Alain Robbe-Grillet. Data di nascita 18 agosto 1922 a Brest (Francia) ed è morto il 18 febbraio 2008 all'età di 85 anni a Caen (Francia).
C'est Gradiva qui vous appelle, il nuovo film di Robbe-Grillet, classe 1922, fa inneggiare i francesi all'autore «sempreverde», dall'invenzione della «scuola dello sguardo» coi romanzo Le gomme (1953)alla sua applicazione filmìca con L'anno scorso a Marienbad (1961), ARG ha seguitato a produrre, provocare. Questa Gradiva salta Freud, riprende il romanzo di Jensen cui Freud s'ispira e tra ardimenti sessuali e depistamenti semantici si svela addirittura «tenera»! Sempreverde. Di più, di più.
«Davo, posso avere una spatola? Togliamo il nero da lì. Voglio metterci del giallo. No, in alto! Non in basso! Ho detto in alto!». Dall'altra parte del telefono, Julian Schnabel dirige un suo assistente mentre mi parla. È nel suo studio di Montauk, a Long Island, uno spazio all'aria aperta con tre pareti di cemento e un lato del pavimento che si prolunga (a uso trampolino) qualche metro al di sopra della piscina azzurra. Poco distante c'è la sua casa al mare, un'elegante costruzione in legno firmata dal famoso architetto di fine secolo Stanford White. « A New York sono homeless, in questo momento», mi aveva spiegato qualche giorno prima. «Perché sto costruendo un palazzo veneziano sulla cima della mia casa! ». Di come un palazzo veneziano di stucco rosso fragola dotato di numerose terrazze, archi multilobati, camini immensi e persino una fontana di azulejos, sia finito sul tetto di una vecchia fabbrica di profumi del West Village, a pochi metri dal fiume Hudson, parleremo dopo - Schnabel fiunziona come una sorta di tromba d'aria creativa, frulla dentro di sé ogni cosa che ama...
Prima di tutto congratulazioni per il suo nuovo film, Le Scaphandre et le Papillon, miglior regia a Cannes 2007. «In un certo senso per me è più un meccanismo di self help sotto forma di realtà virtuale che un film», dice Schnabel dell'adattamento del libro autobiografico di Jean-Dominique Bauby. «La certezza della morte mi ha sempre turbato molto, fare questo film era un modo di affrontarla. In più c'è la memoria di mio padre, che è mancato l'anno scorso, a 92 anni. Era terrorizzato all'idea di morire. Io avrei fatto qualsiasi cosa per alleviare la sua paura». Improvvisamente paralizzato da una rarissima forma di ictus, a Bauby, ex caporedattore di Elle, era rimasto solo l'uso di un occhio. Le Scaphandre et le Papillon, pubblicato pochi giorni dopo la sua morte, è quindi un libro dettato letteralmente (servendosi di quell'unica palpebra) dallo sguardo.
Schnabel aveva già filmato biografie di artisti mori precocemente (Jean Michel Basquiat e Reinaldo Arenas), ma questa è la sua riflessione più teorica sul cinema - la prima mezz'ora una soggettiva ininterrotta nel mondo parallelo che l'unica orbita di Bauby ritaglia da ciò che gli sta intorno. Quando dico a Schnabel che il lavoro insistente, visionario che ha fatto sui primi piani delle bellissime donne che popolano il film (tra cui Emmanuelle Seigner, Marie Josée Croze e sua moglie, Olatz Lopez Garmendia) sarebbe piaciuto al suo amico Warhol, lui sembra contento: «Se guardi i miei quadri, vedi che ho passato la vita a dipingere grosse forme che emergono dalla sinistra della tela, o salgono dal basso. Anche in un film, non vedo le facce in quanto tali, ma in quanto forme di una certa dimensione in uno spazio. Non ho, per così dire, una nozione gerarchica del figurativo».
«Se l'immaginazione e la memoria potevano essere le farfalle che liberavano quest'uomo dallo scafandro, io nel film potevo mettere di tutto. È anche per questo che l'idea mi piaceva molto», va avanti a raccontare il regista, che ha popolato Le Scaphandre di toreri, surfisti, sciatori; di ghiacciai che si sgretolano e magicamente si ricompongono; delle musiche e delle location del Truffant di I 400 colpi, delle note di Bach e di Lou Reed. Lo dicevamo prima, la creatività di Schnabel funziona come una tromba d'aria. Imminenti, per lui, tre nuove tappe italiane. Dopo la mostra romana a Palazzo Venezia (chiusa il 17 giugno), il 27 Schnabel ne inaugura una versione milanese alla Rotonda della Besana (fino al 16/9): «Sono spazi radicalmente diversi da quelli romani, quindi ho cambiato l'allestimento», spiega, «ma il concetto è lo stesso: 30 dipinti esemplari degli ultimi 30 anni. Sostituire qualche quadro, però». Sempre a Milano, alla Milanesiana, sarà presentato lo spettacolo di Lou Reed Berlineluglio) tratto dall'omonimo album inciso nel 1973. Schnabel ne firma la regia. «Berlin è uno dei miei dischi preferiti. Quando uscì fui un fallimento clamoroso, ma io l'ho ascoltato molto in anni difficili. Era un po' come un mio confidente, la "mia" musica triste. Ho sempre voluto fame qualcosa... A un certo punto pensavo di "combinarlo" con un libro che ho scritto nel 1987. Ma non avevo mai tempo. Fino a che altri hanno cominciato a parlare con Lou di farne uno spettacolo, e lui mi ha chiesto di dirigerlo».
Schnabel ha preparato la scenografia con gli ingrandimenti di certe vecchie stampe cinesi su cui aveva colato della resina, un divano verde del suo studio e della stoffa cambogiana. Ha anche chiesto a sua figlia Lola di filmare EmmanuelleSeigner nei panni di Caroline, la protagonista del disco. Alle immagini della figlia ha unito roba girata da altri. «Lou si è tanto divertito che ha deciso di portare lo spettacolo in tournée. Così gliene ho preparato una versione da viaggio», ride Schnabel. E dalla collaborazione col musicista newyorkese è nato anche un film che Schnabel porterà alla prossima mostra di Venezia. «Non lo definirei affatto un documentario, bensì un ritratto impressionista di Loti, che è anche il narratore: la storia è contenuta nelle canzoni. Ne sono molto soddisfatto».
«Voglio un po' di giallo sul blu, così. Forse adesso è meglio che ti fermi Dave. Forse è perfetto». Julian continua a dipingere per interposta persona mentre la nostra conversazione volge alla fine. Due giorni fa sono stata a vedereil suo «palazzo veneziano» nel Village - cinque mega appartamenti (lui le chiama homes, case), una galleria d'arte, garage, piscine, il suo studio, una foresteria... Tutto disegnato da lui. Come da lui sono stati scelti i materiali - legni rari recuperati da vecchie costruzioni, piastrelle portoghesi e marocchine, terrecotte californiane, meravigliose rubinetterie inglesi, ringhiere di ferro battuto fatte apposta... Gli ambienti sono amplissimi, perfetti per le sue tele enormi. «Ho costruito tutto come se fosse per me», dice Schnabel candido (uno degli appartamenti è gia stato acquistato da Richard Gere). li risultato è grandioso, bellissimo e, all'estemo, anche molto New York fine Ottocento - basta pensare a certi palazzi di Washington Square, con quelle torrette e gli archi inspiegabili agli ultimi piani. Schnabel lo definisce il suo «antidoto alle torri di vetro che - come quelle candide di Richard Meyer - stanno spuntando sempre più frequenti anche in questo quartiere della Downtown. «Alla fine, credo che tutto l'edificio diventerà un museo. Un luogo che la gente potrà percorrere guardando i miei quadri dove sono stati dipinti. Ma forse (sospim) io non ci sarò più».
Da Lo Specchio Giugno 2007
THESE days, the name Robbe-Grillet doesn’t ring many bells. A new chateau perhaps, whose grand cru goes well with meat? A deputy minister in Sarkozy’s government? An up-and-coming couturier?
How times have changed. Starting in the 1950s, the novelist, filmmaker and literary theorist Alain Robbe-Grillet, who died last week at 85, had a profound impact on international taste. An originator of the Nouveau Roman, or New Novel, and the screenwriter for Alain Resnais’s 1961 cult film “Last Year at Marienbad,” Mr. Robbe-Grillet was the very model of a postwar avant-gardist. His attempts to wrest fiction free from 19th-century constraints like plot and character, and to wrest objects free from imposed meaning, were never entirely popular with readers but had a decisive influence on critical theory and on the art of the novel, as well as on film, art and even psychology.
Mr. Robbe-Grillet’s first four novels — “The Erasers” (1953), “Jealousy” (1957), “The Voyeur” (1958) and “In the Labyrinth” (1960) — are “really the finest thing in French fiction of the second half of the 20th century,” said the poet and critic Richard Howard, who translated most of Mr. Robbe-Grillet’s early work into English for Grove Press.
Mr. Howard recalled his first meeting with the novelist, who was also a trained agronomist, in the mid-1950s. “He came into someone’s living room,” Mr. Howard said. “There was a bowl of narcissus bulbs in a dish, not doing very well. He started poking around and rearranging them, removing the water and the dirt, and he said, ‘Now they’ll be all right.’ I think he wrote novels in that way, making the situation pregnant with circumstances that would reveal everything that the novel was meant to reveal.”
The novel, Mr. Robbe-Grillet contended, was a 19th-century form, epitomized by the rich, naturalistic worlds of Balzac and Flaubert. The 20th century, though, was characterized by fragmentation and existential doubt, and the novel reached “a degree of stagnation,” he argued in his essay “A Fresh Start for Fiction.” He called for a radical departure: anti-realist, anti-naturalist, anti-descriptive, apolitical. “In this future universe of the novel, gestures and objects will be ‘there’ before being ‘something,’ ” he wrote. “They will still be there afterwards, hard, unalterable, eternally present, mocking their own meaning.”
Mr. Robbe-Grillet and the other so-called New Novelists, including Michel Butor, Nathalie Sarraute and Claude Simon, wanted to do in literature what others had done in art — just as Marcel Duchamp had deconstructed human motion in “Nude Descending a Staircase” and the Abstract Expressionists had valorized gesture, the movement of a brush stroke itself, over representation. Mr. Robbe-Grillet believed that writing should reveal the archaeology of its own construction, should depict a mind unfolding its thoughts over time.
His first novel, “The Erasers,” is an inverted detective story, while “Jealousy,” set on a Caribbean banana plantation, reads at turns like scientific observation and stage directions. (“The moment has come to inquire after Christine’s health. Franck replies by a gesture of the hand: a rise followed by a slower fall that becomes quite vague.”) The effect “was for many people sterile, for others exciting,” said Tom Bishop, a friend of the author’s and a French professor at New York University, where Mr. Robbe-Grillet taught every other year for 25 years. “He put the reader in a position where he had to be the central part of the novel.”
The literary theorist Roland Barthes was an early champion. “Robbe-Grillet is important because he has attacked the last bastion of the traditional art of writing: the organization of literary space,” Mr. Barthes wrote. The novelist was trying to destroy “the adjective itself,” he added. “The realm of qualification, for him, can be only spatial or situational.”
Susan Sontag also admired the New Novelists’ project, if not, perhaps, the work itself. While some French theories are “rather bleak,” she wrote in 1963, “the novel as a form of art has nothing to lose, and everything to gain, by joining the revolution that has already swept over most of the other arts.”
Others were equally impressed by Mr. Robbe-Grillet’s ideas, but not his fiction. In a review of “La Maison de Rendez-vous” (1966) — “Grove Is My Press, and Avant My Garde” — John Updike called Mr. Robbe-Grillet’s theories “the most ambitious aesthetic program since Surrealism,” but found his work faddish. Rooted in the past, Mr. Updike wrote, the novel “cannot but envy this constant present that does not tell but simply is, dancing and slicing through space ... a wordless vocabulary that engulfs us like an environment.”
Mr. Robbe-Grillet’s prose “is not so much written as scripted,” Mr. Updike wrote, with its “splicing, blurring, stop-action, enlargement, panning, and fade-out.” “La Maison” “lacks only camera tracks and a union member operating the dolly.” Less a work of art than “an objet d’art, shiny with its appliqué of progressive post-Existential thought, it has a fragile air of mere up-to-dateness, of chic.”
Indeed, by the 1970s, the “new novel” was no longer in vogue and Mr. Robbe-Grillet had been eclipsed in college courses by the holy trinity of French theory: Derrida, Foucault and Lacan.
Still, his influence lingers. Peter Kramer, the writer and psychiatrist best known for his 1993 book, “Listening to Prozac,” said Mr. Robbe-Grillet, with his belief in the arbitrary, was important. Mr. Robbe-Grillet “thinks there’s freedom to be had in resisting meaning,” said Mr. Kramer, who studied the New Novelists with the critic Frank Kermode in the early 70s. In the psychoanalytic world, Mr. Kramer said, “there’s meaning anywhere” whereas Mr. Robbe-Grillet offers an alternative: that “maybe we get less ideology, less constrained thought, if we just face a lack of meaning,” Mr. Kramer said. (Sometimes a cigar is just a cigar.)
Mr. Robbe-Grillet had “a huge influence” on his generation of writers, said the novelist Edmund White, who was born in 1940. “He showed us that the avant-garde was alive and well and thriving in Paris,” Mr. White wrote in an e-mail message. The early novels were “chillingly, haunting and unprecedentedly original pieces of writing,” Mr. White said, as was Mr. Robbe-Grillet’s film work. “Last Year at Marienbad” was “a milestone in the history of the cinema,” Mr. White said, “its formal, cold beauty and ever-shifting levels of reality, its gorgeous black-and-white camera work and its unforgettable performance by Delphine Seyrig were widely influential at the time.”
A dreamlike, fragmented narrative, “Last Year at Marienbad” opened in New York in 1962. The style, “with its use of glamorous, glazed-looking actors framed in mannerist poses within the glittering, implicitly decadent mirrored salons of a luxe European hotel, may no longer dazzle audiences that have seen it cribbed (and spoofed) by countless perfume ads and rock videos,” Mark Harris wrote in The New York Times last month. But its “nightmarishly looping, repetitive semi-narrative, drenched in incantatory voice-over and toxically discordant organ music, is as disturbing as ever and retains its power to frustrate anybody who hopes to shake loose some answers after 93 minutes.”
In an interview, P. Adams Sitney, a Princeton film professor, called the film “an extremely abstract version” of Hitchcock’s “Vertigo,” in which a woman “disappears and maybe dies and yet transmographies into the land of the Nouveau Roman.” In his view, “the combination of Robbe-Grillet’s literary prestige and the innovative nature of ‘Marienbad’ was perfect for that moment in the history of taste.”
The French writer Bernard-Henri Lévy recalled his friend Mr. Robbe-Grillet as “a master at conveying human misunderstanding.” Mr. Lévy wrote in an e-mail message: “Ah, to free oneself of the inner life! That was Sartre’s great desire. To free oneself of that French malady that is the cult of the inner life, that was Robbe-Grillet’s. It was Robbe-Grillet, in the end, who realized Sartre’s project.”
At his garden in Normandy, Alain Robbe-Grillet, the old agronomist and master of aridity, cultivated cactuses.
Da The New York Times, 24 Febbraio 2008
La scomparsa di Alain RobbeGrillet lo scorso 18 febbraio rende ancora più acuta una domanda che già venne posta alla morte di Claude Simon (1913-2005, premio Nobel per la Letteratura nel 1985): che cosa resta, oggi, del "nouveau roman", dell'"école du regard"? Bisogna intanto circoscrivere, da eccessive dilatazioni, l'ambito stesso del "nouveau roman": secondo un ritratto che ne fece uno dei protagonisti, Jean Ricardou (Le Nouveau Roman, Paris, 1978), il movimento riconosceva se stesso in Michel Butor, Claude Ollier, Robert Pinget, Alain RobbeGrillet, Nathalie Sarraute, Claude Simon. Nel definirsi, il gruppo identifica una data di nascita: il luglio 1971, a Cerisy-la-Salle, nel Colloquio dedicato appunto al Nouveau Roman. I percorsi sono tuttavia, visti ora a distanza, dopo quel decennio di solidarietà, assai diversi e si polarizzano almeno in due visioni distinte del far prosa narrativa, quella dell'"antiromanzo" e quella della "scuola dello sguardo". Alla prima, per ragioni anche di formazione e di biografia, appartiene certo Nathalie Sarraute (19001999), che inizia a pubblicare nel 1939 Tropismes e nel 1948 Portrait d'un inconnu, libri che si affermano solo nella ristampa prefata e autorizzata da Jean-Paul Sartre (1956).
Giova richiamare quella pagina liminare di Sartre: «Uno dei tratti più singolari della nostra epoca letteraria è costituito dall'apparizione, qua e là, d'opere vivaci e assolutamente negative che potrebbero venir definite antiromanzi. Gli antiromanzi conservano l'apparenza e la cornice del romanzo; sono opere d'immaginazione che ci presentano personaggi fittizi e ce ne narrano la storia. Ma solo e proprio per provocare una maggiore delusione: si tratta di contestare il romanzo servendosi del romanzo stesso, di distruggerlo, sotto i nostri occhi, mentre si finge d'edificarlo, di scrivere il romanzo d'un romanzo che non si concreta, che non può concretarsi». Gli "antiromanzi" sono riusciti nel primo intento (distruggere il romanzo, che oggi vive di stentato minimalismo), molto meno nel secondo: per riuscire a "creare nella negazione" occorre avere la potenza di rendere assoluta la cancellazione, la tabula rasa, che solo alcuni grandi metafisici del nulla hanno avuto: Beckett o Tadeusz Kantor. La "scuola dello sguardo" ha avuto in Robbe-Grillet e in Butor i più fecondi interpreti, l'uno alleando la scrittura al cinema (siamo tutti debitori, nella nostra formazione, dell'Année dernière à Marienbad di Alain Resnais e Robbe-Grillet, Leone d'Oro a Venezia, 1961), l'altro alla musica (con le opere scritte in collaborazione con Henri Pousseur). Butor farà spesso riferimento nei suoi saggi alla necessità di una descrizione puntigliosa dell'oggetto, solo garante di uno spazio di cui il soggetto è ormai spossessato: «Il solo modo di dire la verità, di andare alla ricerca della verità, è quello di confrontare instancabilmente, metodicamente, ciò che noi siamo usi raccontare con ciò che noi vediamo» (Ricerche sulla tecnica del romanzo).
Alain Robbe-Grillet ci ha lasciato pagine perfette di questo programma nel suo romanzo Le Voyeur, in quel suo descrivere con ossessiva precisione il volo dei gabbiani e il movimento delle onde. Ma non inizierà proprio così il " voyeur" italiano, il signor Palomar di Calvino, che si apre appunto con la Lettura di un'onda?
Forse si potrebbe dire che l'eredità più bella del "nouveau roman"è l'opera di Italo Calvino dopo il 1970: come Butor, interprete delle geometrie utopiche perfette di Charles Fourier; come Robbe-Grillet, osservatore instancabile del quotidiano, del suo impercepito, della sua folta, eppur invisibile, presenza di forme. E, più in profondo, tormentati tutti dalla tentacolare presa sull'umano della " città a venire": che si tratti del Projet pour une révolution à New York (1970) di Robbe- Grillet o delle Città invisibili di Calvino (1972), possiamo constatare che noi viviamo oggi ciò che allora essi profetarono. Siamo nella modification irreversibile di uno spazio che non è più a misura d'uomo, e che «la vera mappa dell'universo sia la città d'Eudossia così com'è, una macchia che dilaga senza forma, con vie tutte a zigzag, case che franano una sull'altra nel polverone, incendi, urla nel buio» (Le città e il cielo. I).
Con la morte di Robbe-Grillet si chiude la stagione narrativa che rivoluzionò il romanzo e che annunciò gli esiti maturi dell'autore di «Palomar» Maestro. Alain Robbe-Grillet, padre del nouveau roman, morto lo scorso 18 febbraio all'età di 85 anni.
Da Il Sole-24 Ore, 24 Febbraio 2008