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Zendaya, una stella luminosa che può essere tutto. Ecco i suoi 5 ruoli memorabili

L’attrice – da domani al cinema in Dune – Parte 2 – è una creatura ibrida dotata di identità multiple e un nome solo che nella lingua di suo padre significa “rendere grazie”. E noi ringraziamo.
di Marzia Gandolfi

Zendaya (Zendaya Maree Stoermer Coleman) (27 anni) 1 settembre 1996, Oakland (California - USA) - Vergine.
martedì 27 febbraio 2024 - Celebrities

Scuderia Disney, 2010. Tutto comincia sul piccolo schermo con Bella Thorne (A tutto ritmo), ‘quella accanto’ a Zendaya Coleman, quattordici anni e un talento mostruoso. Canta, balla e recita la commedia alla perfezione. Da quel momento niente potrà fermare la sua ascesa vertiginosa, una prodezza che infrange la barriera del suono. Come Madonna e Cher, Prince o Beyoncé, rinuncia al cognome - ambizione o premonizione? – e diventa Zendaya e basta. Iperattiva e temeraria costruisce la sua leggenda sotto i nostri occhi. Le regole le ha imparate dai suoi ‘miti’, prevedono due paracaduti di soccorso e la lezione più importante dello show-business: l’arte di reinventarsi. Di fatto, i suoi progetti sono un tourbillon di eclettismo: modella, cantante (un album di electro R&B che porta il suo nome), autrice, attrice, designer (con Tommy Hilfiger), influencer, attivista, musa Lancôme e Bulgari dopo Valentino e Vuitton … È talmente impegnata che le interviste concesse alla stampa al momento durano quattro minuti (tutti presi se provate a chiedere). Non è un caso che si dichiari una fan di Oprah Winfrey, la donna che si è fatta da sola, raccogliendo intorno a sé e dietro al suo nome di battesimo una comunità affiatata di fan. La strategia di Zendaya? Un mix intrigante di assunzione del rischio e controllo.

Introversa e timida, Miss Coleman monta sulla scena e scopre di avere dei superpoteri. A “Vogue” giura di aver sempre ignorato il mantra preferito dai millennial (“Non puoi avere tutto…”) e di andare dritta per la sua strada, convinta che ogni vetta è raggiungibile se ci si impegna abbastanza. Il suo entourage conferma lo spirito stacanovista. Potrà sembrare naïf o pretenzioso, ma venendo da un’artista all’incrocio tra Germania, Scozia e Africa, con più di cento-ottantaquattro milioni di follower su Instagram, è un gesto politico. Figlia di due insegnanti, è cresciuta a Oakland, in California, patria delle Pantere Nere e luogo di nascita di Kamala Harris. Un caso? Fiera delle sue origini tedesche-scozzese (la mamma) e africane (il papà), si impegna a promuovere una versione più inclusiva del sogno americano, fondata sul rispetto, sull’audacia e sulle cover dei magazine dove ricorda alle sue coetanee che: “You have the power!”. Nel 2010 cerca la sua chance e fa un provino per Disney Channel. Cinque anni dopo, chiede ed ottiene un maggiore controllo artistico sulla produzione della serie K.C. Agente Segreto, trasformando la sua spia in erba in un genio della matematica e in una cintura nera di karate. In barba alle smancerie, rifiuta di cantare e ballare, vuole solo recitare, vuole che la sua famiglia sia interpretata da attori neri e chiama le cose col loro nome. Intanto evolve nell’universo Disney Channel, fa tendenza col suo stile e viene corteggiata da Hollywood, che nel 2017 le offre il ruolo di M.J. nella nuova saga di Spider-Man.

Tre avventure e un uomo ragno dopo (Tom Holland), Zendaya è un’immensa star, con rigore e senza le buffonate di Britney Spears o di Miley Cyrus e di tutta la schiera di fanciulle di cui abbiamo già dimenticato il nome. Diversamente da loro, lascia la Disney senza sbattere la porta. Non rinnega niente Zendaya e si lega a HBO, trascendendo il suo pedigree immacolato in una serie cruda e radicale, bella come un sogno e complessa come un incubo (Euphoria). Al centro della narrazione, l’attrice segue il suo istinto e Sam Levinson. Figlio sensibile di Barry Levinson, mette in orbita Zendaya e soffia un vento nuovo sulla ricerca dell’identità adolescente. Zendaya è Rue Bennett, diciasettenne scampata a un’overdose, che ritorna a scuola con le umiliazioni e le tentazioni che covano nei suoi corridoi. Ma Zendaya è soprattutto una rivelazione, il magnifico spettro che oscilla tra estasi e desolazione. Malcolm & Marie, due anni dopo, suggella la fruttuosa collaborazione di Levinson con la donna che lui chiama “Z”. Qualche anno fa l’avremmo probabilmente definita la sua musa, un modo educato per sminuire il ruolo delle attrici nel processo creativo dei loro pigmalioni. Ma l’autore è più intelligente di così. Bianco, etero e una giovinezza delicata alle spalle, Sam Levinson affronta i temi dell’inclusività che preoccupano Hollywood e la società. Il suo Malcolm & Marie è eminentemente contemporaneo.

Zendaya esplode in un film fatto su misura. Recita con una naturalezza e un candore che nascono dalla fiducia assoluta che ha riposto nel suo regista. La sua bellezza, il suo aspetto, la sua aura, trascendono ogni sua parola. Si affida alla m.d.p. e per estensione si offre a noi, come un dono. In lei, Levinson ha trovato il corpo (attoriale) che può esprimere i suoi pensieri con un gesto. Un silenzio greve mentre prepara un mac & cheese, una lacrima furtiva mentre guarda il suo compagno o un sorriso ritrovato dicono meglio e dicono più forte di qualsiasi discorso. Levinson filma ogni ‘cambiamento climatico’ del suo volto, proiettando l’infinità dei sentimenti attraverso primi piani bergmaniani. Chiaramente erede delle eroine di Mankiewicz, Marie è molto simile alla Maria de La contessa scalza. Bella in modo irrealistico, inaccessibile e falsamente serena, vuole dimostrare di essere libera, ma questa libertà conduce solo alla tragedia e alla tristezza. Più il film procede, più ci rendiamo conto che la sua ragion d’essere è quella di disegnare arabeschi poetici e lirici intorno a una verità insondabile: il cuore di Marie. Dietro Zendaya appaiono i fantasmi di Gene Tierney, Ava Gardner e Marilyn. È nata una stella.

Un passaggio funambolico nel circo di The Greatest Showman – ‘tiene sulla corda’ Zac Efron nel numero più bello - e Zendaya diventa il sogno segreto di Paul Atreides (Timothée Chalamet). Magnifica ossessione nel primo ‘capitolo’ di Dune, incrocia il suo destino nel deserto e incarna Chani Kynes, guerriera Fremen del pianeta Arrakis. Binomio che osa, Zendaya e Chalamet giocano coi codici e si stagliano nell’iper-spettacolo di Denis Villeneuve, tra furia e stasi contemplativa. Puri (s)oggetti di cinema sono i guerrieri di un nuovo mondo e di una nuova Hollywood. È la vita, la paura e la collera che vibra nelle loro performance. In Dune - Parte 2 avremo finalmente modo di vedere crescere la partecipazione di Zendaya a quest’opera d’arte ipnotizzante. Sollevata da un vento di spezie l’attrice sarà ancora una volta ambasciatrice di libertà e icona di bellezza per le donne della Terra e di altrove. Per credere basta guardare le immagini dell’anteprima londinese. Con un’armatura metallica e un gioco di trasparenze intorno al seno, al ventre e ai glutei, Zendaya ha prolungato la fiction sul red carpet, facendosi più cyborg della sua principessa di sabbia. Il costume cromato, è una tuta degli archivi Mugler (Haute Couture Autunno-Inverno 1995-1996), si ispira alla Maria (Brigitte Helm) di Metropolis e sfida il consueto dresscode femminile, diventando virale. Un momento di moda per alcuni, un “manifesto cyborg” per chi legge Donna Haraway, filosofa americana che pensa il cyborg come metafora di un’utopia post-gender. È un mito, naturalmente, una di quelle storie che ci raccontiamo per definire le possibilità e i limiti dell’essere umano. Disneysmo, cyberfemminismo, fashionismo, Zendaya può essere tutto, creatura ibrida dotata di identità multiple e un nome solo che nella lingua di suo padre significa “rendere grazie”. E noi ringraziamo.
 


LEGGI LA RECENSIONE DI DUNE - PARTE 2

SPIDER-MAN - HOMECOMING (2017)
Dopo lo scacco di Andrew Garfield (The Amazing Spider-Man), è un giovane attore britannico, Tom Holland, ex ginnasta e ballerino, a prestare il volto a Spider-Man, adolescente e proletario nel blockbuster di Jon Watts. A rinnovare il capitale simpatia del personaggio contribuisce soprattutto Zendaya. Capelli sciolti e fronte lucida come un diamante, interpreta Michelle Jones, non Mary Jane Watson, e accompagna il quarto Spider-Man del cinema. Un ragazzo semplice che abbandona la gloria per servire la sua comunità e diventare il supereroe della porta accanto. L’attrice compone un carattere tosto e sbarazzino, abbagliando lo spettatore e innamorando perdutamente Tom Holland. Da sette anni tessono la loro storia d’amore, rilanciando miracolosamente il supereroe. Regina di cuori e di stile, Zendaya vola alto, sostenuta dal suo eroe di banco e da una volontà che la farà andare molto lontano… far from home.


EUPHORIA (2019)
Destinata a una carriera di ballerina e cantante, Zendaya prende in contropiede la Disney e la buddy comedy, trascendendo per sempre i suoi ruoli e il ruolo della liceale in un teen drama made in HBO. Il personaggio di Rue Bennet, tossica patentata, è una vera esperienza artistica per l’attrice, un’avventura immersiva nello spirito della generazione Z. Adattata da una serie israeliana, Euphoria dipinge la vita quotidiana di un gruppo di studenti americani, su cui Sam Levinson pone uno sguardo crudo e volutamente scioccante. Personaggio e narratore onnisciente insieme, Rue guida lo spettatore nei meandri della generazione post-11 settembre, intrappolata in un presente assoluto e ansiogeno, dove tutto è terribilmente serio senza avere davvero importanza. Versione ‘next gen’ di DiCaprio, né bionda, né bianca, né ragazzo, Zendaya splende come una stella nella notte buia di una serie culto e di un episodio di raccordo tra le stagioni (Parte 1: Rue). Dedicata all’adolescenza e ai suoi demoni, Euphoria fa di Zendaya un’attrice di sostanza ricompensata con l’Emmy Award.
 


THE GREATEST SHOWMAN (2017)
Non siamo così sicuri che il vero Phineas Taylor Barnum, inventore del circo moderno nell’America della seconda metà dell’Ottocento, fosse filantropo, generoso e progressista come Hugh Jackman ma tanto è in questo musical sgargiante che serve la sua biografia e un cast ispirato. Funambola in equilibrio su un mondo di freaks e sulla ‘buona società’ del XIX secolo, Zendaya incarna la parentesi sentimentale con Zac Efron, preso al laccio dalla sua corda, che fa ‘scoccare’ l’esperienza Disney e il suo senso innato dello spettacolo. Appesa come un fiore a uno stelo, la sua trapezista brucia di mille fuochi dentro il costume e sotto la parrucca rosa. Il suo passaggio è una lezione di tolleranza - è la ragazza nera di un ragazzo bianco che deve spezzare le convenzioni dell’epoca per amarla – in un circo che legittima l’immagine del “selvaggio” e spettacolarizza il razzismo (e il colonialismo). Barnum era al centro di questa cultura della differenza, della serie “Il selvaggio esiste e io l’ho visto”. Zendaya paga l’ultimo debito al suo passato prossimo e abbandona le paillettes per tuffarsi nella folgoranza formale e sensoriale di Euphoria.
 


MALCOLM & MARIE (2020)
Con Euphoria la rivoluzione in televisione è in marcia, dopo Euphoria Zendaya è la superstar del piccolo schermo, lo sa bene Levinson che la vuole ancora per Malcolm & Marie, dramma febbrile scritto, finanziato (da Netflix), diretto e montato in piena pandemia. Metafilm e piccola bolla autoriflessiva per lo showrunner di Euphoria che si concede per l’occasione una forma più pacata di dramma. Un ‘dibattito socratico’ a porte chiuse e in una villa californiana ‘aperta’ dove due amanti (John David Washington e Zendaya) si strappano il cuore a parole. Lui, regista agli albori, e lei, aspirante attrice, si interrogano sulla responsabilità dell’artista nell’era di Black Lives Matter, sull’identità e sul posto delle donne in un mondo post #MeToo. Nella notte del film e nel suo bianco e nero stupefacente, Zendaya suona come il free jazz, non comprendiamo tutto ma siamo stregati, perché disegna scenari di rottura facendo invecchiare istantaneamente qualsiasi cosa ‘suonata’ prima.


DUNE (2021)
Dopo la prova tesa e masturbatoria di Malcolm & Marie, Zendaya infila la strada del deserto e due lenti blu come il Mediterraneo. Ma non è di questo mondo il mare che brilla nei suoi occhi mentre scruta le dune di Denis Villeneuve e ingombra i sogni del nuovo messia. Zendaya entra nel cast stellare di Dune, oasi sublime nel deserto hollywoodiano, e dona carne, sangue e sabbia a Chani, una delle abbaglianti creature letterarie di Frank Herbert. Se nella prima parte della saga di science fiction ha qualche ‘posa’, la seconda promette di distinguerla e incarnare finalmente quella silhouette armoniosa, alter ego femminile di Paul Atreides. Qui come altrove vibra e si quieta come fosse collegata alla corrente alternata della sua epoca. Dentro la space opera di Villeneuve, è il sentimento di un mondo vertiginosamente altro, il corpo incandescente di una nuova storia. Il sogno di un ragazzo, “il piccolo principe” di Dune, e il punto d’orgoglio della generazione Z.  


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