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Rassegna stampa di Francesco Rosi

Francesco Rosi è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 15 novembre 1922 a Napoli (Italia) ed è morto il 10 gennaio 2015 all'età di 92 anni a Roma (Italia).

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Dopo una breve esperienza radiofonica e teatrale si accostò al cinema, scrivendo sceneggiature e lavorando con alcuni dei maggiori registi dell'epoca come Zampa in Processo alla città (1952), Antonioni ne I vinti (1953) e Visconti in La terra trema (1950), Bellissima (1952), Senso (1954). In queste collaborazioni sviluppò un forte interesse per la realtà e la vita politica e sociale italiana, interesse che Io guiderà nella scelta di soggetti di impegno civile e politico. Nel 1950 portò a termine Camicie rosse, lasciato incompiuto da G. Alessandrini, per esordire alla regia nel 1956, con La sfida, in cui affrontava il tema della camorra nei mercati generali di Napoli. Il film era svolto con le tecniche proprie dei film gangster americani. Nel 1959 diresse I magliari amara testimonianza sul malcostume di certa emigrazione italiana in Germania. Con Salvatore Giuliano (1961), raggiunse la sua maturità artistica e riuscì a ritagliare uno spazio lirico all'interno di un apparentemente arido film-documento su una delle vicende più torbide della storia italiana del Novecento. Con Le mani sulla città (1963), cronaca-storia del neorealismo nella decisa denuncia della speculazione edilizia a Napoli, vinse il Leone d'oro al Festival di Venezia. Questo premio sancì la sua definitiva consacrazione come uno dei più rappresentativi e interessanti registi italiani, confermata anche dalle sue opere successive come Uomini contro (1970), manifesto antimilitarista tratto dal romanzo di Emilio Lussu. Dopo i meno convincenti Il momento della verità (1965) e C'era una volta... (1967), tornò al cinema politico con Il caso Mattei (1972), che sollevava interrogativi inquietanti sull'oscura fine del fondatore dell'ENI, Lucky Luciano (1973) e Cadaveri eccellenti (1976), tratto dal romanzo Il contesto di Leonardo Sciascia. Di matrice letteraria furono anche i film successivi: Cristo si è fermato a Eboli (1979) dal capolavoro di Carlo Levi, Tre fratelli (1981), il film-opera Carmen (1984), Cronaca di una morte annunciata (1987) da Gabriel García Márquez. Con Dimenticare Palermo (1990), riprese il filone che lo aveva reso celebre negli anni Settanta. Poco convincente è stata anche la sua trasposizione di La tregua (1997), dal celebre romanzo di Primo Levi.

FRANCESCO ROSI
Il Sole-24 Ore

Raccontare nei suoi aspetti reali ed evidenti il mio Paese, ma anche indagare attraverso i patti abbietti tra certe istituzioni corrotte dello Stato e il potere politico ed economico di una criminalità organizzata che è sempre più potente: è questo l'aspetto della realtà che ha voluto conoscere il mio modo di fare cinema. Ho sempre immaginato lo spettatore non come una figura passiva, ma come un interlocutore del film. Un individuo che può e deve andare al di là dei dubbi insinuati dal mio lavoro e formularne a sua volta dei nuovi. Questo è il cinema della realtà, il mio cinema, che pone delle domande più che dare delle risposte. Non ho mai girato pellicole a tesi. Sono state sempre aperte alla riflessione, alla discussione. Il mio è un cinema che ha al suo centro l'uomo, le sue passioni, le virtù e i vizi. Un modo perché gli uomini si conoscano e si capiscano meglio tra loro, perché i registi hanno in mano il più potente mezzo di comunicazione e conoscenza.

GIAN PIERO BRUNETTA

Nella fascia mediana, con frequenti sganciamenti verso l'attacco, si può ritrovare la più grossa concentrazione di autori: accanto agli esordienti, vi sono registi con alcuni titoli già realizzati e con una lunga esperienza di documentarismo o di aiuto regia. Ciò che distingue soprattutto questa fascia è il rapporto di maggiore integrazione e capacità contrattuale nei confronti della produzione. Mentre gli autori di cui si è finora parlato hanno tentato di difendere a oltranza la propria identità e il proprio mondo, anche a costo del silenzio e dell'emarginazione, i rappresentanti del gruppo seguente, dai contorni tematico-stilistici assai meno caratterizzati, assumono posizioni più elastiche nei riguardi della produzione. Per molti di costoro il modulo iniziale di gioco è quello neorealista, mentre le mosse successive si svolgono lungo assi e direttrici del campo assai più ristrette e prevedibili.
La maggior parte contribuisce a valorizzare il filone del cinema politico e d'impegno civile, che diventerà il fiore all'occhiello della produzione più illuminata a cavallo degli anni Sessanta e Settanta. Alcuni riescono - sempre sulla base del modulo neorealista - a inventare mosse di grande produttività a segnare, con la loro opera, alcuni momenti capitali della storia del cinema dell'ultimo trentennio. È il caso di Francesco Rosi, tipico rappresentante della generazione di mezzo, con una lunga esperienza alle spalle, che ha tutte le carte in regola per essere scelto come ideale guida di questa seconda fascia di registi e come uno degli autori dal percorso più alto coeso e coerente.
Tra i registi del dopoguerra Rosi si inserisce in una grande linea - in cui si collocano, a parere di chi scrive, anche Welles, Huston, Losey, Kubrick, Kurosawa - di autori per cui la vocazione realistica implica anche la capacità naturale di passaggio dal piano della realtà a quello del sogno, senza soluzioni di continuità. Fellini e Bergman fanno parte di un gruppo che si muove in direzione analoga, ma su percorsi paralleli.
Di fatto con I magliari termina la fase di formazione dell'opera di Rosi: come ha scritto Jean Gili, Salvatore Giuliano del 1961, terzo lungometraggio, inizia il periodo della maturità. Dopo il lungo apprendistato la maturazione registica è fulminea. Da questo momento il regista alza il tiro e mette allo scoperto le reali ambizioni stilistiche, tematiche e ideologiche. Di fronte a una vicenda per molti versi ancora oscura e irrisolta, Rosi procede, sul piano dei significati, a una indagine in profondità e, su quello dei significanti, alla decostruzione della struttura lineare del racconto. Il referente più facilmente identificabile è Quarto potere di Orson Welles. L'intenzione non è tanto quella di scolpire, a tutto tondo, la figura del bandito siciliano, riconfermandone il mito, sia pure in termini critici, quanto piuttosto di allargare lo sguardo dal caso esemplare al contesto che ne ha manovrato l'azione. Mediante una tecnica di narratage e un uso molto libero della macchina da presa (ora manovrata con violenza e promossa quindi a soggetto dell'azione, ora bloccata o appena mossa in lunghi e lenti movimenti di registrazione della violenza nelle cose), il regista mette a punto e collauda un prototipo stilistico-tematico destinato ad agire su tempi lunghi sul suo sistema espressivo. La tecnica di inchiesta parte in Salvatore Giuliano (come poi nel Caso Mattei, o in Lucky Luciano) dalla cronaca per allargarsi e accogliere nuove ipotesi interpretative. Il film vuole essere, prima di tutto, un saggio storiografico e politico in cui la passione civile si unisce a un lucido tentativo di riaprire un processo chiuso da tempo, avanzando dubbi legittimi e producendo nuovi testimoni e capi d'accusa.

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