Titolo originale | Atlas |
Anno | 2018 |
Genere | Drammatico |
Produzione | Germania |
Durata | 99 minuti |
Regia di | David Nawrath |
Attori | Rainer Bock, Albrecht Schuch, Uwe Preuss, Thorsten Merten, Roman Kanonik Nina Gummich, Nikolay Sidorenko, Jan Breustedt, Sasun Sayan, Mohammad-Ali Behboudi, Zübeyde Bulut, Andrej Kaminsky, Thomas Neubauer, Ahmed Zirek. |
Rating | Consigli per la visione di bambini e ragazzi: |
MYmonetro | 2,88 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento venerdì 30 novembre 2018
Opera prima che sfiora atmosfere noir, basata su personaggi e volti che portano impressi i segni di una vita e un mondo faticosi e spietati ma che riescono a far emergere il calore del sentimento.
CONSIGLIATO SÌ
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Walter ha una sessantina d'anni e fa una vita grigia, silenziosa e dura. Si occupa di traslochi in caso di sfratto e porta sulle spalle il peso delle case che svuota e di un passato misterioso e drammatico. Il suo capo lo considera il più leale e capace tra i suoi dipendenti e si affida a lui per portare a compimento lo sfratto di tutti gli appartamenti di un immobile che interessa alla malavita. Ma una famiglia si oppone, rifiutando di andarsene, nonostante le minacce crescano d'intensità.
Il passato di Walter, improvviso, riaffiora, costringendolo a decidere se cominciare a vivere o tornare a mettere la testa sotto la sabbia.
Opera prima del giovane regista David Nawrath, di origini iraniane e tedesche, Atlas è un film di personaggi che rimangono impressi per la loro tridimensionalità, per la carica vitale che sprigionano anche quando sono, come Walter, individui soli, di pochissime parole, abituati a non esprimere i propri sentimenti e a non parlare di quello che provano. Ma di Walter parla il volto, parlano le spalle, che posizionano il corpo al centro di un film di esterni freddi e di deserti morali, catalizzando l'attenzione dello spettatore su un personaggio che, paradossalmente, ha passato l'esistenza a cercare di rendersi invisibile.
Parte come un film drammatico, poi diventa un crime, in parte thriller in parte noir, e c'è persino la componente melodrammatica: è impossibile definire in maniera univoca il genere di appartenenza di questo racconto metropolitano contemporaneo, permeato da un'aura di antica tragedia, e d'altronde il mito è nel titolo ed è scritto sul corpo (con un tatuaggio) e afferma che il carico di Walter è una punizione a vita, l'espiazione di un torto, ma fa anche di lui un pilastro, qualcuno a cui appoggiarsi per rimanere dritti in un mondo che vorrebbe piegare, storcere e corrompere.
Narrativamente, regista e sceneggiatore decidono di chiudere il cerchio (avrebbero potuto fare altrimenti, senza perdere in pathos) consegnandoci un racconto in fondo molto lineare e, da un certo punto in poi, anche prevedibile, ma è chiaro che è una scelta ragionata: non è il ricorso a trucchi o stratagemmi che fa vivere questo dramma, ma il suo toccare l'intimità di qualcuno che vorrebbe non averla, non sentirla, perché è ormai troppo tardi (o forse no).
Nessuna sorpresa, dunque: si resta anzi incollati allo schermo per il motivo opposto, per come Nawrath racconta la quotidianità, la verità di certe relazioni e di certe derive, che non lasciano spazio alcuno per l'intelligenza e tanto meno per l'empatia (impressionante, in questo senso, il dialogo notturno con Moussa). Atlas non è un film folgorante, è un ingresso nel mondo del lungometraggio di basso profilo, che non fa troppo rumore, ma promette qualcosa, innesca un'attesa per il futuro, e non è un risultato da poco.