Fritz Lang è un attore austriaco, regista, scrittore, sceneggiatore, è nato il 5 dicembre 1890 a Vienna (Austria) ed è morto il 2 agosto 1976 all'età di 85 anni a Los Angeles, California (USA).
Dopo aver realizzato una convincente opera espressionista (Destino o Le tre luci, 1921), raggiunge il successo con un thriller (Il dottor Mabuse, 1922) e con una leggenda del Reno (I Nibelunghi, 1923-24) dove l'espressionismo rimane presente soprattutto nelle scenografie. Nel 1926 realizza uno dei film più apprezzati della storia del cinema, Metropolis.
La storia del film si svolge proprio in una ipotetica città del futuro, su cui domina un solo uomo, padrone delle fabbriche. L'aspetto mostruoso della città è nella sua conformazione: la parte inferiore, quella sotterranea, è abitata dagli uomini che lavorano, dai proletari ai quali è vietato salire sopra a vedere la luce del sole; la parte superiore è quella dei ricchi, in cui si gode di tutte le comodità assicurate dal lavoro dell'altra parte. L'unica eccezione è rappresentata da Maria, la predicatrice dell'amore tra gli oppressi, che un giorno ottiene il permesso di salire in alto. Il figlio del padrone non appena la vede si innamora di lei e la segue nei sotterranei, e qui scopre i grandi macchinari il cui funzionamento permette la vita alla città superiore. Il padrone mostra di non gradire la cosa, anche perché le idee umanitarie che Maria va predicando agli operai gli sembrano molto pericolose. Chiede così aiuto allo scienziato inventore delle macchine. Non sa però che questi è molto invidioso del figlio e così architetta un piano diabolico: progetta un robot con le sembianze di Maria e le mette in bocca discorsi che incitano alla violenza. Gli operai, ascoltando le «nuove» idee della Maria-robot, iniziano una sommossa che porta alla distruzione delle macchine. Andando in fumo la fabbrica, però, va in fumo anche il loro lavoro. Gli operai, a quel punto, vanno su tutte le furie: saliti nella parte superiore della città prendono il robot che credono Maria e le danno fuoco. Nel frattempo, la vera Maria riesce a fuggire dalla prigione dove l'aveva rinchiusa lo scienziato, che cerca di fermarla per timore che la sua riapparizione faccia comprendere a tutti il suo piano. Intanto, sotto gli occhi stupiti degli operai, il corpo della finta Maria si decompone nel fuoco e mostra così il suo scheletro d'acciaio. Il film termina con la morte dello scienziato, precipitato dall'alto di una cattedrale durante una colluttazione con Maria e col figlio dell'industriale, e con una riconciliazione tra operai e capitalisti.
Lo scopo principale del film era quello di mostrare i rischi a cui andava incontro una società troppo dedita ai beni materiali e alla eccessiva industrializzazione. Lang mostrava in particolare la distanza pericolosa che si era venuta a creare tra due mondi, tra chi governa i mezzi meccanici e chi ne è schiavo, e come anche all'interno delle città non ci fosse più un terreno su cui incontrarsi.
La descrizione minuziosa che il regista tedesco effettua della parte inferiore di Metropolis appare una chiara denuncia di quella che era la condizione operaia all'interno delle città industriali. Non a caso Lang la realizzò prendendo come modello proprio i quartieri operai di una qualunque città tedesca all'epoca della Repubblica di Weimar: case squallide, geometriche, tutte rigorosamente uguali, costruite in serie in spazi ridottissimi, al cui interno la vita non doveva essere molto differente da quelli descritta nei libri di Dickens qualche decennio prima.
La parte superiore di Metropolis, invece, fu fatta ad immagine e somiglianza di New York, una città da cui Lang rimase molto colpito: «Quelle costruzioni - ebbe a scrivere in seguito alla sua prima visita nella città americana - mi sembravano un sipario leggerissimo e luccicante, un fastoso scenario sospeso sotto la cappa del cielo, fatto per abbagliare, divertire e ipnotizzare. La città sembrava animarsi solo di notte: la sua vita era come la vita delle illusioni». Agli occhi di Lang quell'architettura appariva la perfetta forma urbana della civiltà della tecnica, un luogo dorato pieno di mille contraddizioni quante erano le luci che lo illuminavano.
Ma la città di Metropolis non si esauriva solo in questi spazi: c'era anche il luogo della struttura produttiva della fabbrica, disposto appena sopra la città dormitorio degli operai, e poi, ancora più sotto, sorgeva la Città dei Morti, come viene chiamata nel film il luogo in cui Maria e gli operai si riunivano segretamente. La cosa che maggiormente colpisce di questa città del futuro costruita da Lang è la sua disposizione: il regista tedesco, infatti, non immagina una sua estensione in orizzontale, ma piuttosto su diversi livelli verticali. Ad ogni piano della città, inoltre, viene associato non soltanto un corrispondente livello di potere, tale per cui più si scende in basso e più il potere diminuisce, ma anche un diverso accesso alla vita sociale: nella città tentacolare alla peggiore condizione sociale, vale a dire al livello urbano più basso, si associa necessariamente una peggiore qualità della vita. Gli operai langhiani non possono nemmeno avere accesso alla luce solare, e a questo condizione sono talmente abituati che quando camminano in processione per recarsi in fabbrica, avanzano come automi col capo chino di chi non ha mai guardato verso il cielo.
I film seguenti di Lang, soprattutto M, il mostro di Dusseldorf (1931) e Il testamento del Dottor Mabuse (1933) confermano il suo amore per le inquietanti ambientazioni espressioniste, ma soprattutto la sua convinzione che se i meccanismi sociali sono sempre ingiusti è anche a causa di ogni singolo uomo che, per questo, è costretto a convivere con la sua parte di colpevolezza. Una macchia originale in un essere votato al dominio, per raggiungere il quale è capace di usare ogni mezzo, anche il delitto, a patto poi di scontarlo in angoscia e sofferenza.
In seguito Lang emigra negli Stati Uniti dove intraprende una nuova carriera in cui riuscirà a conciliare la propria identità di autore con le logiche produttive di Hollywood, ma la sua visione pessimistica degli uomini diverrà sempre più nera, assumendo nel tempo anche connotati astratti, per ritrovare poi un ultimo contatto con la realtà nell'ultimo film che gira tornato in Europa, Il diabolico Dottor Mabuse (1960), in cui il vecchio personaggio langhiano offre l'occasione per mettere in guardia il mondo sui pericoli del progresso scientifico.
Suddito di Francesco Giuseppe, figlio dell'architetto comunale Anton Lang e di sua moglie Paula Schiesinger, frequenta la Volksschule e dal 1905 la Realschule, e legge avidamente i romanzi d'avventura di Karl May e di Jules Verne.
Tra i film visti con gli amici c'è il primo western dello schermo, The Great Train Robbery (La grande rapina al treno, 1903) di Edwin S. Porrer. Nel 1907, seguendo la volontà paterna, studia architettura alla Technische Hochschule, ma appena un anno dopo si trasferisce all'Accademia di Arti Grafiche per dedicarsi alla pittura. All'insaputa dei genitori lavora in due spettacoli di cabaret, Fernina e Hölle (Inferno).
Nel 1911 si lascia alle spalle la casa e l'infanzia iscrivendosi alla Staatliche Kunstgewerbeschule di Julius Dietz a Monaco, dove segue i corsi del pittore simbolista Stuck. In un clima bohèmien viaggia attraverso la Germania, il Belgio, i Paesi Bassi, la Russia, la Turchia, l'Asia Minore, il Nordafrica, la Cina, l'isola di Bali, il Giappone. Si mantiene vendendo quadri, acquerelli, cartoline e vignette per i giornali tedeschi, si improvvisa consulente artistico in un circo e presentatore di cabaret.
Nel 1913 si stabilisce a Parigi dove frequenta la scuola di pittura di Maurice Denis e l'Academie Julian. Va al cinema con accanimento: "A Parigi vedevo film francesi d'avventura, del tipo spettacolar-popolare, in cui abitualmente un grande criminale diventava una specie di Robin Hood. Ne ho in mente uno intitolato Rocambole. Li guardavo con molto piacere, era un passatempo, e non saprei dire se mi hanno influenzato in seguito". Subito dopo la dichiarazione di guerra rientra a Vienna passando per il Belgio e il 15 gennaio 1915 si arruola volontario nell'esercito imperiale, preso da quello che lui stesso definisce un 'patriottismo temerario'.
Ferito, ottiene la Karl Truppen Kreuz e due volte la medaglia d'argento di seconda classe per il coraggio dimostrato in combattimento. In quegli anni inizia a portare il monocolo all'occhio sinistro. Nel 1916 è congedato con il grado di tenente. Durante la lunga convalescenza a Vienna prosegue gli studi d'arte, recita in alcuni spettacoli, dirige e interpreta il dramma bellico Der Hias, lavora in un cabaret disegnando manifesti. Qui incontra un impiegato di banca che gli propone di scrivere dei film insieme: le idee migliori sono di Lang, all'amico spetta il ruolo di vendere le sceneggiature. Nel 1917 Joe May ne accetta qualcuna, realizzando Die Hochzeit im Exzentrik K/ub e Hilde Warren und der Tod. Nel 1919 Lang debutta dietro la macchina da presa, girando in cinque giorni, su una sua sceneggiatura, Halbblut (Mezzosangue), con Ressel Orla, un film vietato ai minori. Poi dirige Der Herr der Liebe (Il signore dell'amore), da una sceneggiatura di Leo Koffler. Le prime due opere di Lang sono perdute, mentre resta copia del terzo film, Die Spinnen - Die Abenteuer des Kay Hoog in bekannten und unbekannten Welter.(I ragni - L'avventura di Kay Hoog nei mondi conosciuti e sconosciuti).
Nel 1920 Lang ottiene la cittadinanza tedesca e lascia la Decla per la May-Film GmbH. Qui incontra la scrittrice trentaduenne Thea von Harbou, che è stata già moglie dell'attore Rudolf Klein-Rogge. Quello stesso anno la sua prima compagna, figlia di un pastore protestante, Lisa Rosenthal, si suicida. Lotte Eisner racconta che la ragazza avesse sorpreso Lang sul divano del loro appartamento mentre amoreggiava con Thea von Harbou: così era andata in camera sua e si era sparata un colpo al cuore. Fritz e Thea dovettero giustificarsi in tribunale per mancata assistenza, poichè era trascorso troppo tempo fra il suicidio e la notifica alla polizia. Il regista da quel giorno non mancò più di annotare fatti e situazioni sul taccuino, obbligando i suoi ospiti ad appuntare ogni chiamata telefonica, ogni visita e ogni uscita. Sfumata la possibilità di dirigere Il gabinetto del dottor Caligari, vero e proprio manifesto del cinema espressionista, Lang firma un contratto con la May-Film, scrivendo un serial in quattro parti, Der Silberkönig (Il re d'argento), e la prima sceneggiatura in collaborazione con Thea von Harbou, Das wandernde Bild (La statua errante, 1920), titolo provvisorio Madonna im Schnee (La madonna della neve), di cui è anche regista.
Nel 1921 diresse Destino, talvolta chiamato anche Le tre luci (Der mude Tod), e l'anno dopo Il dottor Mabuse (1922). Un grande successo fu I Nibelunghi, diviso in due parti (La morte di Sigfrido e La vendetta di Crimilde), nel quale il regista espresse il suo senso del colossale in una cornice stilizzata con un ardito gioco di luci e ombre. La figura dell'eroe che spicca sulla massa ritorna nell'avveniristico Metropolis (1926), anch'esso geometricamente composto. Dopo alcune opere minori (L'inafferrabile, 1928; Una donna sulla luna, 1929), Lang realizzò nel 1931 il suo capolavoro con M, agghiacciante rievocazione del Mostro di Dusseldorf, mentre nel 1932 girò un'edizione sonora del Dottor Mabuse (Il testamento del dottor Mabuse).
Lasciata la Germania per l'avvento del Nazismo e separatosi dalla moglie, Lang dapprima andò in Francia, dove diresse La leggenda di Lilion (1933), poi si stabilì a Hollywood. Qui realizzò nel 1936 la forte e tragica vicenda di Furia, affrontando il problema del linciaggio, e nel 1937 diresse un film esasperato e patetico di genere gangster: Sono innocente. In seguito diresse mediocri western (Il vendicatore di Jess il bandito, Fred il ribelle) finchè nel 1943 colse nuovamente una grande affermazione con Anche i boia muoiono, sul tema della resistenza cecoslovacca contro i nazisti, a cui seguirono La donna del ritratto (1944), La strada scarlatta (1945), Maschere e pugnali (1946), Dietro la porta chiusa (1948), Il grande caldo (1953).
Negli anni Cinquanta girò l'avventuroso Il covo dei contrabbandieri ( 1955 ) e l'anno dopo due drammi carichi di annotazioni sulla società americana (Mentre la città dorme e L'alibi era perfetto). Ormai relegato ai margini del sistema hollywoodiano, dovette far ritorno in Europa, dove trovò modo di realizzare opere d'ambiente esotico (La tigre di Eschnapur e Il sepolcro indiano, nel 1958) e il suo ultimo film, rifacimento del suo capolavoro: Il diabolico Dottor Mabuse (1960).
Dopo essere apparso come attore ne Il disprezzo di Jean Luc Godard (1963), Lang si ritirò dall'attività, morendo a Los Angeles nel 1976.
AN English sportsman (Walter Pidgeon), dressed in the full gentleman-hunter uniform of corduroy jacket and puttees, moves silently through a dark Bavarian forest, a high-powered rifle in hand. He lies on the ground to line up his shot, and through his telescopic sight we see his target moving into the crosshairs: no less than Hitler, strutting on a balcony at his mountain retreat. Pidgeon squeezes the trigger, but no shot rings out; he is merely on a “sporting shoot,” to see if he can get within range of his difficult quarry, and his gun is empty.
The opening sequence of Fritz Lang’s “Man Hunt” is still powerful today; imagine how it must have struck the audience on June 13, 1941, when “Man Hunt” opened at the Roxy in Times Square. The United States was still officially a neutral country, reluctant to be drawn into the conflicts raging in Europe and Asia, and Pidgeon’s empty gun was, in a sense, ours as well. America had the power to intervene but not, for the moment, the will.
“Man Hunt,” based on the Geoffrey Household novel “Rogue Male,” was one of many interventionist films produced by the Hollywood studios before Pearl Harbor, but it may be the best of them: clean and concentrated, elegant and precise, pointed without being preachy. Much of its air of authority comes from Lang, who had been Germany’s leading filmmaker (“Metropolis,” “M”) before he left the country in 1934. Lang became a naturalized American citizen in 1939, the year in which the action of the film takes place, backdated to precede the invasion of Poland.
These are Nazis as observed by someone who knew them intimately. (Thea von Harbou, the wife Lang divorced and left behind, was a party member.) In fact the chief villain of “Man Hunt,” a Gestapo officer who calls himself Major Quive-Smith (George Sanders), wears Lang’s trademark monocle.
Lang was also known for using his own hands for close-up shots, and the finger on the trigger of Pidgeon’s gun may well have been his own. The sequence continues as Pidgeon’s character, a British big-game hunter named Capt. Alan Thorndike, has second thoughts and reaches for a bullet to place in the chamber. But it is too late: before he can fire, a guard sees him and tackles him. Thorndike awakes in the custody of Quive-Smith, who threatens to torture him unless he falsely confesses to being an assassin sent by the British government. He escapes and, with the help of a plucky cabin boy (Roddy McDowall) aboard a Danish freighter, makes his way back to London, followed by Quive-Smith and his murderous flunkies.
“Man Hunt” was originally meant as a project for John Ford, and the screenplay is by Ford’s regular collaborator, Dudley Nichols. But Lang folds the film entirely within his own personality. All of the distinctive features of Lang’s universe are present: the Gestapo agents (led by a cadaverous figure out of an Expressionist film, played by John Carradine) have infiltrated all levels of British society, just like the criminal operatives of Lang’s “Dr. Mabuse, the Gambler” (1922); key scenes take place in subterranean spaces (the London Underground, a cave in Dorset); the love interest is provided by a woman of easy virtue (Joan Bennett, in the first of four films with Lang, as a Cockney streetwalker who helps Thorndike escape).
As propaganda “Man Hunt” is a movie of undisguised practical aims. During a confrontation in Quive-Smith’s office the German contemptuously tells his captive, “You’re symbolic of the English race.” Thorndike answers, “I’m beginning to think that you’re symbolic of yours!” — one of the lines that apparently roused the fury of Hollywood’s self-censorship board, the Production Code Administration, which objected to the picture’s lack of “balance.” (The administration also insisted that a sewing machine be placed in Bennett’s apartment to suggest that this young woman of suspiciously independent means was in fact a seamstress.) As agitprop the film could not be more effective: during its climax Thorndike finds a way to continue his stalking under more official circumstances, and the audience yearns to go along with him.
And yet, seen again in this excellent restoration from 20th Century Fox Home Entertainment, “Man Hunt” has the timeless quality of a work of pure imagination. Each image contains what the German critic Frieda Grafe called “the hidden geometry” of Lang’s work: that mysterious tendency of shots to resolve themselves into intersecting planes (the banked floors that seem to be rising to meet lowered ceilings), the crisscrossing lines of force traced by streets and the angles of buildings, the circles and squares and triangles that emerge from the décor and seem to dominate the tiny human figures. One of the film’s most prominent characters is an inanimate object, a brooch in the shape of an arrow that passes from Pidgeon to Bennett to Sanders and back to Pidgeon again.
Lang’s films are often said to center on questions of fate and predetermination, as if his characters were locked within eternally returning patterns of action, cycles of revenge foremost among them (“Fury,” “Rancho Notorious,” “The Big Heat”). But this is a fate without supernatural origin: the only gods in Lang’s universe are the puny, self-proclaimed ones, like Dr. Mabuse, whose own destiny is to be brought down.
Perhaps the enduring fascination of Lang’s work lies in the way he evokes these powerful, impersonal forces without ever locating them in something as recognizable as religion or politics; they seem to inhabit the frame already, embodied in the unswerving line of his tracking shots and the giant fields of brightness and shadow created by his lighting effects. Like a less larcenous version of the Victorian ghost photographers, he knows how to take pictures of things that aren’t there. (Fox Home Video, $14.98, not rated.)
Da The New York Times, 17 maggio 2009
Una vita che fu un romanzo quella di Friedrich Lang, suddito dell'impero austroungarico nato a Vienna il 5 dicembre 1890. Giovane pittore di un certo talento, con l'Austria nel cuore e Parigi negli occhi e nella mente. Le prime avanguardie e i timidi avvicinamenti al cinema. Si ricorderà, poi, di Rocambole e soprattutto dei Fantômas di Feuillade, che scuote la Ville Lumière dalle fondamenta. È un'epoca tutto sommato eroica, dove si è artisti anche e soprattutto se si passa all'azione. Lang si arruola e finisce in prima linea, in mezzo alle guerre di trincea del '15-'18. Combatte ed è ferito, promosso tenente comincia a portare il monocolo sulla sinistra. Poi il cinema e la Germania. Nel 1920 diventa cittadino tedesco, pienamente inserito nel tessuto culturale di una nazione in stato di profondissima crisi, ma anche agitata da impensabili fermenti. Conosce Thea von Harbou, ex moglie dell'attore Rudolf Klein-Rogge, che poi sarà Mabuse. Tra loro la passione è travolgente, feroce. La fidanzata di Fritz, Lisa Rosenthal, li scopre nell'alcova, va nell'altra stanza e si spara un colpo. Dopo la tragedia, i due amanti finiscono anche in tribunale. Ma la coppia furoreggia. Hanno talento e spregiudicatezza: lei scrive e lui inventa. Le danze si aprono con Destino (1921), coltissima incursione romantica nelle peripezie di una fanciulla che stringe un patto con la Morte per salvare l'amato. Lang sfodera un gusto immaginifico eccezionale, e riesce a non rendere ridondanti i massicci rimandi a Grünewald. Il film è un successo. Douglas Fairbanks lo distribuisce negli Stati Uniti e invita Lang a New York. Al cospetto di Manhattan, si apre un universo.
Il dottor Mabuse (1922) alza il livello di complessità anche simbolica. Il mostro, il diabolico dottore trasformista, è non solo incarnazione del male assoluto quale sta per abbattersi sulla Germania e il mondo intero, ma anche dell'artista. Lo stesso che "passa all'azione" perché preso da delirio di onnipotenza. Autocritica o inconsapevole compiacimento? Certo Lang resta figura ambigua, che dà forma sublime ai fantasmi peggiori, a volte esaltandoli. I Nibelunghi (1924), capolavoro wagneriano, viene letto come trionfo del pangermanesimo e della cultura nordica; Metropolis (1927), ancorché visivamente all'avanguardia, tanto che ancora oggi l'orizzonte fantascientifico vive di rendita, rappresenta l'ideale ribalta per l'ancor timido outing di Thea, pronta ad aderire convinta al nazionalsocialismo. Sono anni in cui lo Sturm und Drang non è (più) solo artificio letterario, ma esperienza, stravolgimento di destini, ritorsione della Storia. Lang intravede le crepe del furore nazionalista dal quale egli stesso è stato travolto. Il paese si prepara all'avvento del Reich ma nel frattempo è insicuro, fragile, turbato. Le inquietudini, non più trasfigurate come nell'Espressionismo, impongono un ritorno alla quotidianità e al realismo. Da qui M, il mostro di Düsseldorf che recupera la grandezza formale e visiva della tradizione innestandola però nelle angosce della vita cittadina. E con addirittura un fatto di cronaca a fare da punto di partenza. Con Il testamento del dottor Mabuse (1933) matura la rottura con un sistema di valori. Lang, ebreo oltretutto, prende posizione, e Thea non se ne accorge. Mabuse parla di Hitler e come Hitler. Chi capisce di cinema e mangia la foglia è Goebbels, che proibisce la distribuzione del film. Tira una brutta aria; il regista, dopo un colloquio con il potente ministro della Propaganda che gli promettendogli mari e monti e intanto scalda i forni di Dachau, lascia il paese senza fare neanche le valigie. Prima Parigi, poi Los Angeles, ospite del produttore David O. Selznick.
Una nuova vita. E subito un nuovo film, Furia (1936), dove tornano alcuni dei motivi fortemente espressi in M, in particolare il conflitto tra colpa e innocenza, nonché le responsabilità del "contesto" capace di trasformare ogni uomo in assassino. Nessuno ha mai notato come la provincia americana di Furia sia ambigua e pericolosa quanto quella francese del Corvo di Clouzot... Intensi gli anni americani, che riservano film eccellenti: La donna del ritratto (1944), Maschere e pugnali (1947), Il grande caldo (1953)... Lang scopre nel noir un genere congeniale alle proprie ossessioni tematiche e visive, ma è indimenticabile il suo perverso western Rancho Notorius, con Marlene Dietrich. Il cerchio si chiude nel 1960, con il ritorno al suo personaggio più celebre, il diabolico dottor Mabuse, intriso di un pessimismo attraverso il quale si contempla la corruzione della nostra epoca.
Da Film Tv, 25 luglio 2006
Il discorso che si dovrebbe fare sul regista Fritz Lang è un discorso lungo, che partirebbe dall’angoscioso dopoguerra tedesco del feroce disegnatore Grosz e degli «Elmetti d’acciaio» e giungerebbe sino ai lidi di California dove, fuggendo Hitler, il razzismo e i conflitti stolti del pantano europeo, Fritz Lang è arrivato negli anni in cui l’ex-imbianchino di Vienna stava consolidando, con astuzia e con metodo, il suo potere.
Qualcuno ha definito la Germania la patria dell’angoscia. Dal ‘700 almeno in avanti, suicidi, passioni, romanticismo esaltato, ritorno alla natura, nudismo e altre esasperate conclusioni sono nate dall’anima tedesca, che ad un certo punto è giunta a scambiare la terra, che è un valore immobile, con il dinamico sangue, che è un valore che cammina. Sia lecito a uno che guardò Fritz Lang con qualche sospetto al tempo de I Nibelunghi e di Metropolis, ma che sussultò poi sulla sua sedia di spettatore, pieno di entusiasmo al tempo de Il dottor Mabuse e di M, di accettare il Lang hollywoodiano con un’attenzione più aperta e convinta di quanto avesse mai accettato il Lang europeo.
In Furia Lang affrontò con occhi occidentali un fenomeno tipicamente americano, che un altro europeo, il Siegfried. aveva studiato nel suo classico libro sulla America del Nord, circoscrivendolo e spiegandolo nelle sue cause e ragioni: soltanto uno che fosse distaccato, uno che, per così dire, guardasse le cose con l’occhio scientifico dell’entomologo, o con quello, curioso e disincantato, del postero, poteva cogliere un male segreto, un bubbone vergognoso, con così esatto rigore.
Quando i conformisti che regnano a Hollywood hanno voluto avvolgere di nebbie fumogene il talento di Lang gli hanno reso probabilmente un servizio. Lang, che è un talento ironico, è arrivato addirittura ad un giuoco di busso-lotti per confondere le carte in tavola nel film La donna del ritratto. Si tratta di un universitario sui quarant’anni, cui una vacanza coniugale permette una sorta di sogno amoroso. Il sogno sembra diventare realtà: una bellissima donna, vagheggiata attraverso un ritratto esposto in vetrina, si fa invito carezzevole e concreto. Il quarantenne, timido ed entusiasta, la segue nell’appartamento che in America era caratteristico dieci anni fa delle mantenute di classe, dipinto con quel bianco gessoso con cui son dipinti da noi i carri funebri dei bambini. Arri col i che paga, un Otello demente: perdifendere la sua il professore è costretto ad ucciderlo. Con la complicità quasiamorosa della donna viene trasportato altrove il cadavere; ma si presenta un ricattatore; giorni di angoscia; poi il ricattatore viene ucciso, per altre ragioni, dalla polizia. Si aprono le porte della felicità e dell’amore; la donna del ritratto è ora tanto più cara perché l’attraente complicità del peccato l’ha resa più vicina. Ma il professore si sveglia ai suo club, perché non è stato altro che un sogno.
Mettete in mano ad un altro regista un fatto di questo genere e ne verrà fuori qualcosa di una volgarità ripugnante. Fritz Lang ne ha ricavato un modello di racconto cinematografico. È l’America amara che si ripropone a noi con lo stesso accento che essa ha in Poe, in Hawthorne, in Melville: è un deserto spirituale, è un desiderio di libere gioie che la tradizione puritana inibisce ai suoi figli. Frita Lang, luterano e non calvinista, ha rotto per un momento il cerchio, aiutato da Joan Bennett, che è qui meglio di una brava attrice, è la stessa eroina del racconto, e da Edward G. Robinson, che, sotto le mani di un regista esperto, ritrova quelle doti di misura e di introspezione che lo rendono il migliore caratterista dell’America cinematografica.
Per Robinson, grande attore, ma come tutti quelli della sua classe istrionica portato a strafare, si tratta di un felice incontro: sono due europei lui e Lang; pur non spaesati in America, tuttavia hanno coscienza della loro nobiltà ereditaria, di tutto quel fardello di passioni, di memorie, di sedimenti ancestrali che gli emigranti portano con sé nel povero zaino che hanno sulle spalle, nella leggera polvere che sulle scarpe rivela la fatica di un lungo cammino.
Anche i boia muoiono invece fa caso a sé. È un omaggio indiretto che il tedesco Lang fa all’Europa libera che ha lottato contro quelli del suo sangue. È il racconto dì come i tedeschi non riuscirono, a Praga, a vendicare l’uccisione del «Reichsprotektor» della Boemia, Heydrich, feroce aguzzino di quell’infelice nazione... Il suo dovere di tedesco non nazista, Lang l’ha compiuto, con molta carità di patria, in questo modo: riversando l’odio degli oppressi non contro l’eterna Germania, che in un secolo ha invaso cinque volte l’Europa, ma contro il furore ideologico e la pazzia razzistiCa degli hitleriani. I tedeschi sono, nel film, detestabili; ma sono sempre tedeschi della Gestapo e delle ss, mai della Wehrmacht.
Il film, intensissimo, che non concede respiro agli spettatori, è un puro raccontò d’avventura e di intreccio, interpretato da attori di scarsa risonanza commerciale ma bravissimi. Li accompagna nell’azione, nel pericolo, nell’amore, nella paura e nella morte l’inconfondibile luce radente dei film di Fritz Lang, tagliata dall’alto al basso, luce che viene schiacciata per terra come una palla da tennis.
È un film, questo, che ci ha fatto tornare ai bei tempi in cui il cinema era divertimento, spettacolo, puro racconto: in cui ci donava quella qualità di rapimento come soltanto Salgari riuscì a offrirci quando eravamo ragazzi.
Una delle inflessibili leggi di Hollywood, legge che non venne discussa neppure per Greta Garbo, dice che ciò che tonta è l’ultimo film. Difficilmente potrete ottenere la direzione o una parte in una pellicola importante se è apparsa un fiasco la vostra ultima prova. Regista che ha un preciso, illustre posto in tutte le storie del cinema, autore di alcune opere indimenticabili (Il dottor Mabuse, Metro polis, Furia), Fritz Lang è ora addetto ai film poco costosi, privi di attori di grido. Il cinema ha delle servitù molto precise: se si ha poco tempo e pochi denari, se gli interpreti non sono adatti, se la sceneggiatura non è a punto, il miglior regista fa fiasco. Ora, malgrado i pochi mezzi, Fritz Lang ha diretto una pellicola, Quando la città dorme, difettosa ma molto più viva di tanta celluloide a colori.
Come molti attraenti film di Hollywood, Quando la città dorme è su due piani: parte come un racconto di avventura e di delitti, per poi indugiare in una rapida rappresentazione di un giornale americano, la cui «comare», cinica, avida, completamente priva di scrupoli, si adatta con leggerezza a tirare quattro paghe per il lesso.
Bisogna vedere con quale arte il vecchio maestro è riuscito a mostrarci con pochi tratti essenziali il rovescio di un mondo che appare superficialmente timorato per bene, e invece è putrido, viscido come un nido di serpi. Peccato che alla fantasia gotica di Metropolis, alla straordinaria intuizione del «fantastico sociale» di M, alla ribellione di Furia, sia stata sostituita un’amarezza senza speranza, una amarezza che rasenta il cinismo. Se il caso non fosse isolato, o almeno non troppo comune, non ci sarebbe molto da attendersi da una civiltà che lascia cadere, schiava del più miope mercantilismo, maestri come Lang. Forse il carattere dell’artista tedesco entra per qualcosa in una vicenda piuttosto triste. La sapienza della composizione, il gusto dei particolari, compensano la freddezza e la «ingegneria» dell’insieme. Quasi a vendicarsi della scarsa fiducia del produttore, che non ha voluto affidargli attori da cassetta, il maestro tedesco s’è rifatto adunando una schiera di interpreti poco rilucenti, ma di primissimo ordine. Se come venustà Rhonda Fleming vale molte delle sue colleghe più note, George Sanders, Thomas Mitchell, Ida Lupino e Dana Andrews appaiono come la verità stessa. Bastano del resto alcuni punti: l’assassino che assiste sgomento alle accuse contro di lui fatte da Andrews sullo schermo della TV, la scena «coniugale» tra Rhonda Fieming e lo sciocco e ambizioso amante, il riconoscimento dell’adultera da parte di Ida Lupino, che si conquista l’ambito posto di «columnist», per ammirare l’ingegno di un uomo di cinema che gli anni, le tribolazioni, le varie servitù non sono riusciti- a piegare.
A quelli che si irritano per l’ammirazione che i giovani cinéphiles portano al cinema americano, bisogna far notare che i migliori film hollywoodiani sono a volte firmati dall’inglese Hitchcock, dal greco Kazan, dal danese Sirk, dall’ungherese Benedek, dall’italiano Capra, dal russo Milestone, dai viennesi Preminger, Ulmer, Zinneman, Wilder, Sternberg e Fritz Lang.
Come Quai des brumes (Il porto delle nebbie, 1938) e molti dei film d’anteguerra, You only live once (Sono innocente) girato nel 1936, si basa sul tema del destino e della fatalità. L’azione comincia e vediamo Henry Fonda che esce di prigione, deciso a rigar dritto dopo due o tre peccatucci del tipo furto d’auto. Sposa la segretaria del suo avvocato il quale gli ha anche procurato un lavoro come camionista.
You only live once è il racconto di un ingranaggio: tutto sembra andare bene ma in realtà tutto va male e se Fonda, contro la sua volontà, “rifà il giochetto”, se “ci ricasca”, non è perché “chi ruba un limone ruba un milione”, ma piuttosto perché la società ha deciso che chi ruba un limone deve rubare un milione. In altre parole, ostinandosi a voler vedere in Fonda un ex-ergastolano, finisce per rispedirlo in galera cacciandolo prima da un albergo, poi dal suo lavoro. Accusato di una rapina che non ha commesso, condannato alla sedia elettrica, evade proprio quando la sua innocenza è finalmente riconosciuta; uccide il prete del carcere che gli sbarra la via e con la sua donna fugge nella foresta dove tutti e due moriranno uccisi dai poliziotti.
Si vede che questo film è nello stesso tempo ribelle e generoso, costruito su questo principio: gli onesti sono dei farabutti. In effetti, è il primo dovere di un artista dimostrare la bellezza di ciò che si riteneva laido e viceversa. Fritz Lang lungo tutto You only live once sottolinea la bassezza dei personaggi “sociali” e la nobiltà della coppia “asociale”. Non avendo più denaro, Eddie e Joan faranno il pieno di benzina senza pagare, sotto la minaccia di un revolver. Subito dopo la loro fuga, il benzinaio telefona alla polizia facendo credere di essere stato derubato di tutto l’incasso. Quando con la loro vettura forzano il primo blocco di polizia, un proiettore indirizzato a Joan colpisce invece una scatola di latte condensato: il latte è la purezza e la loro purezza protegge per il momento i nostri eroi.
Joan dà alla luce nel bosco un bambino al quale non pensano neppure di dare un nome: “Lo chiamiamo “baby”“. Infatti lo stato civile è un’invenzione della società.
Certo tutto questo non è esente da romanticismo, ma se il canovaccio di You only live once è invecchiato, il film non fa una grinza grazie alla sua essenzialità, al suo rigore e anche alla sincerità della sua violenza, ancor oggi sorprendente.
Da sempre Fritz Lang regola i suoi conti con la società. I suoi personaggi principali ne sono sempre al di fuori, ai lati. Il protagonista di M (M. Il mostro di Düsseldorf, 1931) era già presentato come una vittima. Lang nel 1933 abbandona bruscamente la Germania di fronte al nazismo; da allora tutta la sua opera, western e thrilling compresi, risentirà di questa spaccatura, e, al tema della persecuzione, verrà ad aggiungersi quello della vendetta. Molti dei film hollywoodiani di Fritz Lang si baseranno su questo schema: un uomo è impegnato in una lotta di interesse generale come poliziotto, intellettuale, soldato o partigiano; la morte di qualcuno che gli è vicino, una donna amata, un bambino, rende il conflitto individuale, affettivo, e la causa si sposta in secondo piano lasciando il posto alla vendetta personale: Man hunt (Duello mortale, 1941), Cloak and dagger (Maschere e pugnali, 1946), Rancho Notorius (id., 1952), The big heat (Il grande caldo, 1953).
Fritz Lang è ossessionato dal linciaggio, la giustizia sommaria, e, avendo il suo pessimismo preso sempre più terreno, la sua opera è diventata in questi ultimi anni la più amara della storia del cinema. Di qui l’insuccesso dei suoi ultimi film. Ci fu l’eroe-vittima, poi l’eroe-vendicatore, ora non c’è che l’eroe marchiato dalla colpa. Non ci sono più personaggi simpatici nell’ultimo Lang: While the city sleeps (Mentre la città dorme, 1956) Beyond a reasonable doubt (L’alibi era perfetto, 1956): sono tutti astuti, arrivisti, depravati per i quali la vita è un campo di combattimento.
In Beyond a reasonable doubt, Fritz Lang sembra schierarsi a favore del mantenimento della pena di morte: Dana Andrews, giornalista, si lascia accusare di un delitto per portare a termine una campagna giornalistica contro la pena di morte. Accumula su di sé tutti gli indizi e si lascia condannare alla pena capitale. La vigilia dell’esecuzione, viene riconosciuto innocente. È liberato, ma parlando con la fidanzata si tradisce e quella capisce che lui aveva effettivamente ucciso una ragazza. L’idea dell’inchiesta giornalistica gli era venuta per sfuggire alla pena e per imbrogliare la pista. La sua fidanzata non esita allora a denunciarlo. Si capisce che nel suo insieme la critica si sia indignata per una sceneggiatura così fuori dell’ordinario, che tuttavia corrisponde esattamente alle preoccupazioni di un uomo che gli avvenimenti mondiali, la guerra, il nazismo, la deportazione, il maccartismo hanno rinforzato nella sua rivolta, che si è trasformata in un immenso disgusto.
Attraverso le storie stravaganti che gli vengono proposte e che lui migliora non nel senso di una più sottile psicologia o di una più grande verosimiglianza, ma facendovi entrare tutte le sue ossessioni, Fritz Lang si esprime liberamente e su di lui, su chi è, su cosa pensa, dopo aver visto While the city sleeps che è un film su ordinazione, ne so subito di più di quanto non sappia di René Clément all’uscita da Gervaise (1956), film riuscito e di qualità ma nel quale lo scenografo, la vedette o i dialoghi hanno la stessa importanza del regista.
While the city sleeps ci mostra vita e miracoli di una dozzina di persone che gravitano attorno a un grande giornale. Morto improvvisamente il direttore, suo figlio, uno snob degenerato e incompetente, offre il posto a quello dei tre candidati che scoprirà uno strangolatore di giovani donne che Fritz Lang, che in questa occasione rifiuta l’enigma poliziesco, ci ha mostrato in piena attività ancor prima dei titoli di testa. Ciò che più colpisce in questo film è lo sguardo di Lang sui suoi personaggi. Uno sguardo di una durezza estrema: tutti sono condannati. Niente di meno caramelloso, di meno sentimentale di una scena d’amore diretta da Fritz Lang.
Dana Andrews è qui un giornalista di valore, l’unico che si rifiuta di partecipare alla poco brillante competizione; basta questo a renderlo migliore degli altri? No di certo. Guardate i rapporti con la sua fidanzata, Sally Forest, vergine e desiderosa di trovarsi un marito con una buona posizione. Dana Andrews fa l’affare, ma ha più voglia di diventare il suo amante che suo marito. Di qui il suo comportamento tutto giocato sul ricatto sessuale. Nelle sue carezze, Andrews va ogni volta più avanti. Da parte sua Sally si lascia toccare le gambe perché non bisogna scoraggiarlo completamente, ma per il resto si vedrà dopo il matrimonio. Finalmente Dana Andrews cederà, non senza aver prima intensamente flirtato con Ida Lupino, cronista mondana del giornale donna libera, lei che non aspira che a migliorare il suo tenore di vita. Quanto alla moglie del padrone fa credere di essere in visita da sua madre ogni volta che va dal suo amante. Nel corso di una scena di massaggio, deve mentire a suo marito, al punto che per parlargli mette degli occhiali neri.
Fritz Lang moltiplica le notazioni feroci sui suoi personaggi non a fini satirici o parodisticì ma per pessimismo. Di tutti i cineasti tedeschi che nel 1932 fuggirono il nazismo, è quello che non si “rimetterà” più, tant’è vero che l’America, che pure lo ha accolto, sembra ripugnargli.
Per Fritz Lang, non c e alcun dubbio che l’uomo nasce malvagio e l’orribile tristezza che emana dai suoi film ci fa pensare a Nuit et brouillard di Alain Resnais: “Ecco che cosa mi resta per immaginare questa notte interrotta da appelli, controlli, pidocchi, notte che batte i denti. Bisogna dormire subito. Risveglio a colpi di bastone, ci si spinge, si cerca ciò che ci è stato rubato”. Resnais ci dice ancora: “Si arriva persino a organizzarsi politicamente, a sottrarre ai diritti elementari, il controllo interno della vita del campo”. È il nostro più grande scrittore, e comunque il nostro unico moralista, proprio Jean Genet, che saprà spiegare meglio questa rivincita del “diritto elementare” sul galantuomo in una conferenza proibita alla radio, Il ragazzo criminale: “I giornali mostrano ancora fotografie di cadaveri ammucchiati nei silos o disseminati nelle pianure impigliati tra i fili spinati, mostrano unghie strappate, pelli tatuate, usate per abat-Jour: sono i crimini hitleriani. Ma nessuno si è accorto che da sempre nelle carceri minorili, nelle prigioni francesi carnefici martirizzato ragazzi e uomini. Poco importa sapere se gli uni sono innocenti e gli altri colpevoli agli occhi di una giustizia sovrumana o soltanto umana. Agli occhi dei tedeschi i francesi erano colpevoli. Questa brava gente, che è oggi un nome dorato su una lapide, applaudiva quando ci vedeva passare con le manette ai polsi e uno sbirro ci riempiva di botte”.
È esattamente quest’idea – nessuno può giudicare nessuno, tutti sono colpevoli, tutti sono vittime – che Fritz Lang illustra con genio ostinato nella sua opera nell’ambito della quale Yoa only live once occupa un posto centrale.
Lo stile di Fritz Lang? In una sola parola: inesorabile. Ogni inquadratura, ogni movimento di macchina, ogni immagine, ogni spostamento d’attore, ogni gesto ha qualcosa di decisivo e di inimitabile. Un esempio? Questa inquadratura di You only live once in cui Fonda in prigione domanda alla sua donna dietro il vetro di uno spioncino di procurargli una pistola. Smorzando la voce, mimando esageratamente l’articolazione dei suoni, serrando le mascelle, Fonda non ci lascia intendere che le consonanti della frase: “Get me a gun”; si percepiscono solamente i suoni delle due g e della i e tutto con uno sguardo di un’intensità straordinaria.
Bisogna dunque vedere o rivedere You only live once e a maggior ragione gli ultimi film di Fritz Lang alla luce di ciò, perché quest’uomo non è solo un artista geniale, ma anche il più isolato e incompreso dei cineasti contemporanei.
Da I film della mia vita, Milano, Edizioni CDE, 1975
Sulla sponda della letteratura e della cultura popolare si collocò subito, convinto, questo elegante pittore, figlio di un architetto, che accostò il cinema nel 1919 e diresse, due anni dopo, una storia di criminali internazionali (I ragni). Nel 1922, dopo un esperimento simbolico e inquietante (Destino), «prende in consegna» quel criminale assoluto -Il dottor Mabuse - che gli rimarrà appiccicato addosso e che, in fondo, bene caratterizza il suo stile: intrigo, lucidità, durezza, miseria umana, melodramma. I Nibelunghi in due parti lo gettano, felice, in braccio alla tradizione germanica (1924). Metropolis (1927), su soggetto della moglie Thea von Harbou, lo cattura invece con il fascino - più popolare e fastoso ancora della fantascienza: una impresa gigantesca, sgraziata e anche polverosa.
Un altro criminale è al centro della geometrica macchina narrativa di M, il mostro di Diisseldorf (1931), dove la cupezza del melodramma è schiarita malignamente dall'ironia. Torna il criminale assoluto, passando dal muto al sonoro (Il testamento del dottor Mabuse,1933) e si affaccia sulla scena il nazismo: Lang rifiuta ogni compromesso, emigra a Parigi, poi a Hollywood. Con Furia (1936), un uomo ingiustamente accusato del medesimo delitto di cui è stato accusato il pavido protagonista di M, si apre il periodo americano, ma Lang non cambia. Cambiano gli ambienti e i temi (Sono innocente!, 1937, è la storia tragica di un ladruncolo incolpato di un crimine che non ha commesso, nella provincia americana; Anche i boia muoiono, 1943, narra un episodio della resistenza cèca al nazismo; La donna del ritratto, 1944, visualizza l'incubo di un timido professore di psicologia; Dietro la porta chiusa, 1948, è un'avventura sinistra fra melodramma e follia in una misteriosa villa messicana; La bestia umana, 1954, viene da Zola come L'angelo del male di Jean Renoir). Eguali rimangono le ossessioni (la colpa, il male, la paura dell'inconoscibile) e lo stile insinuante, drastico di tanto in tanto, morboso, magari soffocante, di un regista che vuole sempre e comunque impressionare. Come usa la cultura popolare.
Nessuno stupore se, rientrato in Germania dopo il viaggio in India, Lang cede alle lusinghe dell'esotismo, che di tutta la cultura popolare è lo specchio più attraente -La tigre du Eschnapur, Il sepolcro indiano, 1959 - e rispolvera il venerando, ormai incredibile, criminale assoluto in Il diabolico dottor Mabuse (1960). Prima di ritirarsi a Beverly Hills interpreta coscienziosamente se stesso nel film di Godard II disprezzo, 1963).
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Nato a Vienna, Lang è stato nel primo dopoguerra tedesco uno dei registi che ha saputo creare una serie di film, densi di atmosfere cupe e terrorifiche. Giovanissimo, abbandonò l’Austria, deciso a girare il mondo come pittore ambulante. Scoppiata la prima guerra mondiale, fu ferito in combattimento. Durante la convalescenza scrisse racconti e soggetti. I suoi primi lavori di carattere cinematografico furono infatti alcune sceneggiature realizzate per conto del produttore Erik Pommer. Nel 118 Lang ebbe occasione di lavorare con la scrittrice Thea von Harbou che, divenutane la moglie, collaborò attivamente alle sceneggiature dei suoi film. L’incontro con la scrittrice rappresenterà per il giovane regista una svolta radicale. Assidua collaboratrice in quegli stessi anni di Murnau, la Harbou contribuì a definire infatti il mondo del regista. Come osserva giustamente Sadoul (Storia del cinema) il vero esordio di Lang avvenne neL1922 con Der müde Tod, un’opera che, attraverso le drammatiche avventure di una giovane donna desiderosa di strappare alla morte il proprio fidanzato, tendeva a sottolineare la natura inesorabile del Destino. Col Dottor Mabuse, 1921-1922, Lang doveva creare una storia allucinante su di un superdelinquente pazzoide. Nel film Lang introdusse elementi raffinati - la pazzia, l’ipnosi, la scienza medica, le trasformazioni del dottore-criminale. «La sequenza della pazzia del conte Todd, uno dei protagonisti, che, ossessionato dalle visioni della camera buia, si suicida, era nello stile dei film fantastici e raccapriccianti di quel tempo» (Rudolf Arnheim, in «Cinema»‚ n. 28, 1949). Mabuse fu «un’opera glaciale, ed insieme crudele, uno dei prodotti più singolari e velenosi della costante vocazione tedesca per il disumano, realizzato attraverso il diabolico» (R. Paolella, Storia del cinema muto, Napoli, 1956).
Dopo Mabuse la parabola tedesca di Lang toccherà il suo vertice con M, in cui l’individualità del regista tesa a ricercare un senso del terrore raggiungerà veramente i suoi migliori risultati. Ispirato ai delitti del mostro di Düsseldorf, un maniaco sessuale, il film fu dominato dalla maschera ossessionante dell’interprete del mostro, Peter Lorre, e fu il primo film sonoro del regista, che seppe usare di questo nuovo mezzo in modo mirabile. Valendosi del montaggio e soprattutto del sonoro, egli riuscì infatti a creare un’atmosfera di orrore represso, ad esempio nella sequenza in cui una madre aspetta a casa la propria bambina, che invece è stata uccisa dal maniaco. Dopo ore di attesa essa esce sul pianerottolo e urla il nome della sua Elsie. Mentre risuona « Elsie! »‚ passano sullo schermo le seguenti inquadrature: la sala vuota, l’abbaino vuoto, il piatto intatto di Elsie sul tavolo della cucina, un lontano spiazzo d’erba dove giace il cadaverino, un pallone impigliato nei fili di un palo dell’elettricità (lo stesso pallone che l’assassino ha comperato per invogliare la bambina a seguirlo). Il grido accompagna queste inquadrature, altrimenti slegate, fondendole in un cupo racconto.
L’addio di Lang al cinema tedesco avverrà nel 1933, dopo la realizzazione di un secondo Mabuse. Emigrato per ragioni politiche e razziali, egli si stabilì nel 1934 ad Hollywood. La fuga di Lang .dalla Germania coincise pure con la sua separazione dalla moglie, che fervente nazionalista e nazista continuò il proprio lavoro durante il regime hitleriano. Negli Stati Uniti Lang realizzò opere importanti assieme a molte altre puramente commerciali. Rientrato anni fa in Germania, vi realizzò un «dittico» basato su un soggetto, il cui esotismo spettacolare è sempre stato tradizionalmente caro al cinema tedesco: Der Tiger von Eschnapur, 1959, e Das indische Grabmal, 1959 (La tigre di Eschnapur; Il Sepolcro indiano). Più recentemente ancora ha ripresi il personaggio del dottor Mabuse in Die Tausent Augen des Doktor Mabuse (Il diabolico dottor Mabuse). Su di lui hanno scritto Lotte H. Eisner in Lo schermo demoniaco; e Leonardo Autera ii Parabola di Fritz Lang, in «Cinema»‚ 1954.