Filippo Sacchi ha lavorato come scrittore, sceneggiatore, è nato il 6 aprile 1887 a Vicenza (Italia) ed è morto il 9 settembre 1971 all'età di 84 anni a Pietrasanta (Italia).
Dei tre grandi maestri della critica cinematografica italiana per lungo tempo, e ormai convenzionalmente, denominata "di gusto" - locati in tre generazioni consecutive: Sacchi; nella successiva, Mario Gromo; in quella ulteriore, Pietro Bianchi - si è ristampato, viventi o no gli autori, per loro o altrui iniziativa, parecchio: ma probabilmente, almeno nel caso del nostro, non abbastanza.
Infatti, mentre il secondo e il terzo furono, in vita, gestori e sistematori abbastanza organici della propria produzione da ridestinarsi a volumi, il Sacchi di "Epoca", operante regolarmente sul settimanale dal 1954 al 1971, si concesse una sola uscita estemporanea del genere, presso l'editore stesso del periodico: la silloge, presumibilmente personale, di circa ottanta recensioni pubblicate tra il '56 e il '57, con pochissime puntate retrospettive, cui non fecero più seguito analoghi tentativi.
Anche le parziali testimonianze postume della sua ultradecennale presenza alla rubrica del "Corriere", quelle raccolte di fatto dal compianto Savio nel suo irrinunciabile Ma l'amore no, e le altre, organicamente assemblate con un lavoro già esemplare nella sua tesi di laurea, e in un volume più recente, ma purtroppo di non facile reperimento, da Elena Marcarini, non soddisfano completamente il nostro legittimo desiderio di leggere e rileggere di più di questo infaticabile osservatore, particolarmente riguardo all'attività, degli ultimi vent'anni della sua vita.
Per quanto mi concerne, e non credo di essere l'unico della nostra generazione, non ho difficoltà a confessare anche un'ovvia implicazione autobiografica. Quando il cinema cominciava ad attrarmi - e ben a ragione, a cavallo tra il finire degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta: guardate subito di che film si trattava, nella prima parte della raccolta! - il settimanale mondadoriano, non saprei neppur dire da quando e perché, entrava su abbonamento anche in casa mia. E continuò ad entrarci finché me ne uscii io, più o meno in coincidenza con la scomparsa del grande critico. Insomma, qualcosa del cinema ho cominciato a impararla li: e oggi, rileggendo in maniera consecutiva e ininterrotta tutti quegli articoli, non è stato difficile accorgermi di dovere loro, al di là dell'apparente "facilità" con cui si fanno percorrere, assai più di quanto non avrei, scioccamente, creduto. E sono quindi ancora una volta in debito anche con la mia indimenticata docente di lettere alle medie, la signorina Emilia Provenzal, che ce li indicava, quando parlava di cinema (con prudenza e riserbi perifrastici impagabili, ma commossa sul serio, ad esempio, di Hiroshima mon amour, rammento, al cui proposito quindi doveva essersi trovata in contrasto col critico prediletto...) come esempi, insieme, di bello scrivere italiano e di bel pensare antifascista. E la seconda cosa, per lei toscana, purista e degna figlia di tanto padre, era ancor più importante della prima. E fini per esserlo vita natural durante, ringraziando il cielo che ce la mandò, per la stragrande maggioranza dei suoi allievi!
Tale predilezione era sicuramente collegata, oltre che alla qualità del suo apporto, all'ammirazione per il percorso esistenziale, etico e politico, le esperienze e le scelte, soprattutto la sostanziale irriducibilità di Filippo Sacchi. Non a caso, del resto, la manifestazione dell'antifascismo militante per la quale Emilia maggiormente si appassionava, era l'intrapresa giornalistica del "Non mollare": a diciotto anni dalla sua scomparsa, anche di lei mi chiedo, come per tanti altri amici che da troppo non ci sono più, in che modo commenterebbe lo sciagurato quadro quotidiano che ci tocca. Come l'avrebbe commentato Sacchi, è probabilmente più facile saperlo, riferendosi allo scritto di ottant'anni fa giusti, rammentato in cronologia e qui citato in apertura.
È un pezzo celebre, da antologia del grande giornalismo internazionale, che ci rammenta la prima parte della vita dell'autore, giornalista per vocazione, inviato internazionale dalla carriera rapidissima, certo assistita anche da quel mix di audacia e fortuna indispensabile in tali frangenti. Tra il '15 e il '25, grazie anche all'autorevolezza riflessa dalla testata, il trentenne vicentino si trova a divenire una "firma" alla pari con le maggiori dell'epoca, in una fase nella quale il prestigio della carta stampata, la credibilità del giornalista - si pensi, agli antipodi, allo stesso Mussolini e alla parabola del suo "Popolo d'Italia" - e il mito dell'inviato speciale, in un'era forse per sua buona sorte non ancora multimediale, forniscono, presso la parte "acculturata" della popolazione, una sorta di consacrazione massima.
A tutto questo (non sarà l'unico) egli rinuncia, non a cuor leggero, per coerenza politica, e prima ancora per rivolta morale. La rottura parigina col ministro De Stefani coinciderà con la rinuncia al già conquistato proscenio nel proprio lavoro (ma Sacchi saprà "rompere" di nuovo, all'occorrenza, nel dopoguerra, certo in circostanze meno drammatiche: ancora col "Corriere" al momento della sostituzione di Borsa con Emanuel, nell'inutile revanche filomonarchica dei Crespi; con Debenedetti e "La Stampa", oltre un decennio dopo).
La polemica antifascista e antinazista resterà però inesausta per l'intera parabola della sua carriera critica, particolarmente allorché si tratti di film tedeschi, che paiono (come dargli torto?) ridestare in lui echi non sopiti di diffidenza e di timore. Recensioni come quelle del Disertore di Staudte (riportata) o di Ordine segreto del Terzo Reich di Siodmak (omessa) sono autentici minitrattati storico-politici in nuce: e quando il critico subodora revanscismo o - come si direbbe oggi - revisionismo occulto, l'anatema viene vibrato con irreversibile fermezza (ne fa le spese, forse anche a sproposito, il povero Bernhard Wicki del Ponte: dopo aver riletto la recensione, e ricordando bene l'unica visione adolescenziale, in sala, del film, non potrò più sottrarmi al riflesso condizionato di pensare che il personaggio terribile di agonizzante da lui all'epoca interpretato in apertura de La notte di Antonioni sia stato ridotto così dalla condanna di Sacchi!).
Il debutto nell'incipiente critica cinematografica fine anni Venti sotto pseudonimo, ma con "L'Illustrazione", si configura insieme come una delle tante operazioni di pronto soccorso di cui nella sua carriera il nostro sarà oggetto (ma tutte ripagate da una sensibilità civile aperta e solidale come poche) e un'inconsapevole svolta nelle abitudini della cultura italiana, non solo cinematografica. 1 dodici anni di titolarità, occultata o palese, di rubrica al "Corriere" faranno il resto: la critica cinematografica, agli occhi del grande pubblico dei lettori, oltre che degli addetti, si istituzionalizzerà é riporterà il suo statuto riconosciuto, giorno per giorno, anche e soprattutto da quelle colonne. Il Sacchi di "Epoca", per l'opinione pubblica complessiva non versata ai periodici specializzati o di categoria, sarà il critico cinematografico per antonomasia. Sempre contraddistinto - e questi sono gli autentici segni della grandezza - da quella ritrosia, da quella capacità di ironizzare anche e soprattutto su di sé e i propri tic ed errori, da quell'apertura rispettosa e cordiale verso i colleghi e soprattutto i giovani, ottimamente testimoniati dal necrologio steso per lui da un altro che già ci guarda, e da anni, dall'altra parte, Domenico Meccoli, che è sembrato opportuno riprodurre al termine della raccolta.
Il modo di lavorare di Sacchi è per molti versi insolito. Basti pensare al fatto di come, nell'Italia di quegli anni, su un settimanale di quella fatta e di quell'orientamento, con tutta evidenza facendosi scudo esclusivamente del proprio prestigio personale, e dell'aver provato cosa significava e quali conseguenze comportava durante il ventennio essere all'opposizione, desse conto sistematicamente delle novità di tutta la stampa specializzata di opposizione. Nell'autunno del '58, quando "Cinema Nuovo", ad esempio, diventa bimestrale da quindicinale, il critico accorda alla notizia e al sommario più di mezza colonna in calce alla recensione de I soliti ignoti. Non c'è numero del monzese "Cinestudio", pubblicazione monografica di un C.U.C., libro degli Editori Riuniti che sfugga alla sua segnalazione. Sempre accurata, rispettosa, elogiativa soprattutto nei confronti dei giovani (si veda del resto lo scambio di lettere col ventitreenne Lorenzo Pellizzari, anche se... era già Pellizzari, in questo stesso volume!; o l'elogio di Adelio Ferrero parlando di Godard).Assolutamente refrattaria al vento che tirava e ai conformismi della maggioranza. Rendendo oltretutto un grosso servigio oggettivo alla cultura cinematografica di quegli anni, cioè di un periodo nel quale le uscite emero-librarie sul cinema avevano una consistenza tale da rendere plausibile l'impresa di dar conto praticamente di tutto. E Sacchi vi riesce, preciso, puntuale, pacato, accurato: questo soltanto basterebbe già a distinguerlo dalla stragrande maggioranza dei suoi colleghi dell'epoca, inclini a ignorare sui loro giornali, per convinzione o per forza, l'esistenza di una pubblicistica filmica "altra".
Nel rileggere in biblioteca le annate di "Epoca" per questa pubblicazione, abbiamo francamente amato soprattutto il Sacchi che oggi rischia di sembrare più "datato", ideologico e démodé: quello ad esempio che riconosce apertis verbis la grandezza enorme del cinema sovietico classico, a mano a mano che, negli anni Sessanta, Ejzenstejin, Pudovkin e gli altri maestri ricompaiono sugli schermi in circuito anche da noi. Oggi questo appare già di per sé un evento incredibile: e quale altro critico di settimanale a rotocalco avrebbe rinviato con naturale leggerezza i lettori alle pagine di Lebedev e di Leyda per documentare il retroterra delle proprie affermazioni?
E ancora, l'assoluta e intransigente polemica contro la censura da un lato, e contro la sostanziale continuità ventennio-repubblica a livello di organismi statali e ministeriali governanti lo spettacolo dall'altro. Anche quando è in disaccordo con determinati film - gli succede perfino con Antonioni, o con lo stesso Visconti all'epoca di Rocco, come poco dopo con Bolognini o Pasolini - il critico ha cura di distinguere ripetutamente, sfiorando quasi la pedanteria didascalica, le proprie riserve dall'illegittimità e dall'inaccettabilità di ogni intervento preventivo o repressivo sulla sua libera integrità testuale. E non le manda a dire in proposito a nessuno, a cominciare proprio dai magistrati resisi protagonisti degli arbitrii concernenti proprio i famosi "velativi" incredibilmente imposti al film viscontiano. Come non tralascia di manifestare in ogni possibile occasione la propria spiccata simpatia per il festival di Locarno: da un lato, esplicitamente, perché gli appare, e lo sbandiera, un "porto franco contro la censura"; dall'altro, perché gli rammenta gli anni durissimi ma non ingrati dell'esilio politico: la "vacanza" oltralpe tra il '44 e il '45, impostagli dal redivivo Mussolini della RSI.
Più in generale, colpisce la costante linea d'indipendenza critica che Sacchi persegue di fatto, con una nonchalance appresa verosimilmente in anni ben più duri, anche,nei confronti della propria testata. Nel giro di poco più di un decennio, infatti, "Epoca" passa tranquillamente dalla solidarietà manifestata ad Aristarco e Renzi quando il loro già annoso caso perviene all'attenzione della neonata Corte Costituzionale (con un nettissimo "Specchio dell'epoca" di Giorgio Vecchietti del 20 aprile 1958), alle posizioni di aperto vellicamento della "maggioranza silenziosa" - che era peraltro la sua naturale e programmatica platea di lettori, che certo vedeva come "di sinistra" il liberale grande-borghese titolare della rubrica cinematografica...- che vengono assunte tanto rispetto alle problematiche delle velleità golpiste e dei ricatti politici emergenti negli anni del centrosinistra di Moro, quanto in un'incredibile crociata contro il cinema corruttore che caratterizza la testata, irrigidita anche dai clamori del Sessantotto e della contestazione, sul finire di quello stesso decennio. Quando Pietro Zullino verrà incaricato di lanciare gli anatemi contro il "cinema degli sporcaccioni", attorno al '69 (avendo a principale bersaglio i film... di Ugo Liberatore e di altri cineasti oggi totalmente obliati, e giungendo ad attaccare per lassismo financo... i componenti le commissioni ministeriali di censura, nominando espressamente, tra gli altri bersagli, Enzo Natta) Sacchi, ultraottantenne, non solo si toglierà la soddisfazione di non lasciar trasparire una sola sillaba di anche implicita convergenza dal "porto franco" della sua rubrica, ma si divertirà a recensire con approvazione maliziosa film quali Vedo nudo di Risi e altri consimili o condannerà duramente l'incredibile negazione del visto a If... e non tralascerà di elogiare un solo film contestativo. E questo, nonostante il classico elogio per il freno dell'arte, l'olimpica convinzione classicistica che il lasciar intuire sia molto meglio (come negarlo, peraltro?) del far vedere, e una certa insofferenza istintiva, ripetutamente denotata, per le manifestazioni più corpose e avvertite come pesanti della fisiologia e della patologia umana, facessero parte di un suo bagaglio di fondo. Che ha spesso l'occasione esplicita di manifestarsi, anche laddove il film è grande: un caso di palmare evidenza può essere, tra i molti, quello de I dannati di Varsavia di Wajda, di cui il critico pare faticare a riconoscere la grandezza, invincibilmente infastidito dall'inevitabile ambientazione fognaria e dall'amplesso tra le lordure della coppia di partigiani in fuga.... O è delizioso l'inconsapevole, sottile moralismo ottocentesco (e sano...) col quale, nell'affrontare in Cuori solitari di Giraldi il tema dello scambio delle coppie, allora certo più inusitato ed elettrizzante di oggi, lo designa circospetto come swopping anziché swapping, pur delineandone l'attrattiva, e concludendo apertamente, con riferimento alla protagonista partner di Tognazzi, Senta Berger: "Il nostro cinema rigurgita di attrici e attricette straniere che potrebbero tranquillamente essere rispedite a casa loro. Però, se è possibile, Senta Berger è meglio che ce la teniamo".
Per scendere appunto su di un terreno più leggero, ma non meno sapido, anche nei confronti delle attrici, e in particolare delle dive, Sacchi si concede piena e incondizionata libertà di parola. Nelle occasioni in cui si tratta di esternare un'ammirazione che sa essere galante e incondizionata come solo un gentiluomo dell'Ottocento poteva concepire. Provate a leggere, per Gianna Maria Canale, la spettacolosa recensione che le riserva il 5 luglio 1961 (le riserva, perché è un puro pretesto il film, La rivolta dei gladiatori di Cottafavi, citato di malavoglia per la prima volta soltanto a metà dell'assunto, confondendone il titolo con quello del sequel de La tunica firmato da Delmer Daves quattro anni prima, e torcendone il cognome del regista senza nome in Cottafava, come avrebbe potuto fare nella miscellanea una rivista transalpina di second'ordine prima del boom santificante del nostro!). C'è una vertigine di piacere del testo che i più accaniti cinéphiles odierni non riuscirebbero neanche a sognarsi. Ma anche in quelle dove, viceversa, è ritenuto imprescindibile mostrare un pollice verso che sa andare, quando ci vuole ci vuole, ben oltre la mera irriverenza. Brigitte Bardot, all'apice del suo successo - nello stesso periodo in cui Simone de Beauvoir riteneva necessario consacrarle una cogitabonda monografia, tradotta anche in Italia da Lerici con l'adeguato fotocorredo! - è oggetto di un fuoco di sbarramento, che parte dalla Parigina di Michel Boisrond ("lei è bardolatra?”) e non si fermerà mai, attraverso gli anni, manifestandosi certo quando l'attrice è personalmente impegnata nel cast, ma anche, per passaggi analogici od oppositivi, quando non c'entra niente. Persino allorché se la cava, personalmente, per il rotto della cuffia, è giocoforza schiacciarla sotto il peso di un ingeneroso confronto (come quello con la Moreau nella comune e divertita vacanza del Viva Maria! di Malle).
La tendenza, peraltro, non ci coglie di sorpresa. L'autore stesso aveva denominato la serie conclusiva di Al cinema col lapis "Ai piedi delle regine". Che erano già lì, allora, riferendosi alle prime annate di firma su "Epoca", poche e scelte. A cominciare dalla Signoret di Casco d'oro, ovviamente: ma non solo per questioni di freschezza e venustà: andatevi a leggere subito, in questa raccolta, cosa ne dice per La strada dei quartieri alti.
Ma il rimando e il raffronto sono svianti, perché occasionalmente, in quel parterre di teste coronate metaforiche, figurano troppe bionde (nonostante venga salvata anche la Lollobrigida, comprimaria in Montecarlo, accusando gli autori di non essere incredibilmente riusciti a "dare corpo" al suo personaggio). Nelle annate successive, passate in rassegna per questa raccolta, con un più ampio campione, il malinteso si chiarisce. Sacchi sarebbe stato probabilmente disposto a cedere in blocco tutte le regine sopra elencate per la sola Canale. Il "suo tipo" non è davvero quello hitchcockiano, nonostante l'inno elevato alla sopravvalutata Kim Novak de La donna che visse due volte: non a caso, però, un film in cui il maestro "rinnega" platealmente il platino iniziale della chioma della sua protagonista...
Le onnimanifestate idiosincrasie per certe attrici (anzi: per certi tipi di donna, a differenza di altri) sono conseguenti. Sacchi riteneva, come tanti altri grandi della sua epoca, che esistessero tipologie femminili autentiche e altre fasulle. Una volta giudicata e mandata la diva nell'uno piuttosto che nell'altro girone, non era quasi più possibile concederle possibilità di appello. Un'eccezione viene fatta, una volta tanto, per Sophia Loren, inchinandosi lealmente alla sua rigenerazione ne La ciociara. Le predilezioni femminili del critico sono assai nette e coerenti. Gli vanno estremamente a genio, da un decennio all'altro, appunto la Canale, quasi reincarnata in minore, negli anni successivi, in Lisa Gastoni; sono fasulle, inesorabilmente, giusto Brigitte Bardot (la polemica contro il "bardottismo" prosegue implacata negli anni), e ferocemente Elizabeth Taylor, che sortisce un momentaneo riscatto solo per l'interpretazione di Chi ha paura di Virginia Woolf?, ma la paga con autentiche, atroci prese in giro. Gli vanno insomma bene, schematizzando, le donne sane, vitali, sanguigne e roride di umori (è il caso anche di Dorian Gray, di cui anch'egli riesce a denunciare la sciocca sottoutilizzazione da parte del cinema nazionale, parlandone a proposito di... Brevi amori a Palma di Maiorca! ). Non gli funzionano invece le "cagnette pechinesi, depravate e frigide" che ne sono tutto l'opposto. E talvolta l'umoralità francamente a questo proposito deborda, a spese ad esempio della povera, grande Riva sempre di Hiroshima, che si prende addirittura esplicitamente della "racchia", col sospetto che da li a poco Sacchi non abbia riconosciuto (o sì?) in lei la medesima interprete, nel "carrello di Kapò" non ancora pubblicamente eternato dalla damnatio memoriae alla rovescia di Serge Daney.
Parlando di film di guerra o sulla guerra, il critico tocca invece con naturalezza i toni più alti e gli accenti più profondi, dove emerge - è inevitabile - la dolorosa maturazione delle esperienze personali. Accade anche in parecchi pezzi che è stato giocoforza escludere con dispiacere, come per I giovani leoni di Dmytryk. Ma persino nella recensione, decisamente esemplare nel suo tono alto e nella sua capacità di autentica rivelatrice della poesia, del film più pacifista forse mai girato, L'arpa birmana, che casualmente apre la nostra selezione, non si sottrae, nel finale, ad assegnare con molta chiarezza e irrefutabili argomenti la responsabilità del secondo conflitto mondiale a chi ne fu effettivamente responsabile. Ed emerge più in generale, talora in chiave imprevista e folgorante, la memoria personale della grande storia vissuta, e ripresa senza la minima ostentazione: si veda il rattenuto inciso sullo Spartachismo, della cui fine nel sangue l'antico inviato speciale del "Corriere" era stato testimone oculare, spuntare del tutto inatteso a proposito della Rosemarie di Thiele, con la susseguente, acuta riflessione finale sull'impossibilità contemporanea della femme fatale...
Così come colpisce la "modernità" di una serie di posizioni: quelle ad esempio, sempre incisive e appropriate, oltre che aggiornatissime, a proposito del doppiaggio italiano e dei suoi guasti. Da questo punto di vista critico "di gusto" davvero per antonomasia, Sacchi non crede molto che esistano problemi di "metodo", e confida assai - oggi avrebbe certo in questo più riconoscimento e soddisfazione di ieri! - nella naturalezza di un approccio personale mediato da sensibilità, esperienza e cultura. Quando gli capita di recensire, puntuale ma stupefatto, la Lettura strutturale del film di padre Taddei, in anni in cui le posizioni dell'animatore culturale milanese andavano per la maggiore, annota amabilmente: "È, diciamo così, per una testa laica, la bizzarra e del resto affascinante impressione di trovarci davanti il fenomeno cinematografico trasferito nel clima della dialettica scolastica". E tuttavia il "canone" di riferimento è ben presente nel critico: arriva direttamente dall'estetica classica, dalla cultura greca, così quotidianamente frequente nelle sue predilezioni di lettore in lingua e nelle sue riflessioni anche esistenziali e di attualità, come testimonia a ogni pagina lo stupendo diario d'esilio Un fuoruscito a Locarno, edito nell'87 da Renata Broggini.
Può anche capitare a Sacchi di contraddirsi: cosi, magari, ad esempio, per ridimensionare Giovani mariti, che lodi Le amiche, dimentico di averlo inserito egli stesso, presso che contemporaneamente, nella non ambitissima sezione "Stroncature" di Al cinema col lapis (in buona e paritaria compagnia, peraltro, col Bidone di Fellini). Può capitare altresì di prendere, com'è rischio di ogni critico, soprattutto se grande, la proverbiale "cantonata" valutativa: e anche qui c'è solo l'imbarazzo della scelta, tra pezzi riprodotti e no, dall'incomprensione, allora comune a molti, per Colazione da Tiffany a quella, invero meno diffusa, per L'uomo che uccise Liberty Valance, dalla valorizzazione del Passaggio del Reno alla liquidazione di Fino all'ultimo respiro. In genere tutta la nouvelle vague, salvo temporanei ripensamenti di volta in volta esternati, non la passa liscia sotto la lente di Sacchi: salvo ricredersi, quando a Venezia conosce in un solo giorno Godard, Truffaut e la Meril, trovandoli tutti simpatici... Ma questo sarebbe un gioco al massacro, facile e stupido quanto inutile, applicabile a qualsiasi altro recensore di lungo corso: col senno di poi siamo tutti maestri, e le "revisioni critiche" operate dal Tempo sono assai più definitive e irrefutabili di quelle specifiche dei revisori... Non manca d'altra parte una franca e signorile capacità di rileggersi, di prendersi in giro bonariamente o di ricredersi in pubblico anche quando nessuno glielo chiede tranne la sua coscienza. Da questo punto di vista la sua recensione di chiusura (di questo libro, ma soprattutto della sua carriera e della sua vita), che si prende la briga di riesaminare, a quattro anni dall'uscita, un film tutto sommato di margine come quello di Sordi, è davvero già in sé una grande lezione permanente che le nostre sicumere non dovrebbero dimenticare. E c'è ancora, e soprattutto, l'altra faccia della medaglia, quella dell'intuito folgorante e infallibile: che gli consente ad esempio, tra i primissimi dei pochissimi italiani, di cogliere al volo la grandezza assoluta dell'esordio di Bellocchio coi Pugni in tasca, altra "ovvietà", che oggi sanno tutti, ma allora non vollero o seppero additare che pochi.
Neppur troppo di rado capita a Sacchi di lasciare indietro il nome del regista del film di cui parla, o di citarlo inesattamente. Ma è assai difficile, col nostro pluridecennale senno di poi, coglierlo in fallo sulla sostanza. Può giungere a ritenere, nello stesso articolo, che Sergio Leone sia un regista italo-spagnolo, e Clint Eastwood un attore della TV tedesca: ma sul peso specifico e la prospettiva futura di Per un pugno di dollari non fa lo schizzinoso e non sbaglia, a differenza di tanti altri spettatori dell'epoca. Il silenzio sui nomi, oltretutto, è spesso intenzionale e coglie direttamente nel segno: così, ad esempio, una stroncatura de I fanatici di Alex Joffè, uno dei tanti film dimenticati che s'incontrano nelle pagine del periodico mondadoriano, è sottolineata, e non è l'unico caso, dal totale, ed evidentemente deliberato, riserbo sui nomi di regista e attori, collaboratori artistici e tecnici! Irresistibilmente, parlando de La donna che visse due volte, arriva con disinvoltura a definire Hitchcock, che aveva all'epoca cinquantanove anni ed era comunque di dodici più giovane di lui, chissà perché, "il terribile vecchio"! Ma l'analisi del film è da manuale, e l'omaggio consacrato alla discussa e certo - anche da Sacchi - sovraesposta Kim Novak, come si è visto, indimenticabile (del resto, quanti non si sono innamorati, all'epoca, della non ancora smascherata impostora che si gettava nella baia di San Francisco?).
Infine alcune precisazioni di tipo pratico. Si è cominciato a prendere in considerazione i pezzi usciti dal 1958, visto che la scelta dei precedenti era già stata compiuta dall'autore: Non sarebbe comunque stato facile trarre, da poco meno di un migliaio di articoli, i circa cento che il progetto contemplava. Cosa privilegiare? L'interesse per il film o quello per il pezzo? Le caratteristiche di fondo o le contingenze, magari insolite e brillanti, dell'occasione? 1 titoli divenuti parte della storia del cinema, o addirittura del costume, o le produzioni giustamente o meno dimenticate? Si è concluso con lo scegliere una misura considerata in qualche maniera intermedia: ma se un criterio ha finito, un po' alla volta, quasi insensibilmente per rivelarsi leggermente prevalente agli occhi dello stesso curatore, è stato quello del privilegiare un certo qual sacrosanto risentimento civile e politico, che non di rado traspare, come si è notato sopra, in parecchie prese di posizione. D'altra parte, chiunque abbia atteso a questo genere di cure probabilmente sa come a un certo punto del work in progress la selezione assuma quasi una sorta di sua vita propria, e per le più svariate ragioni banali, impreviste e incontrollabili, accentuate dalla fascinosa precarietà della riproducibilità tecnica digitale, i pezzi selezionati paiano decidere quasi per loro conto se entrare o meno nella scelta, che comunque finisce sempre, per motivi banali, per risultare sensibilmente diversa da quella originariamente delineata a tavolino.
La riproduzione dei testi trascelti è sempre stata integrale e priva di "interventi" di sorta. Al punto da rispettare anche gli errori, o le sviste, quando non dovute a banali refusi: sarebbe sembrato poco rispettoso pretendere di correggerle: non è essenziale rettificare il grande Sacchi quando sbaglia un nome oppure, peraltro con anagrafica esattezza, chiama Marcello Mastrojanni, o titola L'opera da quattro soldi il capolavoro di Brecht e Weill o "Light and Sound" il periodico londinese.
A conti fatti, insomma, quello "del giornalista per vocazione, critico per caso", è con tutta evidenza uno schema facile, ma che non funziona: nelle vicissitudini di una parabola personale per molti versi irripetibile, resa distante dalla situazione assurda per cui ciascuno dei suoi libri non cinematografici è da lunghi anni assente dal mercato, Sacchi fini per trovare controvoglia la strada che era la sua, e che si esplicò in un grande amore, insieme, per il giornalismo e per il cinema, e in una grande capacità di trasmetterlo.
Da L’epoca di Filippo Sacchi, Edizioni Falsopiano, 2003