Mario Monicelli è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, musicista, assistente alla regia, è nato il 15 maggio 1915 a Roma (Italia) ed è morto il 29 novembre 2010 all'età di 95 anni a Roma (Italia).
Quando fu inaugurata sotto la guida di Lino Micciché la Mostra del Nuovo Cinema, Mario Monicelli aveva già firmato alcuni dei film considerati i suoi capolavori ( La grande guerra, I compagni); ma la rassegna pesarese, improntata a un assoluto rigorismo autoriale, non gli avrebbe certo dedicato una personale. Oggi invece la tradizionale rassegna si conclude proprio con una tavola rotonda dedicata al maestro della commedia italiana e con la proiezione in piazza del Popolo di Speriamo che sia femmina (e speriamo che non piova). Segno che qualcosa è cambiato sul fronte della cinefilia più intransigente, soprattutto nel rapporto più possibilista con il cinema-cinema di cui Monicelli è uno dei massimi rappresentanti. Alla personale dei suoi film, secondo la benemerita abitudine del Festival attualmente diretto da Giovanni Spagnoletti, si accompagna un bel libro intitolato Lo sguardo eclettico (Marsilio) a cura di Leonardo De Franceschi. Altri volumi sono dedicati alle sezioni di Il cinema giapponese di oggi e Il nuovo cinema ieri e oggi (con particolare riguardo ai cinquant'anni dei Cahiér du Cinéma), integrando le offerte di una manifestazione che nonostante gli aggiornamenti e i ripensamenti continua a essere diversa da tutte le altre per la serietà e l'impegno di un discorso eminentemente culturale. Si prevede che il veterano Monicelli, pur lusingato di vedersi ormai accolto nell'empireo del cinema d'autore, correggerà l'affettuoso rituale della celebrazione tirando fuori i suoi tipici interventi improntati all'abituale concretezza professionale e all'ironia, che spesso diventa autoironia, con la quale sa guardare alle cose del cinema e della vita.
Da La Stampa, 30 Giugno 2001
Un regista che, con i suoi film più recenti, è venuto acquistando una posizione di preminenza nel nostro cinema, è senza dubbio Mario Monicelli. Con I soliti ignoti si era felicemente inserito fra i nostri migliori autori comici, con una disinvoltura, però, una ricchezza di fantasia, un estro, una versatilità che pochi in questo campo potevano eguagliare, tanto più che il film, pur tentando largamente i temi umoristici e pur tentandoli sulla scia della commedia all'italiana, riusciva a nobilitarli con una dignità anche nella caricatura piuttosto insolita e con un brio che, nonostante la complessità di un'azione ad ogni passo fonte di sorprese, non veniva mai meno; quasi sorretto da un inesauribile slancio. E uno stile, d'altro canto, elle, anziché farsi corrivo, data la facilità dei temi, mirava sempre a un severo rigore e a un gusto figurativo serio ed attento.
Quello stesso stile e quello stesso gusto, accoppiati in una vena umoristica più contenuta e raccolta, dovevano imporsi maggiormente -- anzi, quasi clamorosamente - nella Grande guerra che non solo riusciva ad essere la storia divertente di due soldati vigliacchi, ma della guerra '14-'18, delle sue pagine più vive, dei suoi climi più eroici riusciva ad esprimerci un compiuto ritratto, senza epopea ma egualmente vero e sincero, in una atmosfera figurativa che traeva tutta la sua suggestione da immagini in bianco-nero sapientemente ispirate ai toni sfumati delle vecchie fotografie di quei tempi; senza errori di gusto, senza cedimenti di sorta.
Eguali valori pittorici, ma minore interesse drammatico, ne I Compagni, realizzato da Monicelli subito dopo il breve e non molto convincente episodio da lui inserito in Boccaccio '70 (Renzo e Luciana). Qui lo studio delle prime lotte operaie della Torino fine secolo si risolve soprattutto in una ricostruzione d'ambiente; prevale la ricerca dei motivi tipici di un'epoca, il sapore della ricostruzione quasi archeologica; i personaggi sono un poco fittizi e, quando s'impongono, si impongono solo per una certa loro esteriore violenza dialettica. Il filmo comunque nobile e severo e il suo linguaggio conferma le doti migliori del Monicelli eminentemente figurativo.
Da Cinema italiano 1952-1965, oggi, Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, Roma 1966
De Sica e Gassman. Vitti e Ullmann. Il fascismo e la commedia all'italiana. Incontro con il regista.
Alla vigilia del suo compleanno: 94 anni Il 24 maggio celebrerà il suo compleanno: sono 94 compiuti, con 65 film all'attivo. Il regista Mario Monicelli ne ha di cose . da raccontare e lo fa con una verve che sembra crescere con l'età. Riferendomi al prossimo anniversario, ho appena-scritto celebrerà, ma non è la parola giusta. Fa pensare a un'intenzione auto-agiografica estranea all'indole di questo toscano arguto, pugnace, provocatorio, che non si atteggia a maestro e detesta che lo chiamino così. Non resta che ascoltarlo.
Monicelli, non vorrei offenderla, ma mi dica: lei ha acquisito la saggezza?
«La saggezza non rientra fra le mie conquiste. Mi limito a nutrire convinzioni, a maturare giudizi. La prima convinzione è che, non essendo credente, non ho paura di morire. La vita, nel complesso mi è stata propizia. Me la sono cavata, e va bene così. Un secondo pensiero riguarda la mia generazione e il modo di considerarla. Con una premessa: non nutro nostalgia per il passato».
Nostalgia: neppure un poco?
«Neppure un poco. Ho anzi, il terrore che mi credano nostalgico. Ciò non toglie che provi orgoglio per questo paese e per la sua gente, ripensando a com'erano ai tempi della mia gioventù. Sto parlando di una leva di italiani - la mia - che, avendo subìto nella propria carne una dittatura stupida e una guerra ridicola, seppero poi comportarsi in maniera fattiva e solidale, dando una mano a chi ne aveva bisogno. Caduto il fascismo si riuscì, in sostanza, a rimettere in piedi un paese ridotto allo stremo, dotandolo di un certo benessere, dandogli un assetto industriale».
Quanto ne resta in piedi, oggi, di quell'Italia?
«Quel paese faticosamente redento è toccato in eredità alla generazione successiva che si è lasciata esaltare dal consumismo, sedurre dalla civiltà dell'immagine, cedendo agli imperativi del mercato e alla corruzione sopraffattrice che ne consegue. Basta guardarsi intorno: la nostra povera Penisola va alla deriva. S'affaccia su un Mediterraneo che rappresenta ormai un'immensa tomba per chi viene dal Terzo mondo, attirato dalla falsa immagine di Bengodi che gli presentano gli strumenti di diffusione di massa. Ciò che vedo mi procura rabbia e rancore. Altro che nostalgia! ».
Quali nuovi progetti ha in mente?
«Ormai non mi sento più creativo. Non intendo esserlo. Nel mio mestiere ci sono tanti giovani che vogliono raccontare il loro tempo - spero, almeno, che ci siano - ma non dispongono dei mezzi per farlo. Non voglio che, vedendomi lavorare ancora a un film, mi mandino a dìre: "Stia calmo, si metta tranquillo, si riposi"».
In che modo lei, da giovane, si accostò al cinema? C'erano precedenti familiari?
«In un certo senso si. Mio padre, prima della Grande Guerra, fondò una rivista di cinema, "In Penombra", che raccontava al pubblico questa nuova forma espressiva: le immagini in movimento. All'epoca non ero ancora nato. Poco più tardi, dal 1920 in poi, mia madre, che aveva cinque figli, quasi ogni pomeriggio prendeva me e mio fratello Franco, d'un paio d'anni più grande di me, e ci portava al cinema. Passavamo mezza giornata in quelle sale fumose, sporche, affollatissime, con gente seduta per terra. Donne che allattavano i bambini fissavano le scene che passavano sul lenzuolo. Era come se in sala si esibisse una seconda compagnia d'arte. Si faceva il tifo per i "nostri" che stavano arrivando, si difendeva la ragazza innocente e si condannava quella "perversa", s' inveiva contro il traditore e il nemico. Ci si commuoveva. Si gioiva: Si urlava e piangeva con molto rumore. Posso dire di non aver mai visto film più sonori dei film muti. Ne ero conquistato».
II sonoro stava comunque per arrivare: diciamo, fra il '29 e il '30.
«Essendo io del 1915, per lungo tempo mi sono abbeverato a quegli spettacoli. Di fronte agli occhi di un pubblico ingenuo transitavano vicende tenere, romantiche, pietose, allegre, crudeli. Per gustarle non era necessario conoscere alcuna lingua, nemmeno la propria. Fluttuava per l'aria un linguaggio universale. Come la musica».
Le è capitato più volte di affermare che il fascismo faceva grande affidamento al cinema. In che senso?
«Nel senso che lo considerava l'Eldorado della propaganda. Dal potere bolscevico aveva mutuato l'idea che le immagini in movimento fossero uno strumento centrale per diffondere l'ideologia. Il grande cinema russo rappresentava, in questo senso, un esempio maestoso. La cultura fascista cercava di adeguarsi a quella scuola».
Viene da pensare a Cinecittà, alla mostra dei cinema di Venezia.
<=O ai Littoriali. Anche lì si guardava al cinema. Ero al primo anno di Università quando vi partecipai con un piccolo film muto tratto da un racconto di Edgar Allan Poe. Quel trio tentativo-ventre subito tacciato di paranoia. A ragione, in fondo. Con la cultura fascista Poe c'entrava davvero poco».
Il favore concesso al cinema coincideva con l' intento di condizionarlo: Che cosa ricorda della censura fascista?
«Che nel cinema si potessero contestare (o anche solo discutere) le idee politiche del regime era impensabile. Nel costume, il tabù principale riguardava la famiglia.`Se una pellicola metteva in scena episodi di adulterio - eventualità fatale, trattandosi spesso di intrecci amorosi - era di rigore che le cose tornassero in ordine, con il trionfo della concordia domestica. Se proprio non era possibile arrivare a un lieto fine salvando la morale, la vicenda doveva svolgersi obbligatoriamente in una delle democrazie corrotte del tempo: in Francia o in Ungheria. A Parigi o a Budapest, capitali perverse e depravate. Passi per Parigi, ma perché mai Budapest, dove imperava il fascistissimo ammiraglio Horty? Sono ancora qui a domandarmelo».
Dalla "Grande Guerra" elle "Le rose dei deserto", tratto da "Il deserto della Libia" di Tobino, l'argomento bellico è uno dei suoi preferiti. Come fu l'esperienza militare dei giovane Monicelli?
«Fisicamente molto dura. Ma non solo. Rischi e fatiche di guerra rientravano nel destìno dei tempi. Ma per me c'era in più una lacerazione. Se ero esposto a un'insidia reale, poniamo un bombardamento, la guerra mi faceva ovviamente paura. Ma se mi trovavo in un luogo protetto, confidavo nel trionfo del nemico. Che tutto dovesse concludersi con una vittoria del Reich nazista lo consideravo una minaccia».
In un certo senso, era un isolato.
«Sempre di meno. In una serata d'inverno fra il '42 e il '43, nei pressi di Zagabria dove mi avevano mandato, da una stazione-radio balcanica sentii le note di Lili Marleen. Una rivelazione. Un mio commilitone siciliano mi riferì che molti tedeschi erano innamorati della ragazza Lili, quella della canzone, la quale secondo gli standard del tempo era una poco di buono che se la faceva con un militare. Quel mio compagno d'armi mi chiese anche che cosa significasse quell'infatuazione collettiva. Che hanno perso la guerra, o cominciano a perderla, gli risposi».
Ma spostiamoci nel dopoguerra. Per lungo tempo la commedia all'italiana, veniva ufficialmente considerata spazzatura. Poi ha trionfato anche in sede critica. Perché?
«I primi ad apprezzare quei film furono i francesi. Li trovavano realistici, polemici, sferzanti. Fu l'inizio d'una consacrazione. Oggi siamo addirittura al panegirico: un'esagerazione».
Come considera i padri del cinema italiano: Rossellini, De Sica, Visconti. Chi fra loro ha frequentato più da vicino?
«De Sica. Oltre che un regista celebre era un ottimo attore. L'ho diretto in due o tre film». È meglio Fellini o Antonioni?
«Sono così diversi. Ma una preferenza personale ce l'ho: Antonioni. Vorrei aver fatto i film che ha fatto lui: "L'avventura", "Blow Up», "Professione reporter"».
Ci sarà qualche mostro sacro dei cinema mondiale che non la entusiasma.
«Ingmar Bergman, un grande regista di pellicole odiose. Racconta in maniera magistrale una società miserabile, depravata. Si specchia nell'alta borghesia del nord Europa, che è del tutto priva di pietà sociale».
Mi ricordi gli attori più grandi con i quali ha lavorato.
«Oltre a De Sica, Sordi, Mastroianni, Gassman, Tognazzi, Claudia Cardinale, Monica Vitti. Ne dimentico qualcuno? ».
Uno dei meriti della commedia all'italiana è di aver trasformato attori drammatici in personaggi, appunto, da commedia.
«Anche a me è capitato di farlo. Prima di diventare quel pugile suonato e un po' sbruffone dei "Soliti ignoti", Gassman si esibiva nel grande teatro. Al cinema faceva il cattivo, l'Antagonista. Ricorda "Riso amaro"? La Vitti, che era stata con Antonioni un'interprete dell'incomunicabilità aggrappandosi spesso alle tende, nella "Ragazza con la pistola" diventò una donna sedotta é abbandonata che vuole vendicarsi. Liv Ullmann, quella dei film di Bergman, quando nell'ß5 la chiamai per "Speriamo che sia femmina" quasi non riusciva a crederci».
Si sa che Mario Monicelli non si è mai innamorato d'una sua attrice. Come ci è riuscito?
«Ho fatto per molti anni l'assistente alla regia. Vedevo a quali guai si esponevano i registi quando gli capitava di mettersi con un'attrice. Gelosie non tanto sentimentali quanto d'immagine, di presenza, di locandina e manifesto. Dio ce ne guardi. Mi sono astenuto. Ci sono donne bellissime anche fuori dello spettacolo».
In passato lei si è sempre professato comunista. Continua a esserlo?
«Sì, continuo. So bene che è stato un grande errore il voler imporre il comunismo a dispetto di tutto. Ma era un'aspirazione talmente generosa che non saprei con che cosa rimpiazzarla».
Non mi sogno di chiederle il bilancio d'una vita. Le domando invece se trova qualcosa di piacevole nei suoi novant'anni (e più).
«Sì, poter raccontare senza cautele ciò che mi è capitato. Se mi chiede che cosa penso della morte, le ripeto: non la temo. Non credo in Dio, almeno in un unico Dio».
Monicelli, lei è politeista?
«Mi piacerebbe vivere in un mondo come quello greco-romano. Solare, pagano, mediterraneo, con molti dei. Rallegrato da riti e feste popolari: saturnali, fescennini, falloforie. Pane e circensi».
Uno scenario piacevole, certo. Un po' utopistico.
«Le confido un ultimo desiderio. Se non le sembra presuntuoso, vorrei sacrificare un gallo ad Esculapio».
Da L’Espresso, 14 maggio 2009
Roma. Luci accese in un piccolo appartamento-studio affacciato sui vicoli del rione Monti, sulla scrivania piena di carte c’è un libro aperto, dalle finestre s’intravede il Colosseo illuminato. L’uomo in jeans e pullover che abita da solo in questo spazio dipinto di azzurro si muove come un ragazzo, eppure sta per compiere novant’anni. Fra poco racconterà, con la durezza e la sincerità che sono sue come uno stemma di famiglia, cosa pensa dell’inestricabile rapporto che lega fra loro il cinema e la politica. Dai tempi del fascismo, «il sistema che ha fatto di più per il cinema italiano, dai littoriali alla mostra di Venezia», ai democristiani, «i più tolleranti», fino al governo Berlusconi, «che lo odia, lo sta facendo spegnere lentamente, negandogli i mezzi e i finanziamenti necessari». Si comincia dall’ultima polemica... «Un film su Bettino Craxi e su Tangentopoli? Forse, ci vorrebbero dei comici, per raccontare gli intrallazzi di quegli anni... Dovrebbero usare, comunque, delle maschere, dei personaggi di fantasia, come abbiamo sempre fatto. Il nostro cinema, finora, ha raccontato direttamente soltanto un uomo politico: Aldo Moro. Prima, quando era al vertice del potere, lo hanno fatto, con Todo Modo, Leonardo Sciascia ed Elio Petri... Da morto assassinato, alcuni documentari per addetti ai lavori hanno indagato sui cinquantacinque giorni del sequestro. Io, poi, il film su Craxi non potrei farlo: sono uscito dal Psi dopo più di trent’anni, insieme a Comencini, Age, Scarpelli, giusto un anno dopo la sua elezione, alla fine degli anni Settanta: avevamo capito subito che piega avrebbe preso il partito...
Mario Monicelli oggi si definisce senza esitare: «Un comunista». E subito si spiega: «Spero che qualcuno ricominci daccapo, evitando gli errori commessi nel Novecento e realizzi una società più giusta, una società senza schiavi. Prima di Craxi, ero un socialista marxista, dopo ho sempre votato il Pci e un paio di volte per la sinistra ancora più a sinistra... Nel dopoguerra, tutti noi cinematografari eravamo di sinistra, non ho mai conosciuto un regista di destra, né ho memoria di film ispirati a temi o personaggi di destra. C’era l’egemonia, eccome. A parte qualche cattolico dossettiano, come Ermanno Olmi, a parte le paure di Fellini, che era un teosofo seguace del veggente Rohl, ma si andava a raccomandare da monsignor Arpa, una specie di santone cristiano, a parte l’attuale Pupi Avati, che ha diretto la tv dei vescovi e fa il cattolico, a parte il Rossellini segreto che pregava in privato e Franco Zeffirelli che ha un gusto innato per le cerimonie e i fasti religiosi… tutti gli altri, a sinistra. Dovrei parlare di Pasquale Squitieri, che ora fa il destro, ma è meglio non dire...».
Tutti a sinistra. Compresi gli squali, i megaproduttori miliardari con ville, piscine, automobili e dive al fianco? «Brava. Era proprio così. Intanto, erano tutti ex poveracci arricchiti in fretta negli anni del boom, senza stile, molto artigiani. Avevo scritto un film che si chiamava proprio Gli squali, ma Franco Cristaldi, che era un siciliano benestante, parente dei Marzotto, lo rifiutò perché lo trovava “anticapitalista”, erano storie di imprenditori cialtroni... Eppure, Cristaldi aveva prodotto I compagni, ricordo che a una proiezione al palazzo dei Congressi a Roma i socialisti presenti in sala, divisi fra massimalisti e autonomisti finirono per picchiarsi, i primi accusavano i nenniani di calarsi troppo le braghe... La verità è che i produttori si buttavano a sinistra perché volevano essere liberi. Al cinema e nella vita privata. Dino De Laurentiis, quando s’innamorò della Mangano, doveva trovare il modo di separarsi dalla sua bella moglie Bianchina e tentò una serie di pasticci legali fra il Messico e San Marino; Carlo Ponti si vantava di essere un avvocato socialista, anche lui aveva un secondo matrimonio in programma, con la Loren... il divorzio non c’era ancora. La Democrazia cristiana, sorniona, lasciava correre. Tanto, c’era la censura.» Perfino Guardie e ladri, con Totò e Aldo Fabrizi, fu tagliato: «L’idea che un poliziotto e un truffatore potessero fare amicizia, nell’Italia degli anni Cinquanta, si disse, minava le basi della società italiana. Problemi politici anche per Totò e Carolina, storia di una ragazza madre in viaggio con un agente di polizia. L’accusa? “Sovvertiva la morale.” Il fatto è che a presiedere la commissione c’era un fascista sopravvissuto al crollo del regime, tale Annibale Scicluna Sorge, un maltese nazionalista, uno che partì in barca e arrivò qui per consegnare Malta a Mussolini...».
Mario Monicelli è appena rientrato dal Marocco – gira un film, ispirato al romanzo di Mario Tobino, Il deserto della Libia, il libro aperto sul tavolo da lavoro – e un filo di abbronzatura gli dona. Sorride: «La cosa più difficile è trovare gli attori, oggi, per una storia degli anni Quaranta. Noi militari eravamo piccoli e plebei, con le gambe corte, il culo basso. Oggi i ventenni sono tutti alti e palestrati, sembrano ballerini...». La guerra italiana, con il suo fango, il troppo caldo e il troppo freddo, la piccola viltà e i grandi eroismi sospesi fra il ridicolo e la solennità: nel cuore del regista c’è ancora spazio per raccontarla. Dopo aver girato La grande guerra, il suo capolavoro, vuole raccontare la sua Libia. Allora, racconta, fu dura, «con quella storia avevo rotto un tabù: i due lavativi, Sordi e Gassman, erano reali, esattamente come i seicentomila morti del ‘15 - ‘18 celebrati in tutte le piazze. Giulio Andreotti, a quel tempo ministro della Difesa, in principio mi assicurò il suo sostegno, che consisteva nel fornire un po’ di armi, divise e ferrivecchi. Tutta la stampa ci saltò addosso, con editoriali in prima pagina, e lui ritirò il suo assenso. Finimmo, con De Laurentiis, a girare in Yugoslavia. Dove io avevo combattuto una parte della mia guerra vera, quella che i bollettini ufficiali raccontavano come fossegià vinta, dopo l’entrata di Hitler a Parigi. Ricordo i miei coetanei che partivano allegri, incoscienti: sicuri che avremmo vissuto sei mesi da dominatori del mondo, ci saremmo fatti le nere, le russe, una gran pacchia. Cantavano, “Colonnello non voglio armi... la fine dell’Inghilterra incomincia da Giarabub”, la famosa oasi che aveva resistito... E io invece, da antifascista, tifavo per il nemico. Partivo con un esercito di disperati, guidati da ufficiali ridicoli, senza illusioni, finisce sempre così per noi...».
Storie vere, vissute. «Non come quelle inventate, non come quella mascalzonata di Benigni in La vita è bella, quando alla fine fa entrare ad Auschwitz un carro armato con la bandiera americana. Quel campo, quel pezzo di Europa lo liberarono i russi, ma... l’Oscar si vince con la bandiera a stelle e strisce, cambiando la realtà.» Il ragazzo di novant’anni ha ancora un’autentica passione per la politica. Se l’ha nascosta dietro un apparente cinismo, nutrito con ideali e battaglie soltanto cinematografiche, è per una ferita privata, antica. Suo padre Tommaso, critico e giornalista, giovane nazionalista e camicia azzurra, aderì in un primo momento al fascismo. Da direttore del «Resto del Carlino», nella Bologna del federale Leandro Arpinati, si ribellò: scrisse un editoriale durissimo contro il regime, in occasione del delitto Matteotti. «Fummo assaliti, la nostra villetta fu presa a sassate dai fascisti, ci difendevano i militari, avevamo due o tre soldati in cantina con i fucili. Ero ragazzino, mi sentivo in battaglia. Mio padre fu licenziato e non rientrò mai più nel giornalismo attivo. Intanto, i nostri parenti più stretti, i Mondadori, si erano allineati: vendevano libri a tutte le scuole del Regno. Lui non si piegò. Durante la Resistenza, aiutò i giornali clandestini. Al momento della Liberazione, tutti si dimenticarono di lui. Una mattina del 1946, all’alba, nella casa di via Adige, andò in bagno e si sparò. Aveva sessantatré anni. E io c’ero, quando mia madre lo trovò in terra.» I giornali pubblicarono la notizia «in quattro righe». Storie italiane. Tanto coraggio, tanta viltà e tanto conformismo. Gli ingredienti delle nostre vite e delle nostre commedie.
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006
Personaggio insolito nel quadro di un cinema perbenista, o melodrammatico, questo finto toscano (dice di essere nato a Viareggio, dove in effetti visse soltanto, a lungo, in gioventù) ha sconvolto le regole educate della commedia, inaugurando - dopo una serie di esperienze nel giornalismo e nel cinema amatoriale a Milano e dopo essersi messo al sevizio di registi di varia estrazione (Machaty, Genina, Camerini) - una singolare stagione di aggressività comico-farsesca che attinge alla veneranda tradizione della poesia burlesca, dal Pulci a Teofilo Folengo. In compagnia di Steno tiene a bada le intemperanze di una «marionetta» come Totò, forma un duo di disperati (Totò e Aldo Fabrizi) per Guardie e ladri (1951), tenta perfino l'analisi di costume con Le infedeli (1953) e, finalmente, si presenta in proprio con la storia di una beffa che il destino gioca a un gruppo di sprovveduti ladruncoli (I soliti ignoti, 1958) individuando il tema della sua comicità amara, imperniata sulle ambizioni sbagliate e sull'inutile arrabattarsi dei poveracci condannati a restare poveracci.
La grande guerra (1959), Leone d'oro a Venezia, manda due soldatini allo sbaraglio e li fa morire fucilati (Alberto Sordi e Vittorio Gassman). I compagni (1963) narra con commossa partecipazione la vicenda di un sindacalista (Marcello Mastroianni) all'alba del socialismo italiano. L'armata Brancaleone (1966) porta a spasso per l'Italia medievale un branco di straccioni che inseguono vanamente la fortuna e trovano spaventosi guai. La ragazza con la pistola (1968) rappresenta in chiave grottesca, e con piglio energico, la rivolta della donna del sud. Romanzo popolare (1974) affonda il coltello nella piaga antica del razzismo di casa. Amici miei (1975) allinea con metodica insistenza gli scherzi e le beffe di alcuni idioti di mezza età. Un borghese piccolo piccolo (1977) risolve in tragedia la ignobile e grottesca fame di vendetta di un cialtrone (Alberto Sordi). Speriamo che sia femmina (1986) irride alla viltà maschile e amabilmente graffia la generosità femminile. Parenti serpenti (1991) è un ritratto fosco della crudeltà familiare. Questi, e tanti altri, sono i film feroci di un regista strafottente, cinico talvolta.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995