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Rassegna stampa di Filippo Sacchi

Filippo Sacchi ha lavorato come scrittore, sceneggiatore, è nato il 6 aprile 1887 a Vicenza (Italia) ed è morto il 9 settembre 1971 all'età di 84 anni a Pietrasanta (Italia).

NUCCIO LODATO

Dei tre grandi maestri della critica cinematografica italiana per lungo tempo, e ormai convenzionalmente, denominata "di gusto" - locati in tre generazioni consecutive: Sacchi; nella successiva, Mario Gromo; in quella ulteriore, Pietro Bianchi - si è ristampato, viventi o no gli autori, per loro o altrui iniziativa, parecchio: ma probabilmente, almeno nel caso del nostro, non abbastanza.
Infatti, mentre il secondo e il terzo furono, in vita, gestori e sistematori abbastanza organici della propria produzione da ridestinarsi a volumi, il Sacchi di "Epoca", operante regolarmente sul settimanale dal 1954 al 1971, si concesse una sola uscita estemporanea del genere, presso l'editore stesso del periodico: la silloge, presumibilmente personale, di circa ottanta recensioni pubblicate tra il '56 e il '57, con pochissime puntate retrospettive, cui non fecero più seguito analoghi tentativi.
Anche le parziali testimonianze postume della sua ultradecennale presenza alla rubrica del "Corriere", quelle raccolte di fatto dal compianto Savio nel suo irrinunciabile Ma l'amore no, e le altre, organicamente assemblate con un lavoro già esemplare nella sua tesi di laurea, e in un volume più recente, ma purtroppo di non facile reperimento, da Elena Marcarini, non soddisfano completamente il nostro legittimo desiderio di leggere e rileggere di più di questo infaticabile osservatore, particolarmente riguardo all'attività, degli ultimi vent'anni della sua vita.
Per quanto mi concerne, e non credo di essere l'unico della nostra generazione, non ho difficoltà a confessare anche un'ovvia implicazione autobiografica. Quando il cinema cominciava ad attrarmi - e ben a ragione, a cavallo tra il finire degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta: guardate subito di che film si trattava, nella prima parte della raccolta! - il settimanale mondadoriano, non saprei neppur dire da quando e perché, entrava su abbonamento anche in casa mia. E continuò ad entrarci finché me ne uscii io, più o meno in coincidenza con la scomparsa del grande critico. Insomma, qualcosa del cinema ho cominciato a impararla li: e oggi, rileggendo in maniera consecutiva e ininterrotta tutti quegli articoli, non è stato difficile accorgermi di dovere loro, al di là dell'apparente "facilità" con cui si fanno percorrere, assai più di quanto non avrei, scioccamente, creduto. E sono quindi ancora una volta in debito anche con la mia indimenticata docente di lettere alle medie, la signorina Emilia Provenzal, che ce li indicava, quando parlava di cinema (con prudenza e riserbi perifrastici impagabili, ma commossa sul serio, ad esempio, di Hiroshima mon amour, rammento, al cui proposito quindi doveva essersi trovata in contrasto col critico prediletto...) come esempi, insieme, di bello scrivere italiano e di bel pensare antifascista. E la seconda cosa, per lei toscana, purista e degna figlia di tanto padre, era ancor più importante della prima. E fini per esserlo vita natural durante, ringraziando il cielo che ce la mandò, per la stragrande maggioranza dei suoi allievi!
Tale predilezione era sicuramente collegata, oltre che alla qualità del suo apporto, all'ammirazione per il percorso esistenziale, etico e politico, le esperienze e le scelte, soprattutto la sostanziale irriducibilità di Filippo Sacchi. Non a caso, del resto, la manifestazione dell'antifascismo militante per la quale Emilia maggiormente si appassionava, era l'intrapresa giornalistica del "Non mollare": a diciotto anni dalla sua scomparsa, anche di lei mi chiedo, come per tanti altri amici che da troppo non ci sono più, in che modo commenterebbe lo sciagurato quadro quotidiano che ci tocca. Come l'avrebbe commentato Sacchi, è probabilmente più facile saperlo, riferendosi allo scritto di ottant'anni fa giusti, rammentato in cronologia e qui citato in apertura.
È un pezzo celebre, da antologia del grande giornalismo internazionale, che ci rammenta la prima parte della vita dell'autore, giornalista per vocazione, inviato internazionale dalla carriera rapidissima, certo assistita anche da quel mix di audacia e fortuna indispensabile in tali frangenti. Tra il '15 e il '25, grazie anche all'autorevolezza riflessa dalla testata, il trentenne vicentino si trova a divenire una "firma" alla pari con le maggiori dell'epoca, in una fase nella quale il prestigio della carta stampata, la credibilità del giornalista - si pensi, agli antipodi, allo stesso Mussolini e alla parabola del suo "Popolo d'Italia" - e il mito dell'inviato speciale, in un'era forse per sua buona sorte non ancora multimediale, forniscono, presso la parte "acculturata" della popolazione, una sorta di consacrazione massima.
A tutto questo (non sarà l'unico) egli rinuncia, non a cuor leggero, per coerenza politica, e prima ancora per rivolta morale. La rottura parigina col ministro De Stefani coinciderà con la rinuncia al già conquistato proscenio nel proprio lavoro (ma Sacchi saprà "rompere" di nuovo, all'occorrenza, nel dopoguerra, certo in circostanze meno drammatiche: ancora col "Corriere" al momento della sostituzione di Borsa con Emanuel, nell'inutile revanche filomonarchica dei Crespi; con Debenedetti e "La Stampa", oltre un decennio dopo).

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