La musica e il mistero del Paese sudamericano. L'impegno e l'indignazione per una «tv ridotta a bar» e per «la mancanza di una vera opposizione».
Ma la signora della canzone svela anche qualche altra passione. Insospettabile Fiorella Mannoia smanetta al computer «per capire questa assurda storia di Villari», mentre una gatta che le somiglia punta la prossima sedia da devastare. «Mi sta distruggendo la casa, ma sta troppo tempo da sola, è colpa mia. Sto in giro anche sei mesi l'anno». .
Può essere faticoso. «Ma è l'unica vita che so fare e quando sento attori e cantanti che si lamentano mi sembra un'offesa a chi lavora veramente. Siamo privilegiati: guadagniamo abbastanza da poter dire dei no. E, tra un lavoro e l'altro, abbiamo tempo per noi stessi. Due condizioni che per me rappresentano bene la definizione di libertà. Lamentarsi mi pare troppo. Il Brasile e gli artisti brasiliani sono stati un insegnamento anche per questo».
Anche. «Ho lavorato con i più grandi, da Caetano Veloso a Gilberto Gil e Djavan. Mai una storia, mai un problema. Mi hanno fatto capire che questo lavoro può essere vissuto con leggerezza. Perché prima o poi ci caschi, pensi di essere onnipotente. Colpa del successo, delle persone che ti stanno intorno: fai una battuta che non fa ridere e ridono tutti. Sei di cattivo umore e noti come le tue paturnie mettano in allarme la corte. S3, quella corte di cui si circondano molti miei colleghi può far male. Soprattutto se sei giovane. Ancora di più se non sei particolarmente forte. Perdi il senso della realtà, pensi che tutto il mondo si fermi ogni volta che parli e stai lì a tormentarti per una parola storta in un'intervïsta o per altre amenità».
A mezzogiorno e un quarto, Fiorella Mannoia, seduta sul divano di casa, col pretesto di un'intervista sulle passioni, il Brasile e la musica brasiliana soprattutto, ha già demolito il cliché della cantante impegnata (che interpreta solo pezzi composti per lei da cantautori impegnati) e sta parlando di autogrill: «Fanno parte della mia vita in tournée. Anzi sono una, delle cose che mi piacciono di più quando giriamo l'Italia per i concerti. Mi piacciono i viaggi in macchina di notte, quando siamo in una città abbastanza vicina a Roma da tornarci all'alba. Mi piacciono i panini, la rustichella sì, è sempre un classico, anche se ultimamente il bufalino insidia il primato. Mi piace il cornetto caldo alle quattro del mattino prima di entrare a Roma».
Roma. Ci è tornata qualche anno fa dopo una lunga pausa milanese.
«Lì stavo bene. Ma mi sembrava che qui stesse succedendo qualcosa e io me la stessi perdendo. Sono tornata a casa. Anche se poi vivo sempre con un piede a Bahia, in Brasile. Lì mi ha portato la musica, qualche anno fa. Ma poi mi hanno convinta a tornarci le persone, quel sincretismo religioso che rende unica una terra che non basterebbero cento viaggi per capirla. I riti del Candomblé, magici e tanto dolorosi. È un popolo che ha subito un feroce sterminio. Qui arrivavano gli schiavi dall'Africa per tutto il Sudamerica: ne hanno uccisi e torturati milioni. E non passa giorno che non emergano tracce di quel dolore».
Come si difende dalla sofferenza e dal senso di colpa dell'occidentale che va in vacanza in mezzo alla povertà?
«Non mi piace parlarne, ma cerco di rendermi utile. Basta solo volerlo, ci sono associazioni serie, alcune sono italiane, che lavorano per il recupero dei bambini e dei ragazzi di strada».
Questo impegno ha a che fare col titolo del suo ultimo disco, il movimento del dare?
«Anche. In un periodo in cui tutti tendono a chiudersi, a difendere quello che hanno per paura dell'altro, avevo voglia di esprimere una sensazione contraria. E poi dare può essere molto gratificante. Non c'è da aver paura».
Di questi tempi sembra difficile.
«Dipende. Adesso siamo in balìa della paura di perdere tutto, c'è la crisi economica, e chi sa quanti si stanno arricchendo grazie a questi Sali e scendi delle Borse mondiali. Quello che Antonio Albanese in un suo bellissimo spettacolo chiamava il ministero della Paura ha deciso così. Prima c'erano state la paura per il rumeno, la paura per gli zingari, la paura per gli sbarchi dei clandestini… Tutti timori umani e comprensibili: è normale che davanti al diverso e allo sconosciuto si abbia paura, ma fare in modo che un sentimento naturale si trasformi in fobia e cavalcarlo è un comportamento delinquenziale, perché un popolo spaventato è manovrabile».
Sta per cacciarsi di nuovo nel ruolo della cantante di sinistra.
«Ma io sono fiera di essere una persona che si appassiona davanti alla politica. E quell'etichetta me l'hanno data perché ho fatto scelte rigorose e per alcuni è una colpa. Non ho scelto la via del pop, che mi avrebbe garantito certamente più successo, più soldi. Non sono mai finita sui giornali, non ho mai raccontato i fatti miei. Sto in disparte, anzi faccio una vita appartata, come molti degli artisti che hanno scritto canzoni per me, come Fossati, come De Gregori, come tanti altri. Però, se qualcuno mi chiede la mia opinione, non mi tiro indietro. Sarebbe sbagliato. E non perché faccio la cantante. È un dovere di chiunque partecipare alla vita sociale. L'impegno no, per carità, mi indispone solo la parola. Però è dovere di un cittadino informarsi ed esprimere il proprio disagio».
E quali sono i suoi disagi?
«lo vorrei vivere in un Paese normale. Non sopporto più l'elogio del furbo. Mi indigna che persone sospettate di aver compiuto azioni illecite siano ancora al loro posto e non si facciano da parte. Mi indigna l'assenza di una vera opposizione che dica qualcosa…».
Qualcosa di sinistra?
«Mi accontenteri di qualcosa. Vorrei che in Italia ci fosse una vera politica culturale, che la televisione fosse diversa. Ecco, prenda la televisione».
Prendiamola.
«Non la capisco. Ormai è un gran bar dello sport che dura tutta la giornata a reti unificate. Una perenne gara a chi la spara più grossa. Mi sono reclusa, insieme a tanti altri, a guardare pochi programmi. E a pensare che, tutto sommato, era meglio quando c'era una vera lottizzazione. Almeno avevamo la RaiTre di Angelo Guglielmi. Adesso guardiamo Report e poche altre cose e speriamo che non ce le tolgano».
Potrebbe aiutare, per cambiare la tv, la presenza di gente come lei, che invece ne sta alla larga, lasciando campo libero ad altri.
« È capitato, sì. Mi hanno offerto un programma, ma ho rifiutato perché non riuscirei mai a gestire il mezzo. Finirei nel tritacarne. Meglio continuare a fare le mie cose».
Tra le sue «cose» c'è la particolarità di aver dato, negli ultimi venticinque anni, la possibilità di esprimere la loro parte femminile ai più celebri cantautori. Una bella responsabilità.
«Mi sorprende scoprire come un uomo possa esprimersi al femminile in modo così profondo. Eppure il risultato non è sempre così scontato, tant'è che ancora oggi, quando mi arriva una canzone che ci racconta mi sorprendo. Sapere che un uomo possa scandagliare in maniera compiuta la psicologia femminile ti fa sentire vulnerabile, ma è pure incoraggiante».
Ma perché tutti, da Fossati a Jovanotti, passando per Battiato, Ruggeri e De Gregori, lo fanno sempre (e quasi solo) con lei?
«Forse perché ci somigliamo».
E state in disparte, siete discreti…
«Ma veramente sembro così seriosa?».
Per niente.
«Però mi capita spesso che in camerino, dopo i concerti, vengano a salutare spettatori increduli e mi dicano: "Non pensavamo che fosse anche simpatica..."».
Da Il Venerdì di Repubblica, 5 dicembre 2008