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Rassegna stampa di Mario Monicelli

Mario Monicelli è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, musicista, assistente alla regia, è nato il 15 maggio 1915 a Viareggio (Italia) ed è morto il 29 novembre 2010 all'età di 95 anni a Roma (Italia).

ALESSANDRA LEVANTESI
La Stampa

Quando fu inaugurata sotto la guida di Lino Micciché la Mostra del Nuovo Cinema, Mario Monicelli aveva già firmato alcuni dei film considerati i suoi capolavori ( La grande guerra, I compagni); ma la rassegna pesarese, improntata a un assoluto rigorismo autoriale, non gli avrebbe certo dedicato una personale. Oggi invece la tradizionale rassegna si conclude proprio con una tavola rotonda dedicata al maestro della commedia italiana e con la proiezione in piazza del Popolo di Speriamo che sia femmina (e speriamo che non piova). Segno che qualcosa è cambiato sul fronte della cinefilia più intransigente, soprattutto nel rapporto più possibilista con il cinema-cinema di cui Monicelli è uno dei massimi rappresentanti. Alla personale dei suoi film, secondo la benemerita abitudine del Festival attualmente diretto da Giovanni Spagnoletti, si accompagna un bel libro intitolato Lo sguardo eclettico (Marsilio) a cura di Leonardo De Franceschi. Altri volumi sono dedicati alle sezioni di Il cinema giapponese di oggi e Il nuovo cinema ieri e oggi (con particolare riguardo ai cinquant'anni dei Cahiér du Cinéma), integrando le offerte di una manifestazione che nonostante gli aggiornamenti e i ripensamenti continua a essere diversa da tutte le altre per la serietà e l'impegno di un discorso eminentemente culturale. Si prevede che il veterano Monicelli, pur lusingato di vedersi ormai accolto nell'empireo del cinema d'autore, correggerà l'affettuoso rituale della celebrazione tirando fuori i suoi tipici interventi improntati all'abituale concretezza professionale e all'ironia, che spesso diventa autoironia, con la quale sa guardare alle cose del cinema e della vita.

GIAN LUIGI RONDI
Il Tempo

Un regista che, con i suoi film più recenti, è venuto acquistando una posizione di preminenza nel nostro cinema, è senza dubbio Mario Monicelli. Con I soliti ignoti si era felicemente inserito fra i nostri migliori autori comici, con una disinvoltura, però, una ricchezza di fantasia, un estro, una versatilità che pochi in questo campo potevano eguagliare, tanto più che il film, pur tentando largamente i temi umoristici e pur tentandoli sulla scia della commedia all'italiana, riusciva a nobilitarli con una dignità anche nella caricatura piuttosto insolita e con un brio che, nonostante la complessità di un'azione ad ogni passo fonte di sorprese, non veniva mai meno; quasi sorretto da un inesauribile slancio. E uno stile, d'altro canto, elle, anziché farsi corrivo, data la facilità dei temi, mirava sempre a un severo rigore e a un gusto figurativo serio ed attento.

NELLO AJELLO
L'Espresso

De Sica e Gassman. Vitti e Ullmann. Il fascismo e la commedia all'italiana. Incontro con il regista.
Alla vigilia del suo compleanno: 94 anni Il 24 maggio celebrerà il suo compleanno: sono 94 compiuti, con 65 film all'attivo. Il regista Mario Monicelli ne ha di cose . da raccontare e lo fa con una verve che sembra crescere con l'età. Riferendomi al prossimo anniversario, ho appena-scritto celebrerà, ma non è la parola giusta. Fa pensare a un'intenzione auto-agiografica estranea all'indole di questo toscano arguto, pugnace, provocatorio, che non si atteggia a maestro e detesta che lo chiamino così. Non resta che ascoltarlo.
Monicelli, non vorrei offenderla, ma mi dica: lei ha acquisito la saggezza?
«La saggezza non rientra fra le mie conquiste. Mi limito a nutrire convinzioni, a maturare giudizi. La prima convinzione è che, non essendo credente, non ho paura di morire. La vita, nel complesso mi è stata propizia. Me la sono cavata, e va bene così. Un secondo pensiero riguarda la mia generazione e il modo di considerarla. Con una premessa: non nutro nostalgia per il passato».
Nostalgia: neppure un poco?
«Neppure un poco. Ho anzi, il terrore che mi credano nostalgico. Ciò non toglie che provi orgoglio per questo paese e per la sua gente, ripensando a com'erano ai tempi della mia gioventù. Sto parlando di una leva di italiani - la mia - che, avendo subìto nella propria carne una dittatura stupida e una guerra ridicola, seppero poi comportarsi in maniera fattiva e solidale, dando una mano a chi ne aveva bisogno. Caduto il fascismo si riuscì, in sostanza, a rimettere in piedi un paese ridotto allo stremo, dotandolo di un certo benessere, dandogli un assetto industriale».
Quanto ne resta in piedi, oggi, di quell'Italia?

BARBARA PALOMBELLI

Roma. Luci accese in un piccolo appartamento-studio affacciato sui vicoli del rione Monti, sulla scrivania piena di carte c’è un libro aperto, dalle finestre s’intravede il Colosseo illuminato. L’uomo in jeans e pullover che abita da solo in questo spazio dipinto di azzurro si muove come un ragazzo, eppure sta per compiere novant’anni. Fra poco racconterà, con la durezza e la sincerità che sono sue come uno stemma di famiglia, cosa pensa dell’inestricabile rapporto che lega fra loro il cinema e la politica. Dai tempi del fascismo, «il sistema che ha fatto di più per il cinema italiano, dai littoriali alla mostra di Venezia», ai democristiani, «i più tolleranti», fino al governo Berlusconi, «che lo odia, lo sta facendo spegnere lentamente, negandogli i mezzi e i finanziamenti necessari». Si comincia dall’ultima polemica... «Un film su Bettino Craxi e su Tangentopoli? Forse, ci vorrebbero dei comici, per raccontare gli intrallazzi di quegli anni... Dovrebbero usare, comunque, delle maschere, dei personaggi di fantasia, come abbiamo sempre fatto. Il nostro cinema, finora, ha raccontato direttamente soltanto un uomo politico: Aldo Moro. Prima, quando era al vertice del potere, lo hanno fatto, con Todo Modo, Leonardo Sciascia ed Elio Petri... Da morto assassinato, alcuni documentari per addetti ai lavori hanno indagato sui cinquantacinque giorni del sequestro. Io, poi, il film su Craxi non potrei farlo: sono uscito dal Psi dopo più di trent’anni, insieme a Comencini, Age, Scarpelli, giusto un anno dopo la sua elezione, alla fine degli anni Settanta: avevamo capito subito che piega avrebbe preso il partito...

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Personaggio insolito nel quadro di un cinema perbenista, o melodrammatico, questo finto toscano (dice di essere nato a Viareggio, dove in effetti visse soltanto, a lungo, in gioventù) ha sconvolto le regole educate della commedia, inaugurando - dopo una serie di esperienze nel giornalismo e nel cinema amatoriale a Milano e dopo essersi messo al sevizio di registi di varia estrazione (Machaty, Genina, Camerini) - una singolare stagione di aggressività comico-farsesca che attinge alla veneranda tradizione della poesia burlesca, dal Pulci a Teofilo Folengo. In compagnia di Steno tiene a bada le intemperanze di una «marionetta» come Totò, forma un duo di disperati (Totò e Aldo Fabrizi) per Guardie e ladri (1951), tenta perfino l'analisi di costume con Le infedeli (1953) e, finalmente, si presenta in proprio con la storia di una beffa che il destino gioca a un gruppo di sprovveduti ladruncoli (I soliti ignoti, 1958) individuando il tema della sua comicità amara, imperniata sulle ambizioni sbagliate e sull'inutile arrabattarsi dei poveracci condannati a restare poveracci.

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