Alla fine di La casa del mio amico, un vecchio e un bambino camminano insieme. dice il vecchio: “se non parlo, posso camminare più svelto”. risponde il bambino: “Va bene, allora non parlare”. Di solito si parla poco nei film di Kiarostami: si cammina tanto, spesso si va in macchina e ci si guarda intorno. È come se non si dovesse fare un film ma registrare situazioni, cogliere il perdurare degli attimi, pedinare persone, ammirare una distesa di ulivi, seguire un uomo che sale e scende dieci volte da una collina per riuscire a parlare al cellulare. Kiarostami insieme ai migliori registi iraniani ha stretto un tacito accordo con le strade, gli alberi, le montagne, i paesaggi e le persone del loro paese. Si è parlato di neorealismo, a proposito di questo cinema. Il che è vero, ma c’è dell’altro. Di vero c’è che i registi scelgono il paesaggio come sfondo naturale, ricorrono ad attori non professionisti, guardano alle disavventure degli umili: insomma credono al reale com’è. Come diceva Rossellini: il mondo è lì, basta guardarlo. Ma anche, come diceva sempre lui: il mondo è lì, tocca a noi metterlo in scena. I cineasti iraniani, Kiarostami in testa, seguono questi due sacri precetti e ne aggiungono un terzo: già che stiamo guardando il mondo e mettendolo in immagini, osserviamoci anche mentre lo facciamo. Tempi dilatati, larghi spazi naturali, un minimo spunto narrativo e Kiarostami costruisce un film che riflette il mondo e riflette sul cinema. Dai primi lavori girati per l’Istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini e adolescenti (uno spazio di libertà nell’iran islamico) a Il viagiatore (1974), a Close-up, abissale riflessione sul fumare, ai film più recenti e premiatissimi, l’emozionante E la vita continua, l’amoroso Sotto gli ulivi, il disperatamente laico E sapore della ciliegia, il misterioso Il vento ci porterà via,fino allo straziante documentario sull’Aids ABC Africa e all’ultimo, automobilistico Dieci, Kiarostami si è messo in viaggio su e giù per l’Iran, guarda, ascolta, inventa. Fa grande cinema con passo tranquillo, percorre e misura palmo a palmo la sua terra. Cinema di osservazione e invenzione, spontaneità e rigore, leggerezza e profondità, imbarazzo e raffinatezza. Cinema come fraternità di rapporto tra chi guarda e chi è osservato. Intorno a Kiarostami s’è come formato un vivaio, registi nuovi, si fanno avanti, qualcuno ha dovuto andarsene, come Amir Naderi che fa film a New York. I film iraniani sono ben presenti sulla scena internazionale, ogni tanto si appanna la vena, qualche film è costruito per i festival occidentali, poi si ritorna sulla strada giusta. C’è la dinastia dei Makhmalbaf, c’è Jafar Panahi dei petulante Il palloncino bianco e del Leone d’oro II cerchio, c’è Babak Payami dello sconcertante Il voto è segreto, costretto a presentare a Venezia Il silenzio tra due pensieri in versione di fortuna dopo il sequestro dei negativi. C’è soprattutto Abolfazl Jaliui, che a Venezia ha portato l’appassionante Abjad, storia di un ragazzino che, sotto scià e ayatollah, si fa strada fino a impugnare la sua prima cinepresa. Insomma, cinema di battaglia. Nei Silenzio fra due pensieri, una bambina chiede alla silenziosa ragazza condannata a morte: “Hai peccato?”. Risposta: “Nessuno pecca”. Cinema dalla parte della libertà.
Da Film TV, 29 Settembre 2003