GIULIA D'AGNOLO VALLAN
Apertamente schierato dalla parte delle creature fantastiche «contro» gli esseri umani, il regista messicano di Hellboy è il più adatto a raccogliere il testimone di Peter Jackson e ampliare la saga del signore degli anelli. Toccherà a lui, infatti, dirigere Lo hobbit, il nuovo film tolkeniano. Alla vigilia dell'impresa, l’abbiamo intervistato
di giulia d'ag.nol0 vallala
È il più poeta, il più visionario tra gli autori della new wave messicana a Hollywood - autori come Alejandro Gonzalez Inarritu e Alfonso Cuarón che, insieme a lui, hanno importato nel cinema americano un occhio e una sensibilità diversi, nuovi. Rispetto ai registi di Babel e I figli degli uomini, Guillermo Del Toro è anche quello più innamorato del cinema di genere horror in particolare. Che siano sanguinose, nerissime fiabe ambientate durante la guerra civile spagnola e prodotte con budget ridottï (come El espinazo del diablo o El laberinto del fauno) o reinterpretazioni patinate di fumetti cult (Blade II e gli Hellboy), è chiaro che i mondi della fantasia sono i luoghi che ama esplorare. Non a 'caso, questo quarantaquattrenne di Guadalajara (cresciuto da una nonna rigidamente cattolica, nutrito di cinema popolare messicano in salsa Landis, Lucas, Spielberg e Dante, e con.un lungo tirocinio nel campo degli effetti speciali) è stato scelto dal produttore Peter Jackson per portare al cinema il tolkeniano Lo Hobbit. Abbiamo incontrato Del Toro a Los Angeles, nel pieno fervore dell'uscita di Hellboy II.
In un certo senso, Hellboy II ed El laberinto del fauno sono due film che si parlano.
Entrambi raccontano di come volgari vicende umane mettano in pericolo le più sublimi creature dell'immaginazione. Nel Laberinto, è il miserabile delirio della Spagna di Franco, contrapposto ai mondi fantastici in cui crede la bambina protagonista. E in Hellboy II si dice: «Gli uomini hanno dimenticato i loro Dei e distrutto i sogni. Ma per che cosa? Parcheggi e centri commerciali». C'è una curiosa malinconia nel film, che il pubblico registra meno dell'umorismo.
In effetti nei suoi film gli esseri umani sembrano una forza bruta d'invasione.
La razza umana è allo stesso tempo la cosa migliore e la cosa peggiore presente sul nostro pianeta. Guardi il comportamento del maschio adulto di oggi: le guerre sono gestite con i criteri delle baruffe ai giardinetti, gli affari internazionali degradati a risse tra ragazzini. Non ho fatto Hellboy II per cambiare il mondo, ma come va il mondo effettivamente mi preoccupa.
Mi sembra che il suo rapporto con il soprannaturale non sia solo metaforico, ma che si tratti di una ossessione «vera».
È una storia d'amore torrida, enorme: il mio feticcio è il mostro. E non la considero una perversione, bensì una fede. Non amo i mostri nel senso borghese di quelli che si eccitano all'idea delle tenebre: li amo con passione. Creativamente parlando, sono le cose migliori della mia vita. Altro che simboli! Io sono intellettualmente e spiritualmente eccitato dalle «creature» in quanto archetipi essenziali. Quando rifletto sulla decadenza della razza umana, mi consolo pensando che siamo gli unici a sognare gargolle e angeli. Cosmicamente insignificante, ma magnifico! Quando da piccolo vedevo mostri nella mia stanza, ero così terrorizzato che facevo pipì a letto. Così un giorno gli ho promesso che se mi lasciavano andare in bagno sarei stato loro amico per sempre. Adoro quei bastardi.
Cosa hanno significato per lei i riconoscimenti che El laberinto ha avuto agli Oscar?
Che prima avevo un vestito solo, adesso ne ho due. E la gioia di vedere premiati alcuni dei mei collaboratori. Mai stato in ansia, comunque, nemmeno la sera della cerimonia. Se era il mio momento, la statuetta sarebbe arrivata.
Quindi pensa cbe la vita sia giusta?
Trovo parole come «giusto» o «sempre» o «mai» terrificanti. Non c'è giustizia nell'universo, perché non si preoccupa degli individui: è una macchina che ti manda ciò di cui hai bisogno, se sei capace di prenderlo. Per esempio, non ho mai messo in dubbio che l'esperienza terribile che ho avuto sul set di Mimic sia servita a darmi la forza di combattere per la libertà creativa nei miei film successivi. Allo stesso modo, quando hanno rapito mio padre, nel 1997: il primo giorno ci siamo detti che non ce l'avremmo fatta. Entro la terza settimana, mia madre aveva perso tutti i capelli. Ma, alla fine, siamo sopravvissuti, e siamo diventati una famiglia più forte. Più unita. Per questo credo non tanto nella saggezza ma nella funzionalità dell'universo.
Diversamente dal cinema fantastico bollywoodiano, il suo lavoro riflette un forte legame visivo con i simbolisti europei, Odilon Redon, Böcklin...
È un rapporto forte come quello che ho con Mario Bava. Perché nella mia mente le influenze pop hanno lo stesso peso del più squisito quadro simbolista. Molti pensano che il cinema sia la riproduzione di una sceneggiatura, invece per me è la rappresentazione di ciò che non può essere verbalizzato - un quadro, un'illustrazione in movimento. Böcklin ha dipinto i tritoni, le sirene e i centauri più belli che ci siano. Sembrano veri. È anche un maestro delle luce e delle atmosfere. Il suo dipinto più famoso, L'isola dei morti, esprime proprio quello che mi piace del mistero delle immagini. Come credo dica Magritte, il bello dell'arte sta nell'evocare il mistero, non nel risolverlo.
Sta per dare inizio a un progetto attesissimo e complicato, Lo Hobbit. La spaventa ereditare la trilogia diJackson?
Mio padre era un pilota di moto. Molto irresponsabilmente me ne comprò una quando avevo sette anni. Il suo motto era: se hai paura, non montarci sopra. Il cinema è la stessa cosa. Fare Lo Hobbit, per me è come scrivere l'ouverture di una sinfonia preesistente: hai la possibilità di riprenderne i temi e di espanderla. Lo Hobbit è un progetto in due parti. Il primo sarà un film a se stante. Il secondo un'evoluzione e un'integrazione della trilogia di Peter.
Insieme con Alejandro Inarritu e Alfonso Cuarón ha fondato una casa di produzione per fare film a Hollywood, la Cha Cha Cha... Che intenzioni avete?
Alfonso e io siamo amici da ventun anni. Alejandro lo conosco da sette. Con Cha Cha Cha abbiamo formalizzato il diritto di chiamarci a mezzanotte. Faremo un film a testa e finanzieremo quelli di due registi che ammiriamo, Rodrigo García e il fratello di Alfonso, Carlos. Il primo, Rudo y Cursi, è diretto da lui.
Da Lo Specchio, Settembre 2008