo, tutto ciò che ha fatto è stato sempre apprezzato: dalle corse d'auto che ha pazzamente adorato ai film che ha girato senza eccessiva presunzione. Bastava un fisico da sballo, con il profilo scolpito, il volto da statua romana, la bocca sensuale e lo sguardo blu illuminato dall'interno, capace di esprimere sottili sfumature d'emozione; anche se, in realtà, il suo dna professionale umano era e resta intellettuale o addirittura cerebrale («Mi hanno sempre fatto passare per un sex symbol. Io, che arrossisco, quando mi trovo in una situazione imbarazzante»). Per molti anni -i migliori della nostra vita, per tornare al dato generazionale- è stato più che un divo, l'attore di riferimento: ha riempito il vuoto causato dalla morte di Dean e Clift e dalla precoce auto-imbalsamazione di Brando, i tre attori più importanti emersi nel dopoguerra hollywoodiano non a caso accomunati dalla scuola dell'Actors Studio. Stiamo parlando, insomma, di un perfetto antieroe, di colui che ha impersonificato al meglio le ribellioni e le idiosincrasie dei tempi di cambiamento cantati dall'ugola arrochita di Bob Dylan. In privato devoto a militanti ideali progressisti e alla piena armonia familiare, Newman ha creato una galleria di personaggi indimenticabili perché unici e, al tempo stesso, comuni, ora mossi da una divorante ambizione, ora aggressivi, rozzi e virili, ora condannati a una desolata solitudine e al martirio personale. Incarnando i protagonisti di cult-movies come «Hombre» o «Nick mano fredda» ha fissato nell'immaginario collettivo la figura del ribelle nevrotico, dell'uomo ultra-sensibile, intelligente ma confuso, che decide per sopravvivere di «separarsi» dalla società e dalla sua falsa umanità e di rinchiudersi in un mondo interiore, in un guscio protettivo, pur continuando a trasmettere vibrazioni di giovinezza, buona volontà ed umorismo. Ha vinto solo nel 1986 l'Oscar per «Il colore dei soldi» di Scorsese, in cui fa peraltro rivivere il campione di biliardo interpretato nel remoto «Lo spaccone» di R. Rossen. Circostanza che spiega bene la continuità di una carriera, con la quale ha dominato le caratteristiche, i gesti, le espressioni, persino la maniera di muoversi suggeriti dalla sua personalità. Da «Lassù qualcuno mi ama» ('56) a «Furia selvaggia» ('58); da «La gatta sul tetto che scotta» ('58) a «Hud il selvaggio» ('63); da «Il sipario strappato» ('66) a «La stangata» ('73); da «Bronx, 41° distretto di polizia» ('81) a «Il verdetto» ('82): come in un'avventura virile senza regole, una corsa esistenziale a perdifiato, un faccia-a-faccia con le brutture e le bellezze del mondo e della psiche, sempre in delicato, virtuosistico equilibrio tra umorismo e tensione, voglia di amare o di farla finita, ossessioni claustrofobiche e dedizioni totali, genuine. Come regista non ha raggiunto margini d'eccellenza, anche se «La prima volta di Jennifer» ('68) e «Sfida senza paura» ('71) rientrano appieno nella misura professionale e, soprattutto, nell'eterna propensione antagonista. Sono pochissimi i divi veterani (pensiamo, per esempio, all'ultimo Brando) che riescono a non ridicolizzarsi nel concedersi ai cammei di cortesia... Ma quando il primissimo piano, radioso e sofferente, di Newman occupa l'inquadratura-clou di «Era mio padre» di S. Mendes, anche gli spettatori novizi sentono che sta riproducendosi l'antica, inarrestabile magia del cinema.
Da Il Mattino, 26 gennaio 2005
Paul Newman, il divo bello e buono, sexy e serio, molto bravo, avrà ottant'anni il 26 gennaio e ha già il suo metodo per sconfiggere l'età e l'ombra della fine: semplicemente continuare a vivere come ha sempre vissuto, fare quello che ha sempre fatto, non introdurre nella vita una frattura ma garantirsi una continuità. Come prima, partecipa alle corse automobilistiche (ha una scuderia d'auto, alla 24 ore di Le Mans è arrivato secondo nel '79 su Porsche, ha vinto quattro titoli nella categoria Sports Car of America): poche settimane fa un'auto da corsa, un prorotipo appena sperimentato guidato da lui sul circuito di Daytona, s'è incendiato lasciandolo per fortuna illeso. Come prima, da democratico convinto e militante (anche nominato dal presidente Carter nel 1978 delegato americano alla conferenza Onu sul disarmo nucleare) ha contribuito alla campagna elettorale di John Kerry, accompagnando il candidato ai comizi, presentandolo agli elettori: e adesso lo rende furioso il continuo ricorso di Bush a un patriottismo d'accatto. Come prima, vive con la moglie Joanne Woodward (sono sposati da oltre quarant'anni, hanno tre figlie) a Westport, Connecticut, vicino al loro Westport Country, teatro dove lui ha recitato di recente «Piccola città» di Thornton Wilder, ripensando all'esordio in teatro a New York in «Picnic» di William Inge. Come prima, ha recitato benissimo per due film due personaggi (per lui rari) di capo, di padrone: un grande industriale maligno e malvagio in «Mister Hula Hoop» di Joel Coen, un boss mafioso irlandese paterno e sanguinario, affettuoso e ingiusto accanto a Tom Hanks in «Era mio padre» di Sam Mendes. La faccia bellissima appariva tirata e quasi lignea, ma i profondi occhi azzurri e il sorriso canzonatorio, sentimentale, avevano l'eloquenza di sempre. Come prima si occupa della Newman's Own, azienda alimentare di salse per spaghetti e per insalate, da lui creata con grandissimo successo per dedicare i profitti ad aiutare i bambini malati terminali e i tossicodipendenti (in memoria non cancellabile del figlio Scott, il minore dei tre maschi suoi e della prima moglie Jakie Witte, morto per overdose nel 1978). Come prima, lo turbano altri ricordi, oltre a quello di questo figlio amatissimo. Il tormento, durato tutta la vita, di avere poca statura, di essere piccolo: non piccolo come Dustin Hoffman né come Danny De Vito, però piccolo, fra tanti attori alti, allampanati. È il tormento di sentirsi considerato un eterno secondo, un rimpiazzo, una controfigura, un sostituto, un numero due di seconda scelta. Tormento scemo, quest'ultimo, nato agli inizi della carriera. Il primo film di Paul Newman è «Il calice d'argento» di Victor Saville, 1954, bizzarra storia epico-religiosa: il trentenne Newman sostituisce Marlon Brando che s'era ritirato all'ultimo minuto, il «New Yorker» scrive «Newman recita la sua parte con il fervore emotivo di un autista di autobus che annunci le fermate locali», lui giura di non interpretare mai più un film in costume e si mantiene fedele al giuramento. Il terzo film, «Lassù qualcuno mi ama» di Robert Wise, 1956, era previsto per James Dean, morto invece tragicamente: ma il personaggio del pugile italoamericano Rocco Barbella detto Rocky Graziano porta al sostituto Newman gran successo. Da allora, in film sempre migliori (non capolavori, ma perfetti) diventa fuorilegge, milionario, jazzista, giocatore professionista di biliardo, allevatore d'animali, imbroglione, detective, in personaggi spesso ispirati alla letteratura di Faulkner, Tennessee Williams, Gore Vidal, John O' Hara, Ross MacDonald. Sono degli Anni Sessanta i film che lo qualificano definitivamente come sex symbol: «La dolce ala della giovinezza» (per non parlare del precedente «La gatta sul tetto che scotta», con Liz Taylor), «Hud il selvaggio», «Detective Story», i due film in coppia con Robert Redford in un duo di banditi anarchici e anacronistici, «Butch Cassidy», «La stangata». Più tardi in «Bronx 41° distretto di polizia» offre una prova di bravura straordinaria; per «Il colore dei soldi» di Martin Scorsese con Tom Cruise ottiene finalmente il primo Oscar. I quattro cinque film di cui è stato direttamente regista non hanno invece lasciato forti tracce. Newman, faccia dai lineamenti classici, occhi meravigliosamente azzurri, irresistibile sorriso un po' beffardo e un po' cinico, ha seguito l'intero percorso delle star della sua generazione: famiglia benestante (padre commerciante ebreo tedesco, madre ungherese cattolica), studi universitari di arte drammatica, frequentazione dell'Actors Studio, debutto in teatro. Ma è stato diverso da tutti. L'unico che abbia fatto il militare e combattuto, imbarcato su una nave nel Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale. L'unico, in anni turbolenti, a non mostrare alcuna sregolatezza, a condurre un'esistenza ordinata e razionale, ad avere il fascino del divo e la misura del professionista: e ad essere bravissimo. Bisognerebbe ringraziarlo anche perché, con attenzione e autodisciplina, ha impedito al passare del tempo di devastarlo sino a renderlo irriconoscibile: così che anche adesso, come prima, si può ritrovare quell'espressione scherzosa e dolce che fece innamorare il mondo.
Da La Stampa, 23 gennaio 2005
Fece il clown per beneficenza e lo spot contro l'impotenza. E non imboccò il viale del tramonto.
«E chi sei… Paul Newman?». Certi modi di dire popolari custodiscono piccole/grandi verità. Sia che indichino un modello irraggiungibile (e di sicuro l'attore era un fuoriclasse baciato da bellezza e talento); sia che aiutino a ridimensionare l'ego di chi se la; tira, e di nuovo non è il caso di Newman, «spaccone» solo nella finzione.
In effetti, c'era qualcosa di speciale in questo uomo sensuale e intelligente; dotato di autoironia e tuttavia capace di fate le cose: sul serio senza prendersi sul serio. Nel 2001 i critici del Regno Unito l'avevano definito «Il migliore di tutti i tempi». Esagerando, naturalmente; perché certe graduatorie lasciano il tempo che trovano. Sean Connery non è meno bravo di Laurence Olivier; così come è a tutti chiaro quanto sbagliasse Sergio Leone nel definire Clint Eastwood interprete capace di due sole espressioni; «con cappello e senza cappello». Però, se metti l'uno dietro l'altro fatti e fatterelli, film e personaggi, atti e pronunciamenti, bisogna riconoscere che Paul Newman aveva una marcia in più rispetto a tanti colleghi hollywoodiani pur ricolmi di fascino e carisma,
Leggenda vuole che il suono preferito dall'attore fosse «il rumore di un motore otto cilindri a V». Amava le auto da corsa, tanto da gareggiare a Le Mans, ma il suo non era rifiuto della lentezza (o della saggezza). Se c'era da andare conti occorrente, non si tirava indietro, 8 anni fa, ancora in buona salute, aveva confessato al Daily News di pensare alla morte: «Sono alla ricerca di qualcosa di spirituale che mi aiuti a attraversare quel momento con grazia, con un senso di dignità». Intanto metteva nome e denaro al servizio di una titanica attività di filantropia (100 milioni di dollari in due lustri) per ridare un po' d conforto», migliaia di bambini malati, travestendosi perfino da clown, con tanto, di naso rosso. Tre anni dopo - altra uscita singolare dell'uomo - non si sarebbe vergognato di apparire in uno spot contro la disfunzione erettile. «Ehi, sono Paul Newman. Sei impotente? Curati!», si rivolgeva al maschio in crisi, giocando sulla propria età, senza tirarsi fuori dal mucchio. Del resto, lui, così venerato dalle donne per il lampo stellare dei suoi famosi «blue eyes», il sorriso malandrino e la virilità a fiordi pelle, andava ripetendo che «la cosa veramente stupida della mia vita è essere stato un sex-symbol».
A pensarci bene, è stato Paul Newman anche nel modo di lasciare il cinema. Senza distendersi grottescamente sul viale del tramonto, accettando di comparire in Era suo padre e poi basta, o quasi. L'amico Robert Redford, dodici anni più giovane, l'aveva cercato per girare un terzo film insieme, dopo Butch Cassidy e La stangata, una storia crepuscolare, A walk in the woods. Fu lö stesso Newman a sottrarsi,. Ufficialmente per-problemi di memoria. In cuor suo aveva già dato l'addio al set, per occuparsi di cibo biologico e di beneficenza, ogni tanto di politica. (in favore di Al Gore).
Già: «E chi sei… Paul Newman?». Vai a sapere se si sentiva tale. Sullo schermo, a. lungo, aveva incarnato l'eroe seduttivo e mascalzone, la simpatica canaglia in jeans o bombetta, il detective Harper con l'acqua alla gola o l'incorreggibile Nick mano fredda. Con l'età erano cambiati i ruoli: avvocato alcolizzato, governatore puttaniere, padre vulnerabile, perfino un Buffalo Bill da macchietta. Ma era sempre lui. Continuava a emanare un che di speciale. Un'altra natura, un'altra classe. Un campione celestiale. Come «el Pibe de oro». Infatti usiamo anche dire: «E chi sei… Maradona?».
Da Il Giornale, 28 settembre 2008
Ha sempre detto che sono diventato attore non perché spinto da passione irrefrenabile, ma per scappare da una vita di commerciante di articoli sportivi (l'attività del padre). Ma come attore ha studiato sodo, prima la scuola di recitazione di Yale, poi l'Actors' Studio, un po' di teatro e un testardo rodaggio cinematografico (nonostante il disastroso debutto, gonnellino e sandalone, nel tremendo Il calice d'argento), che l'ha portato subito in vetta scarruffato Rocky Graziano e ombroso Billy the Kid, spaccone perdente e icona, tra la fine dei 50 e i primi 60, del mélo cattivo, slabbrato e psicanalitico con cui Hollywood combatteva la crisi. All'inizio, dicevano che era un clone di Marlon Brando. Ma Paul Newman non ci mise molto a definire la propria personalità: altrettanta sensualità, ma tanta ironia che temperava la rabbia, origini quasi sempre proletarie, ma una classe innata che lo faceva ambire all'ascesa sociale, e poi la sfida costante che brillava negli occhi azzurri. Alla fine degli anni 60, era perfetto per la New Hollywood, per far da padrino sornione al nuovo astro Robert Redford, per dettare la sua legge in un West impazzito (il magnifico L'uomo dai sette capestri di Huston), per immergersi nella violenza, nei “colpi secchi”, nel disincanto dell'America che cambiava. Paul Newman ha saputo scegliere, ruoli, registi, e anche idee: non si è lasciato imbrigliare da una vita da star, dedito da sempre a cause umanitarie (che finanzia con i proventi dei suoi prodotti alimentari), da sempre convinto liberal, da sempre “umano”, nei dolori personali vissuti con dignità (il figlio suicida) e nei piaceri privati perseguiti con ostinazione (le corse automobilistiche)
Da Film Tv, n. 4, 2005
PAUL Newman era l’uomo che tutti vorremmo essere. Un adorabile spaccone, certo. Ma quanto adorabile! Non solo bellissimo, bensì grande attore. Un artista che ha riempito di sogni la nostra giovinezza, un’icona fatta apposta per alimentare la testa dei ragazzi, che, si sa, nelle fantasie trovano il cibo migliore. Un eroe positivo: perché al di là dei personaggi, moltissimi e spesso fra loro diversi che ha interpretato, si è fatto conoscere nel mondo come ottima persona umana.
Non ho mai lavorato con lui, però l’ho incontrato e frequentato. A dire il vero, a Los Angeles avevano progettato per noi un film, una storia sentimental-poliziesca che avrei dovuto girare avendolo come protagonista. Non andò in porto perché in quel periodo ero impegnato in altre parti del mondo. La nostra collaborazione rimase qualcosa nell’aria, che prima o poi si sarebbe concretizzato.
Ogni volta che l’ho incrociato, mi sono trovato a pensare alla brava persona che Newman era, che teneva ad essere e rimanere. Inseguiva una sua utopia ecologica, che credo possedesse fin dalla giovinezza. Amava la natura, gli animali, l’ambiente in generale e l’armonia fra le creature. Usava la sua faccia, la sua popolarità, il divismo che di diritto gli apparteneva per affermare le idee in cui credeva.
Se lo penso oggi, mentre ci saluta e se ne va, avendo rifiutato un letto di ospedale e scelto di tornare a casa propria per morire, vedo un flash di bellezza e prestanza, un’avventura continua, storie d’amore e di amicizia, sfide e canagliate, ma tutto all’insegna del dinamismo giovane e sano delle figure positive.
Ripeto: non c’è maschio che non abbia desiderato di essere come lui, di sorridere come sapeva sorridere lui, di guardare una donna o la vita come lui, sullo schermo, le sapeva guardare. Addio, Paul. Te ne vai bello e affascinante come sei sempre stato. Ci lasci una parte di te, immortale, nelle immagini dei tuoi film. Ci lasci la tua leggenda, ma anche le testimonianze concrete di un impegno civile che i tuoi biografi, assieme alla gente comune, non potranno trascurare. Di tutto questo, pensando a Shakespeare e all’identità immateriale che assegna agli uomini e ai sogni, io ti ringrazio.
Da Il Messaggero, 28 settembre 2008
CHI ERA Paul Newman? Un amico degli amanti del grande cinema. Un volto che rappresentava una garanzia. Un attore di classe. Intelligente, simpatico, affidabile. Se sul cartellone di un film, tra i nomi degli attori c’era il suo, sapevi che avresti visto un buon film. Bello di una bellezza invidiabile. Di solito gli uomini non invidiano i belli, ma quella di Paul Newman era una bellezza che si invidiava volentieri.
Era elegante. Sul set e nella vita privata. Non apparteneva allo star-system del gossip. Un personaggio lontano dal branco, dalle mode. Riservato. Un uomo che si è gestito con rara coerenza e ha saputo invecchiare.
Non ci potrei giurare, ma mi sembra che il primo film in cui lo vidi fosse Lo spaccone. Mi conquistò immediatamente. Tanto che non mi lasciavo sfuggire una sua interpretazione. E i suoi personaggi sono indimenticabili. Il Rocky Graziano di Lassù qualcuno mi ama. E Nick Mano Fredda, in cui era il simbolo della libertà in carne e ossa, determinato, ostinato fino allo spasimo. O L’Uomo dei sette capestri. Quel magnifico cialtrone de La stangata, o di Butch Cassidy, in cui Robert Redford era suo degno compare.
Non c’è titolo che mi abbia deluso. Anche in quello dell’esordio, Il calice d’argento, nonostante fosse un film di genere, lui si distingueva. Non perché fosse un secchione. Al contrario, era un ribelle. Sempre. Anche dopo la gioventù, i trenta e i quaranta. Nel Verdetto, per esempio in cui era un avvocato che intraprende una difficilissima battaglia, o quando diventa l’agente che più che nella legge crede nella giustizia, sia in Detective’s Story che in Detective Harper, acqua alla gola. Un ribelle in cui il pubblico riusciva a identificarsi. Un uomo perbene. Serio. Tenace. Che ha amato Joan Woodward tutta una vita. Un accordo che traspariva anche sul grande schermo, nei film che hanno girato insieme, da Una lunga estate calda, che li fece incontrare, a Mr. & Mrs. Bridge.
Paul Newman è quella Hollywood lontana, inafferrabile, che ti lascia la Meraviglia.
Avrei voluto lavorare con lui. Con gli Attori si ha sempre un ottimo rapporto. Proprio perché sono grandi.
Chi era Paul Newman? Era il cinema. E quando lo andavi a vedere, non potevi fare a meno di dire Paul Newman è Paul Newman.
Da Il Messaggero, 28 settembre 2008
Estate 1963. Newman accompagna alla Mostra del Cinema di Venezia il film «Hud il selvaggio», Oriana Fallaci lo incontra nella sua camera d'albergo.
Mi faccia un favore, signor Newman: si tolga quegli occhiali neri. Tra quegli occhiali e quella, barba da rabbino non sembra nemmeno lei. Ma perché va conciato così? Si direbbe, ceco, che lei abbia vergogna di sé, del suo perfettissimo viso. Coraggio, li tolga, non c'è mica nulla di male, sa, a essere belli. (Lentamente, svogliatamente, il divo si toglie gli occhiali, rivela assieme a uno sguardo doloroso, severo, due laghetti azzurri, impreziositi da pulviscoli d'oro. Gli occhi del divo, giunto a Venezia da New York per presenziare al Festival, sono bellissimi. Sono bellissimi; però, anche le orecchie, i denti, il naso, le mani. II divo, insomma è bellissimo tutto. E nella consapevolezza d'esser bellissimo siede, nel suo appartamento d'albergo, masticando chewing-gum).
«lo, quando mi dicono si tolga gli occhiali, voglio vedere i suoi occhi celesti, mi arrabbio come una bestia. Proprio come quando mi dicono lei è così bravo e poi ha due occhi talmente celesti. Si ha sempre l'impressione, a esser belli, che la gente ti accetti per ragioni sbagliate: insomma non perché tu sei tu ma perché sei bello. Tennessee Williams ha scritto molto su questo, sull'agghiacciante influenza che la bellezza fisica ha sugli altri in America. In Europa non so, forse è diverso, ma in America si chiede sempre a un uomo o a una donna d'essere belli e la pagana adorazione che si fa della bellezza ha qualcosa di anticristiano, di orrendo, e perché no? Di umiliante. Uno vorrebbe essere riconosciuto per ciò che ha fatto con sforzo, non perché è alto un metro e 90 e ha le gambe lunghe, il torace robusto, il naso greco, e gli occhi celesti. Che merito c'è a essere belli? La bellezza ce la regala la mamma, o il buon Dio: non si conquista. E questa odiosa esigenza del cinema, essere belli, dà una tale angoscia».
Non se la prenda, via: non si può aver tutto a questo mondo, e ciascuno ha la sua croce. Quanti anni ha signor Newman?
«Trentotto»:
Ecco, ancora dieci anni, 15 al massimo, e poi passerà: non ci penserà più. Certo li porta bene i suoi 38 anni.
«So che il mio corpo ha bisogno di tremila calorie giornaliere e non gliene fornisco una di più: distribuendo le tremila tra mille di cibo e duemila di latte di birra».
Porti- le mille a duemila, le duemila. A quattromila e la croce si alleggerirà ancora prima. Mi dica: è per questo che appare così diffidente e scontroso? L'ho osservato, sa, l'altra sera al Palazzo del Cinema: mentre assisteva con Martin Ritt, il regista, alla proiezione del suo film Hud il selvaggio. La gente applaudiva e lei, anziché ringraziare contento, si guardava le scarpe.
«Non solo. È che io non funziono bene tra la gente, gli applausi, la curiosità. Non a torto non vado mai ai festival: questa era la prima volta e sarà anche l'ultima. Per esempio: a me piace star sulla spiaggia, nuotare, e come si fa a star sulla spiaggia con quella folla che ti preme intorno e quei fotografi che ti seguono nell'acqua? Dà angoscia, imbarazzo: come quando, non so, devo andare al Chinese Theatre di Hollywood per la prima di un film e appena scendo dall'automobile la gente si mette a gridare. Una cosa è stare sul palcoscenico quando il sipario è abbassato e la gente ti applaude: ti applaude perché hai fatto uno sforzo, uri lavoro. Una cosa è scendere da un'automobile e ricevere applausi perché scendi da un'automobile: Vede, io ho sempre pensato che recitare non sia una professione creativa: creatore è chi scrive, non colui che interpreta. E questa glorificazione, -ingiustificata per colui che interpreta è perlomeno ridicola. Insomma su questo argomento io la penso come mia moglie, Joanne Woodward, che una voltami disse una cosa stupenda, davvero stupenda. Eravamo in Israele per girare Exodus e andavamo a mangiare nel ristorante dell'albergo ché ha una finestra lunga quanto l'intera parete, al livello del marciapiede. Bene: ogniqualvolta andavamo a mangiare trovavamo lungo quella finestra una fila di cento nasi schiacciati sul vetro, cento paia d'occhi che fissavano curiosi. Al terzo giorno Joanne disse: "Sai, Paul. Dopo questo, credo che non sarò più capace di andare allo zoo"».
Certo la vostra è una vita durissima, assolutamente infelice. Meno male che guadagnate tanti di quei soldi da essere risarciti del daino. Voglio dire: gli applausi sono noiosi ma quando vengono ricompensati in milioni… e un conforto.
«Sa: per ora lavoro nove giorni su dieci per il governo: la mia tassa è del 91 per cento e la pago fino all'ultimo cent. Tutto si può dire degli americani eccetto che non paghino le tasse. È dalla guerra di Corea, accidenti, che si paga il 91 per cento su ciò che guadagniamo. Però il nove per cento che metto in tasca mi basta a vivere bene e anche a far qualche pazzia: come quando andai a comprare un portascì per la mia automobile, il portascì staccato suon c'era, c'era solo un'automobile col portascì, e così comprai l'automobile col portascì».
Un bel conforto; ammettiamolo.
(Severamente). «Non bello, oltraggioso. Perché ingiusto. Tutto ciò che è ingiusto, è oltraggioso. Ed ecco un'altra cosa che mi dispiace nel mestiere d'attore: il guadagno eccessivo.-Non è colpa dell'attore, d'accordo, non si può cambiare la legge irrevocabile della domanda e dell'offerta: però non è;giusto lo stesso. Esiste una tal sproporzione tra la posizione di privilegio di cui gode nella società moderna un attore e la posizione di inferiorità in cui si trovano altre categorie: non trova?»
Eh, sì. Anche questa è una croce.
«Perché sa, il fenomeno non si verifica mica soltanto nei Paesi capitalisti: anche nei Paesi comunisti gli attori vivono oltraggiosamente bene; lì, invece di denaro, hanno onori. Io, quando leggo i cartelloni del balletto di Mosca e vedo scritto "Ballerina Tal dei Tali, premio Stalin"; oppure "Ballerino Tal dei T'ali, medaglia Lenin", mi dico: ma è giusto? È giusto che certa gente sia messa sullo stesso piano dei generali, dei vescovi, e sia fatta baronetto o milady dalla, regina d'Inghilterra, e sia ammessa alla presenza di John Kennedy, di Nikita Krusciov, della regina Elisabetta? Ma la cosa peggiore lo sa qual è? È quel diavoletto che per la frazione di un attimo ti buca il cervello e ti fa pensare: "Ehi, Paolino, guarda un po' cosa ti succede! Sei proprio sth aordinario, Paolino. Finalmente hai quello che meriti, Paolino"». (Scuote la testa, addolorato, e i laghetti azzurri hanno un lampo di malinconia).
Dice sul serio, signor Newman?!
«Certo che dico sul serio. Non ho alcuna voglia di scherzare. Chissà perché; quando uno è onesto e dice cose oneste, 1a' gente pensa sempre che scherzi, o che posi, o che reciti».
Allora, guardi: lei s'è scelto proprio la carriera sbagliata. Non le resta che cambiare mestiere.
«Perché? Si divorzia forse dalla donna che s'ama per qualche litigio? Fare l'attore per me è come esser sposato a una donna di cui s'è innamorati ma con cui si litiga continuamente. Per esempio: è bello interpretare una storia, non è bello doverla interpretare dinanzi al pubblico. È bello porsi dinanzi alla macchina da presa sapendo che quel personaggio puoi renderlo in cinque modi diversi, non è bello camminare per strada e sentir ire "Pss! Psss! Quello è Paul Newman". È bello entrare in un ristorante affollato e trovar subito un tavolo libero, non è bello esser guardati, col sopracciglio rialzato: come sta facendo lei».
Sono travolta dall'ammirazione: ecco tutto.
«No. Dalla convinzione di avere a che fare con uno scemo. È bello, quindi è scemo»: Orson Welles dice che la bellezza aiuta l'intelligenza. Chi è bello non ha complessi, chi non ha complessi è più libero, chi è più libero è più intelligente. Un attore bello quindi è intelligentissimo.
«Io non ero partito con l'idea di fare l'attore, non ho mai avuto la polvere del palcoscenico nelle vene eccetera. Io mi sono laureato in Scienze politiche e volevo insegnare regia, fare il regista è ancora il mio sogno, una volta ho perfino girato un filmino: a mie spese. Mica per proiettarlo, per divertirmi; una cosuccia
di 20 minuti, anzi 21, suggerita da un monologo di Anton Cechov. Infatti nonm'è riuscito. Ci ho lavorato ben quattro giorni e non m'è riuscito. Si vede che non sono creativo». (Sorride: bellissimo).
Ma no: perché si mortifica? Sono sicura che lei è molto creativo.
«Sono interpretativo: l'ho detto. Altrimenti come si spiega che sia diventato subito attore? Oltretutto lo divenni per scherzo, per caso. Deve sapere che al Canyon College; dove studiavo, io non frequentavo la compagnia teatrale del College: giocavo nella squadra di calcio. Sì, sono sempre stato sportivo, mio padre era proprietario di un negozio - di articoli sportivi a Cleveland - Ohio. Ma un giorno bevemmo un po' troppa birra, finimmo in guardina, la squadra si sciolse e io, per consumare il mio tempo, entrai nella compagnia teatrale. Per scherzo, per caso. O destino?».
(Compunta) Destino, destino.
«Forse sì, se penso che il mio primo film fu ll calice d'argento, il peggior film mai realizzato in America. Ed essere sopravvissuti a Il calice d'argento... Eh, sì: il successo non mi è venuto dalla sera alla mattina. (Punta il dito) Meglio, però. Il successo improvviso non è sopportabile, turba l'equilibrio, rovinala gente: è così difficile separarsi dal personaggio che la popolarità ti ha creato, e non separarsi e immorale. Bisogna studiare, studiare. E io ho molto studiato: studio ancora, lo sa? Frequento l'Actor's Studio ed è questo che rende il mio mestiere onorevole. Assolutamente onorevole».
Nessuno ne dubita.
«Alcuni sì. Dubitano anche dell'Actor's Studio. Dicono che tutti quelli delrActor's Studio recitano nel medesimo modo, attribuiscono all'Actor's Studio tutte le colpe, le strizzate d'occhi, le smorfie. Si capisce: la gente ficca il naso nell'Actor's Studio e poi dice d'averci studiato. Ma chi ci ha studiato davvero… (Indignato). Le pare che Julie Harris reciti come Geraldine Page? O mia moglie come Shelley Winters? O Karl Malden come Tony Franciosa? Peggio: le pare che io reciti come Marlon Brando? O pensa anche lei che io assomigli a Marlon Brando?».
Eh, sì. Un pochino sì. (La frase è imprudente. I -due laghetti azzurri diventano ghiaccio: ci si potrebbe quasi pattinare).
«lo quando i giornalisti mi dicono "reciti come Marlon Brando" o solo "assomigli a Marlon Brando", volto loro le spalle: niente è più sciocco e più comodo che affermare"è un altro Brando, è un altro Clark Gable"; ci si toglie la responsabilità di un giudizio. Ma, se non volto le spalle, punto il dito e chiedo loro: "Qual'è la qualità principale di Marlon Brando?". Avanti: qual'è? (Cauto silenzio). Glielo dico io qual è: è la capacità di rottura, è bruciare come un vulcano che sta per esplodere. È l'essere Brando e nient'altro che Brando, vale a dire il miglior attore che abbiamo negli Stati Uniti. E tuttavia restare Brando. Guardi, non lo dico perché Marlon sia amico mio, non e amico mio, è solo un mio conoscente, un collega col quale avrò scambiato sì e no 400 parole: ma io non ho la capacità di rottura che ha Marlon, io non sono. sempre io. Sono un cowboy se devo fare il cowboy, un chirurgo so devo fare il chirurgo, un pigolò se devo fare il pigolò: È la gente mi guarda come si guarda un cowboy, un chirurgo, un gigolò. In Marlon invece la gente. guarda Marlon che fa il cowboy, il chirurgo, il pigolò. Quanto alla mia somiglianza, fisica, se c'è, e un poco c'è , non posso farci niente. Al massimo, portare la barba come un rabbino».
Ah, per questo porta la barba.
«Ma lei cosa vuole da me? Prendermi in giro?».
No, no: solo farle il ritratto.
«Che ritratto?!».
Lei parla: e viene fuori il ritratto: anzi (autoritratto. «Non voglio ritratti, né autoritratti. Uno comincia col fare il ritratto e poi vuole fotografare i tuoi figli. Nessuno ha mai fotografato i miei figli. lo non permetto di fotografare i miei figli».
Ma chi vuole fotografare i suoi figli?! Qui siamo a Venezia e i suoi figli sono a New York. E la sua. famiglia, signor Newman? (Di nuovo i laghetti diventano ghiaccio).
«La mia famiglia è un santuario e nessuno è mai entrato in quel santuario. So che alcuni la sfruttano, la propria famiglia, per pubblicità. Io non ho . nessun obbligo di farmi pubblicità. Solo di recitare meglio che posso. Tutto il resto è inutile: come lasciare le impronte delle mani e dei piedi sul marciapiede del Chinese Theatre a Hollywood».
Sì; però sa quel marciapiede ci sono aniche le sue impronte. Di una mano e di un piede.
«Scalzo. Mi tolsi la scarpa, e lasciai l'impronta».
Lei è un anticonformista, lo so.
«Chi le ha detto che sono anticonformista? Odio certe etichette. Essere anticonformista è stupido come essere conformista: l'anticonformista deve sempre dire di no e il conformista, deve sempre dire di sì. In entrambi i casi l'atteggiamento è poco intelligente. Io non sono poco intelligente e 'a volte dico di no,- a volte - di sì. Sono anticonformista per esempio quando vado in motoretta: a New York si può circolare solo in motoretta, col traffico ché c'è. Sono conformista, invece, quando dico che mi piacciono le donne». .
Quello non è conformismo, è buona salute.
«.:. e quando la gente mi dice: tu sei di destra o di sinistra?
Rispondo: non sono né di destra. né di sinistra, né liberal né conservatore, in certe cose hanno ragione i liberal e in certe cose hanno ragione i conservatori. Non appartengo a nessun partito. La verità sta sempre nel mezzo, in politica e altrove: era scritto anche sul Washington Post, l'altro giorno».
(Conciliante, un po' adulatoria): Ciò non le ha impedito di prendere posizione, a favore dei neri: di andare in Alabama, con Marlon Brando, di partecipare alla marcia su Washington...
(Per niente conciliante). «Perché? Non avrei dovuto? Un attore non, ha forse il diritto di dire la sua, di inserirsi nella vita politica del proprio Paese? Essere attori toglie forse la cittadinanza a una persona? Ah! Tu non sei che un miserabile attore, un male informato, un isterico, hai gli occhi celesti e non leggi, cosa ne sai, cosa vuoi saperne, di cosa: ti impicci? Come se io e Marlon avessimo la-reputazione di gente che cerca la pubblicità. Lo sa che pubblicità ci siamo fatti? Di agitatori. E lo sa con che risultato? Che Gli ammutinati del Bounty, il film di Marlon, doveva essere proiettato dopo dieci giorni e non è stato più proiettato, e il mio film Hud il selvaggio, già in proiezione, non reggerà dieci giorni».
Senza dubbio ha, avuto coraggio, quella posizione era pericolosa per la sua popolarità, certa gente ha reagito malissimo...
«Me ne frego di come hanno reagito. Me ne frego della popolarità. Il compito di un attore non e quello di custodire la sua popolarità, è' quello- di usare la sua popolarità per una causa giusta, muoversi, fare qualcosa. Io disprezzo chi non fa nulla e, se la maggioranza non fa nulla, non è detto che stia con la maggioranza; sé le leggi diventano opprimenti, ciò non significa che si debbano accettare le leggi. Ciò è coraggioso? Non credo. Stare fuori della norma non comporta coraggio, farsi nemici nemmeno: chi non ha nemici,non ha carattere. lo ce l'ho, il carattere, anche se ho gli occhi celesti, e così sono andato nell'Alabama: a dimostrare a quei neri ché qualcuno si preoccupava di loro. E dopo l'Alabama ho- fatto la marcia su Washington: Oh, è stato bellissimo, sa? Pensi a duecentodiecimila persone che marciano dal monumento di Washington al Lincoln Memorial: alcune con r aria di partecipare a un pic-nic, altre con (aria di andare a una guerra, altre con l'aria di celebrare una cerimonia religiosa, altre ancora ridendo, sì, c'era molto senso dello humour, soprattutto da parte dei neri, tutti però con la consapevolezza di contribuire al risveglio della coscienza, americana. La cosa più importante che sia avvenuta negli ultimi dieci anni in America, creda, e c'erano anche i miserabili. Attori; bianchi; neri; verdi, viola, Marlon Brando, Paul Newman, Harry Belafonte, Burt Lancaster, Sidney Poitier, Charlton Heston, Diahann Carroll, Tony Franciosa, venuti apposta da Chicago, Los' Angeles, New York, e nessuno, per farsi pubblicità. Tantomeno per stupidità...»:
Ma lei ha un complesso, signor Newman. Orson Welles dice cose inesatte. (La frase è infelice. Il divo si offende):
«Ho il complesso di farmi i fatti miei, distare a casa mia, con mia moglie, i miei figli, il mio lavoro, e non parlare mai di me».
I suoi figli...
(Seccamente). «Ne ho cinque. Due nati dal matrimonio con Joanne, tre dal matrimonio precedente».
Sua moglie...
(Seccamente). «Mia moglie e una gran donna. Ci incontrammo cinque anni fa, recitando a Broadway in Picnic». (Guarda l'orologio, impaziente).
Recitate spesso insieme...
«Si, perché con lei non posso barare: so che mi guarda, mi giudica; mi conosce, e non tento neanche di ripetermi quando lavoro con lei, di ricorrere ai soliti trucchi, i manierismi cui ricorre generalmente un attore. E poi perché è preferibile abbracciar lei anziché una estranea. Amo mia moglie».
La vostra casa nel Connecticut, vicino a New York...
«Abitiamo nel Connecticut, o a NewYork». (Riguarda l'orologio, impaziente. Il dialogo è assolutamente penoso).
É perché non a Hollywood?
«Perché preferisco New York».
E perché preferisce New York?
«Perché non mi piace Hollywood».
Peccato che sua moglie non sia venuta a Venezia.
«Gli, operai stanno mettendo la tappezzeria in soggiorno».
In Europa...
«Noi stiamo bene in America. Non sono ammalato d'Europa. La gente deve stare dové è nata, dove ha le radici». (Riguarda l'orologio, ha proprio l'aria di volersene andare).
Be', allora la lascio, signor Newman. Lei è molto simpatico. Mi spiace che non le abbiano dato il premio a Venezia e...
«Non me ne importa nulla del premio. Recitare non è una competizione sportiva, una corsa a ostacoli per arrivare primo. E poi si sa bene come funzionano i premi, sia ai festival che agli Academy Awards: più che un attore, si premia una casa produttrice, un Paese, più che una onesta valutazione si fa un gioco politico, di convenienza. E quando il giudizio non è libero, la medaglia di quel giudizio che importa? A me basta che dicano: ecco un uomo onesto che fai] suo mestiere onestamente». (Rimette gli occhiali neri, saluta ma freddo, se ne va masticando chewing-gum).
Da Il Giornale, 28 settembre 2008
L'ultima volta che ho incontrato alcuni dei superstiti della specie è stato a Caracas qual che anno fa, ad un raduno di intellettuali che credono ancora possibile un mondo diverso, carichi, anzi, di rinnovato entusiasmo per via del nuovo astro Chavez. Era la delegazione degli Stati uniti, capeggiata da Julie Robinson, moglie di Harry Belafonte. Con lei qualche vecchietto: poeta, scrittore, cineasta. Un paio di loro persino col basco blu dei volontari repubblicani nella guerra civile spagnola.
Era l'ala più estrema - anche alcuni comunisti - di un più largo arcipelago: quello della sinistra americana, mai arrivata a rappresentare una fetta significativa della popolazione americana, ma più consistente di quanto non si sia finito per credere qui da noi negli anni più recenti. Rilevante soprattutto durante il New Deal, di cui costituì il pilone di sinistra, supporto indispensabile ai difficili equilibri stabiliti da Roosevelt. Importante soprattutto a Hollywood, considerata - per il ruolo affidato al cinema - prima linea nella guerra antifascista, subito prima e durante la seconda guerra mondiale, una battaglia da combattere fuori ma anche dentro il proprio stesso paese, tentato di lasciare che il mondo andasse dove voleva. Alla fine massacrata dal maccartismo che portò molti dei suoi esponenti sul banco degli accusati.
Paul Newman, che oggi piangiamo, faceva parte di una generazione appena più giovane di quella epurata dagli studios di Los Angeles, ma di quella storia è stato in qualche modo uno dei continuatori, sia pure nelle forme meno apertamente politiche che si sono affermate negli anni più recenti. «Ardente attivista nelle cause della pace e del progresso», ha appena scritto il settimanale The Nation commemorandone la scomparsa: quelle dei diritti civili, contro le guerre, dal Vietnam all'Iraq, che hanno in effetti coinvolto una parte considerevole della società americana.
Non è un caso se, sia pure con proprie specifiche e per molti versi diverse caratteristiche, il '68 sia nato in America, da cui qui in Europa ricevemmo una salubre spinta. Non a caso il movimento ha avuto come bandiera le famose 3 M, di cui, dopo Marx e Mao, una era Marcuse, che, sebbene tedesco, era da tempo diventato americano. Di questa sinistra americana animata spesso da fondazioni non propriamente politiche ma impegnate a sostenere azioni che non possono neppure dirsi di beneficenza o di mecenatismo, perché acquistano un carattere polemico assai marcato, Newman ne ha animate non poche. Ma quanto lui ha fatto è stato di più: è diventato azionista della più antica pubblicazione di sinistra americana - The Nation - che dal 1865 senza interruzioni rappresenta una voce essenziale degli Stati uniti. Non un piccolissimo giornale, ma un settimanale con parecchio di più di 100.000 copie vendute, autorevole e assai ben fatto. Victor Navaski, che ne e stato per moltissimo tempo direttore (ora sostituito da Kathrin Van den Heuvel) è anche l'autore della più seria opera storica sulla persecuzione maccartista della sinistra hollywoodiana. Non a caso: è un altro dato che sottolinea il legame.
Paul Newman non è stato solo uno degli azionisti di The Nation, ne è stato spesso anche collaboratore. E proprio in occasione della sua morte il settimanale ha ripubblicato un suo vecchio articolo, uscito nell'agosto del 2000. È il racconto sarcastico delle partite a scacchi che il suo nipotino Pete, quattro anni e mezzo. Goca col vicino di casa. Un ex ufficiale dell'intelligence americana, specializzato in armi nucleari, una straordinaria irrisione delle pericolose ossessioni del Pentagono.
Fra le tante cose fatte da Newman ce n'è una di cui avremmo adesso più che mai bisogno in Italia: aveva istituito un premio di 20.000 dollari, con la sua fondazione Pan American Center, da conferire al cittadino Usa che più efficacemente avesse difeso nel corso dell'anno l'emendamento numero 1 della Costituzione americana: quello in cui si parla di libertà di espressione, di culto, di STAMPA!
Scomparsi i grandi vecchi della sinistra americana degli anni '30, e ora anche di quelli maturati dopo la seconda guerra mondiale, cosa resta nel paese che possa assomigliarle? La risposta necessiterebbe assai maggiore approfondimento. Non è solo negli Stati uniti, del resto, dove è ormai difficile rispondere a una simile domanda. Voglio solo segnalare che dall'America, se non da Hollywood, continuano ad arrivarci le pellicole politicamente più impegnate che possano vedersi. O meglio: che potrebbero vedersi, perché disgraziatamente non sono quelle che restano in circolazione anche quando fortunosamente ci arrivano.
Da Il Manifesto, 28 settembre 2008