Anno | 2021 |
Genere | Drammatico, |
Produzione | Italia |
Durata | 103 minuti |
Regia di | Gabriele Lavia |
Attori | Gabriele Lavia, Michele Demaria, Rosa Palasciano . |
Distribuzione | 01 Distribution |
MYmonetro | 4,00 su 2 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento venerdì 28 gennaio 2022
Due personaggi in una notte piovosa d'estate, nella sala d'aspetto di una stazione ferroviaria in Sicilia.
ASSOLUTAMENTE SÌ
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Stazione, interno notte. Due uomini si incontrano e cominciano a conversare. Uno ha perso il treno e attende (im)paziente il prossimo, l'altro ha un male incurabile e attende la morte. In quel breve intervallo, ingolla la vita, ci si aggrappa, osservando scrupolosamente il mondo che lo circonda, cogliendo la realtà nei suoi minimi dettagli. Frammenti e bagliori di esistenza di cui vuole comprendere il senso prima di cedere al sonno eterno. Vuole essere dentro le cose ma forse è già separato dagli uomini. Fuori la pioggia cade copiosa, una donna spera e un treno si arresta.
Un film vince sempre a mostrare un treno. La cinegenia di un treno, soprattutto a vapore, è un'evidenza. Per questo i Lumière hanno cominciato da lì, istintivamente. Per questa ragione Gabriele Lavia comincia il 'suo teatro' da lì, intenzionalmente.
Perché il treno in corsa incarna come al principio del cinema la nascita di un rilievo. Lavia conosce l'importanza del treno al cinema e le funzioni che un autore può attribuirli. È allora quel colosso cieco e sbuffante a schiantare il silenzio e a fare avanzare la storia, aggiungendo il suo stridore al meticoloso (dis)ordine di un uomo sull'orlo della fine. È un treno che cattura l'illusione cinematografica e la sua dimensione ludica ma è soprattutto un treno mentale che porta con sé la tradizione del film ferroviario tramandata da Patrice Chéreau, a cui è legato un altro compartimento di questo vasto convoglio che è il 'film da stazione', quello dei binari eternamente paralleli, delle banchine e dei suoi addii. L'addio di un amante all'amata o l'addio di un uomo alla vita che quando fugge sollecita l'immaginazione. Comincia allora come un film di Zemeckis L'uomo dal fiore in bocca di Gabriele Lavia ma il teatro attende dietro l'artificio del décor. Una stazione gelata uguale a mille altre ospita una narrazione di meditazione, di viaggio interiore, di vite nude, di uomini soli. Ma ce n'è uno che è più solo di tutti perché la morsa della morte stringe. Benvenuto dunque al trafelato straniero coi suoi venti pacchetti colorati e altrettanti affanni. Lavia accomoda l'atto unico di Pirandello ("L'uomo dal fiore in bocca") sulle panche di una stazione senza tempo, accomoda un'interrogazione sulla vita e la morte, quella di un uomo che assiste al lento e sicuro declino di sé. Due uomini sulla scena e la morte che rode e prende la forma di una donna che appare come un'ombra al condannato.
È la sposa borghese dell'uomo dal fiore in bocca, a cui resta poco tempo da vivere. Il suo medico gli ha diagnosticato un epitelioma, nascosto sotto il 'suo baffo' come un "bel tubero violaceo" e fatale. Da quando lo ha saputo, l'uomo fugge il suo appartamento e la sua giovane moglie ossessiva e incalzante. Lei vuole stare con lui, lui vuole stare da solo, passare il suo tempo a guardare le vetrine e le persone, di cui ama immaginarsi la vita. Adesso osserva il suo vicino, un cliente che ha perso il treno per la campagna dove lo attendono le figlie e una consorte esigente. Il 'pacifico avventore' è andato a teatro, ha fatto mille (troppe) commissioni prima di rientrare, ancora ignaro della tragedia di chi gli siede accanto. Un uomo che canta (in siciliano) e gli domanda di raccogliere un ciuffo d'erba una volta a casa, uno grande, lo prega, per contare i fili dei giorni che gli restano. Termina così l'opera di Pirandello, dopo averci sprofondato in abissi di contraddizioni e di ironia, di sentimenti e di riflessioni sulla banalità della vita e il coinvolgimento alla vita. Il bel testo di Pirandello, cesellato come pietra da Gabriele Lavia e Michele Demaria, scava un'intimità segreta e solitaria. Avvolti nella notte gli attori sono diversamente investiti nella loro performance: Lavia sincopato tra i 'tempi forti' e i 'tempi deboli' della vita, Demaria in levare, più affannato che placido. Dopo Vittorio Gassman e Marco Bellocchio, il suo adattamento (1993) è interpretato da Michele Placido e Antonino Bellomo, Gabriele Lavia sceglie il minimalismo spingendo al massimo il testo. Un testo che ci ricorda la forza dell'autore a teatro. Aggiunge una meteorologia piovosa e una scenografia di chiaroscuri, realista e fantastica insieme per trascendere la vita con l'immaginazione. La musica accompagna, facendosi intendere e dimenticare come un viaggiatore sulla quai de la gare, in quell'ora incerta in cui la notte incontra il giorno.
Dopo Vittorio Gassman (1970) e Marco Bellocchio (1993), anche Gabriele Lavia si confronta con L'uomo dal fiore in bocca, l'atto unico più breve di tutta la drammaturgia pirandelliana: un'interrogazione sulla vita e la morte in forma di dialogo fra un uomo che si sa condannato, e per questo medita con «spirito filosofesco» sull'esistenza, e uno come tanti, che vive pacifico senza troppe preoccupazioni. [...] Vai alla recensione »