Titolo originale | Nekem lámpást adott kezembe az Úr, Pesten |
Anno | 1999 |
Genere | Drammatico |
Produzione | Ungheria |
Durata | 103 minuti |
Regia di | Miklós Jancsó |
MYmonetro | Valutazione: 3,00 Stelle, sulla base di 1 recensione. |
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Morti e resurrezioni nella Budapest di Jancsó.
CONSIGLIATO SÌ
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Film a episodi, caratterizzati dal ricorrere dei medesimi personaggi che assumono però, di volta in volta, ruoli diversi. Accade così che i due protagonisti, Pepe e Kapa, siano prima due becchini che cercano di aiutare un collega a trovare l'amore (ma dopo il matrimiono, celebrato nel cimitero, il marito ucciderà la moglie, spiegando che "non gli piaceva più"); poi un poliziotto e un suo vecchio compagno di scuola che ha appena saputo del massacro di famiglia compiuto dalla nipote; quindi un aspirante suicida e l'amico che cerca di farlo desistere, finendo però con l'essere lui quello che si toglie la vita; ancora, un inserviente ed un mafioso che dà la scalata ad un'importante compagnia... Chiusura nel cimitero del primo episodio, con un Pepe in versione angelo che si libra nel cielo per essere abbattuto a colpi di pistola da Kapa.
Distantissimo dalle pellicole che negli anni '60 l'avevano imposto all'attenzione di critica e pubblico (I disperati di Sandor, Armata a cavallo, Silenzio e grido), The Lord's Lantern in Budapest se ne discosta sia formalmente che tematicamente. Primo passo di un nuovo corso che ad oggi conta sei titoli, il film rappresenta una chiara rivoluzione in sede di regia e montaggio: non più alle prese con la sterminata puszta, Jancsó abbandona i lunghi piani sequenza per "costruire" ambienti più complessi e frammentati con uno stile per cui possono essere spesi gli stessi aggettivi. La camera a mano è spesso incollata ai volti dei personaggi, soprattutto nel primo episodio, con un'invasività che però lascia spazio ad alcuni movimenti di macchina di respiro più ampio (si veda la scena del matrimonio nel primo episodio o quella della festa nel secondo). Una frammentazione non solo spaziale: varie e spiazzanti sono le ellissi temporali ed è di fatto impossibile stabilire quale sia il rapporto tra i vari episodi (sebbene l'inizio e la fine, entrambi ambientati nel cimitero e con Jancsó ed il suo sceneggiatore Hernádi nei panni di loro stessi, possano essere intesi come la cornice di una costruzione meta-narrativa). Tutto questo, insieme alle ricorrenti scene di violenza e ad un generale gusto del grottesco, fanno intuire perché il regista abbia dichiarato il rimpianto per non essere stato lui a girare Pulp Fiction. Anche per Jancsó - ed è lui stesso ad ammetterlo - il cinema è un gioco, in questo caso molto ricco di spunti. La morte viene infatti declinata e commentata secondo diversi canoni narrativi: il barzellettistico (ad un'anziana donna in bicicletta: "Dove va?" "Al cimitero" "E poi la bici come torna indietro?"), il fiabesco (un becchino muore avvelenato da una mela), il leggendario (le origini della tradizione nazionale di non toccare i bicchieri quando si brinda), il mitico (i parenti uccisi e poi dati in pasto ai propri commensali), il tragedico (le elucubrazioni del becchino con un teschio in mano), il "folkloristico" (l'ironia su quel suicidio che lo scrittore Tibor Fischer definì "lo sport nazionale ungherese"). Ma - che citi "Biancaneve" o "Amleto", che avvenga per avvelenamento o per un colpo di pistola - per i personaggi di Jancsó la morte è una condizione passeggera, giacché ogni volta li ritroviamo, a distanza di poche inquadrature, di nuovo vivi e vegeti. Nulla di cui rallegrarsi, comunque, se è vero che, come dice il Kapa mafioso di uno degli ultimi episodi, "Dio chiama a sé solo coloro che ama o che vuole castigare". Il senso sta allora nell'affresco di un'umanità troppo isterica ed insignificante perché Dio se ne occupi, come anche la frase di apertura del film, "Se fossi un animale non terrei mai un uomo come cucciolo", sembrerebbe confermare? Un castello interpretativo che sembra non reggere, in virtù del fatto che il regista si professa non credente. Qualcuno ha voluto vedervi piuttosto la metafora del caos che caratterizza l'Ungheria post-comunista, ma forse è meglio tornare alla semplice teoria del gioco: cioè ad un film il cui meccanismo dopo un'ora comincia un po' a mostrare la corda ma che indubbiamente sorprende per la vitalità autoriale che ne promana - Jancsó era all'epoca 78enne - e diverte per il suo humour cinico.