Marco Bellocchio è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, è nato il 9 novembre 1939 a Bobbio (Italia). Marco Bellocchio ha oggi 84 anni ed è del segno zodiacale Scorpione.
Marco Bellocchio, bravissimo regista, esempio di coerenza in politica e nelle idee, anticonformista per sempre, ha fatto con Il regista di matrimoni, a 67 anni, un bel film avventuroso, divertente, ironico e autoironico, intorno a una figura che ha sempre fatto piangere il cinema italiano: il regista in crisi, qui interpretato da Sergio Castellitto. È un gran film, capace di armonizzare l'estetica visiva con la comunicazione di ideali, aspirazioni, rabbie.
Èstato così sin dal 1965 del suo primo lungometraggio, I pugni in tasca (da poco uscito in Dvd con l'etichetta 01), opera di rivolta contro la famiglia e la religione, l'ipocrisia borghese e il trasformismo corrotto, l'arrivismo cinico, bersagli della sua intenzione provocatoria pure in La Cina è vicina, Nel nome del padre, Marcia trionfale, Salto nel vuoto, Gli occhi, la bocca, Diavolo in corpo sino a L'ora di religione. L'unica eccezione a una coerenza stilistica e ideale ammirevole è forse Buongiorno, notte, un film su commissione della Rai sulla fine tragica di Aldo Moro. Nella vita personale è stato altrettanto costante e fedele: agli inizi militante nell'Unione dei marxisti-leninisti insieme con la compagna Elda Tattoli, poi allievo e collaboratore dello psicoanalista Massimo Fagioli e analista dell'introspezione, sempre di sinistra, somma diverse esperienze che non vengono mai rinnegate, ma assunte come consapevole ricchezza.
Bellocchio conduce un'esistenza molto sobria, da intellettuale parigino più che da cineasta italiano: non lo interessano il lusso, le automobili potenti, gli abiti eleganti (veste come un ragazzo), le case superbe, i cibi raffinati. Ha un figlio adulto chiamato Pier Giorgio come il fratello del regista, che lavora nel cinema soprattutto come produttore, e una figlia di undici anni, I suoi legami d'amore sono a volte brevi (è difficile per una donna accettare un uomo così concentrato sul proprio lavoro). È bello, pochi sono intelligenti (anche politicamente) quanto lui, è più colto della maggioranza dei cineasti, è attraente e molto simpatico.
Da Lo Specchio, 29 aprile 2006
È, forse, l’occhio più raffinato prodotto dal nostro cinema negli ultimi trent’anni. La qualità delle sue immagini, delle sue scelte cromatiche e dei suoi contrasti, delle sue ricercate oscurità e delle sue volute sgranature, ha una pulizia riscontrabile solo in quel grande tessitore di forme che è Godard (cui lo accomuna anche il lavoro incessante su musica e sonoro). È anche l’autore italiano che negli ultimi trent’anni, con 27 film (compresi film militanti, documentari e cortometraggi) è rimasto più legato a un percorso di ostinata originalità e ricerca; che, più di tutti gli altri, ha rifiutato di lasciarsi adescare dalla logica del mercato, anche (e magari soprattutto) quando si è trattato di quel "mercato di qualità" (qualità politica prima e qualità artistica poi) che ha sedotto ed edulcorato tanti degli autori emersi come lui a metà degli anni Sessanta.
Marco Bellocchio, a differenza dei Petri e dei Rosi, non si è abbandonato alle suggestioni del "cinema politico" che all’epoca pacificò tante coscienze d’artista e che certamente avrebbe accolto a braccia aperte il giovane autore del rivoluzionario I pugni in tasca (tranne che in un caso, e non a caso non uno dei suoi film migliori, Sbatti il mostro in prima pagina, che accettò di dirigere dopo che il regista Sergio Donati si era ammalato). E dopo, a differenza dei Taviani, non si è lasciato neppure ingannare dall’eleganza un po’ stantia del cinema d’autore fine a se stesso, della riproduzione letteraria che, forte di radici colte, abbandona i legami con il suo tempo. Il Principe di Homburg, tratta il conflitto romantico tra utopia e razionalità, tra eroismo individuale e necessità della legge, con una modernità inquietante, sottolineata da uno stile che rifiuta vezzi ed estetismi, per condurre il conflitto tra il Principe e l’Elettore su un set di oscure profondità inconsce. E altrettanta lucidità ci si aspetta dalle sue prossime escursioni "letterarie" (Il mercante di Venezia da Shakespeare e La balia da Pirandello), che sembrano corrispondere oggi alla sua naturale evoluzione d’artista, una volta conclusa (nel 1994), con Il sogno della farfalla la fase "analitica" nata dalla ricerca e dalla collaborazione con Massimo Fagioli.
A Marco Bellocchio è dedicato il volume Marco Bellocchio - Catalogo ragionato (pagg. 246, L. 28.000), pubblicato dalle edizioni Olivares in occasione della retrospettiva delle sue opere organizzata dal prossimo Festival di Locarno. Il volume non tiene conto solo del cineasta, ma della complessa figura artistica di Bellocchio, e, tra le testimonianze di collaboratori, familiari e amici che, titolo per titolo, chiariscono insieme all’autore lo spirito che ha animato la realizzazione di ciascun film, e tra le reazioni a volte inconsulte e a volte inaspettatamente lucide di intellettuali e critici, dissemina i disegni e le poesie cui Bellocchio si è dedicato fin dagli anni giovanili e che poi lo hanno accompagnato nel lavoro di regista, quasi a fissare sulla pagina le impressioni di un nuovo film, prima che questo si concretizzasse sulla pellicola.
Come sottolinea la curatrice Paola Malanga, quella di Bellocchio, più che d’autore, "è un cinema d’artista, che si pone nella società - mercato compreso - con una soggettività insofferente, irriducibile e ostinata, dai risultati discontinui, come spesso gli è stato rimproverato, perché in costante collegamento con un altro da sé e un altrove dal qui e ora propri di chi fa l’arte con talento e coscienza". Quasi due tensioni che si fronteggiano, due interpretazioni solo all’apparenza contraddittorie: da un lato, l’altrove cui si riferisce Paola Malanga, e dall’altro la "immane inchiesta su di sé" di cui parla nel suo saggio Goffredo Fofi, che puntualizza: "Si è mosso Bellocchio, anche molto, ma pur sempre attorno al proprio io, al proprio nucleo intimo e privato di interessi, e si è servito del dialogo con l’esterno solo per meglio cercarsi, per meglio scavare dentro il proprio specchio". Ma in fondo può anche accadere che lo specchio individuale scandagliato con vero rigore (e senza autocompiacimento) finisca per riflettere con altrettanta intensità anche lo sfondo: le contraddizioni della politica e delle utopie del Sessantotto, le pressioni di istituzioni come famiglia, collegio, religione, esercito e della istituzionalizzazione dei ruoli, "l’elogio della follia" o il bisogno di follia, di ribellione, utopia, sogno che comunque ritorna sempre come elemento indispensabile della creazione artistica (e, probabilmente, della libertà e della vita di chiunque).
In fondo, quello che emerge dal volume è che, consciamente o inconsciamente, nella sua opera Bellocchio ha espresso una delle idee enunciate da un grande (e preveggente) cineasta e teorico inglese, Thorold Dickinson, del quale Bellocchio è stato allievo nel 1963, alla Slade School of Fine Arts di Londra: "Nessun film è un’isola; ognuno è l’anello di una catena; ognuno non può fare altro che riflettere (per quanto frivolo o non realistico sia) la condizione umana del periodo in cui è stato fatto. Il presente è solo un momento che lega il passato e il futuro, e il contributo che si può dare a questo futuro è esserne preparati". In fondo, lo ammette anche Fofi, quando conclude il suo saggio dicendo che il cinema italiano può anche fare a meno di Roma, ma forse ha ancora bisogno, come tanti anni fa, di Parma (Bertolucci) e Piacenza (Bellocchio) "e dei loro eterni adolescenti, che raccontino nuove adolescenze e antichi e nuovi dilemmi, lontani dall’omologazione e dell’ignavia".
Da Il Sole 24 Ore, 26 giugno 1998
In questa formazione di attaccanti il più giovane e irruente è Marco Bellocchio, che esordisce ad anni Sessanta avanzati, quando ormai la situazione registica pare assestarsi su posizioni più arretrate.
«En la Mostra de Venecia de 1966, en una sala parroquial del Lido, en la qual suelen proyetarse los film 'no oficiales', los rechasados por el certamen y les que se repiten cuandò gustan mucho, I pugni in tasca costituyé la revelación de un desconocido». Queste parole del critico spagnolo Ricardo Munoz Suay rievocano e restituiscono la memoria di un'esperienza e sensazione collettiva di chi aveva assistito alla proiezione del film di Bellocchio: la sensazione e l'esperienza di essere di fronte a un'opera destinata a segnare una svolta nel nostro cinema. Da anni non si assisteva a un così immediato coinvolgimento della critica nei confronti di un'opera prima. Non a caso, a più riprese viene citato il ricordo di Ossessione.
Attorno a Bellocchio si mobilita, da parte dei rappresentanti della critica marxista più giovane, un fronte di consensi e di dibattito molto ampio. Mentre per il film d'esordio di Visconti ci si trovava di fronte al prodotto di un lungo lavoro collettivo anteriore, I pugni in tasca nasceva dalla carica e dalla rabbia di un singolo autore di ventisei anni e da un'aggressiva volontà di rivolta contro le istituzioni e, prima di tutto, contro la famiglia. I pugni in tasca non appare tanto importante ancora oggi per la sua capacità di interpretare «lo spirito di un'epoca», quanto per le sue capacità predittive e prolettiche. Il film enuncia, a partire dal nucleo minimale che fonda la società italiana, un malessere che avrà nel breve periodo una evoluzione e degenerazione patologica capace di produrre effetti catastrofici. Un'intera generazione vi si riconosce, lo sceglie come piano e punto ideale di riferimento. La famiglia appare, anche in seguito, come il microcosmo esemplare in cui si riproducono i rapporti della società esterna, il punto d'incrocio tra l'individuo e tutte le strutture autoritarie diffuse nel sociale. Poco per volta, per via di sostituzioni progressive, lo sguardo si sposta oltre lo spazio chiuso della casa per entrare in altri universi dall'analoga struttura concentrazionaria: il collegio, la scuola, la caserma, il manicomio. Nella sua opera degli anni Settanta (II gabbiano, Salto nel vuoto) Bellocchio torna alla realtà dei suoi esordi, per misurare la distanza e il senso del suo percorso stilistico e ideologico. Film dopo film, con risultati alterni, egli investe nelle opere il senso della propria esperienza. A partire dalla Cina è vicina cerca di variare il suo sguardo, allargare l'analisi ai meccanismi delle istituzioni, mettersi in discussione anche sul piano delle scelte stilistiche. Certo il peso del senso prevale e pochi critici osservano in prima battuta le caratteristiche del processo espressivo. È un lavoro che va fatto partendo dall'evidenza del segno e muovendosi in direzione del senso.
Nei Pugni in tasca si parte da una realtà dall'apparenza tranquilla, per rivelare subito una quantità di tensioni pronte a esplodere con violenza schizofrenica e contro ogni previsione. Oltre alle malattie simboliche della cecità, dell'epilessia, esiste una carica di ribellione che le mura di casa non sono più in grado di contenere. Il regista lavora sui suoi materiali, rompendo la logica della perfetta distribuzione delle parti, agendo con violenza sui significati e con cura sui significanti. Nel montaggio, accuratissimo e rigoroso, le unità si giustappongono con mutamenti continui di ritmo, punto di vista, durata, tono, registro.
Il regista domina tutte le fasi realizzative dalle riprese al montaggio con una sicurezza che suscita consensi quali non si erano registrati da decenni. Il successo di critica e pubblico rida fiducia a produttori ed esercenti che riprendono a rischiare a favore degli esordi.
Il vero salto stilistico avviene - comunque - nel passaggio dal primo al secondo film: film assestato su un unico asse espressivo il primo, tutto impostato sul principio della contaminazione il secondo.
In La Cina è vicina la cultura cinematografica è esibita in tutta la sua densità di riferimenti, di acquisizioni che mutano e variano: da Bunuel a Wilder, da Rocha a Godard, da Straub a Bertolucci, Bellocchio combina le lezioni visive degli uni con quelle ideologiche degli altri, l'humour nero di derivazione surrealista con una scrittura cinematografica che, tra le tante lezioni, ha fatto propria anche quella neorealista.
Giustamente è stato osservato che il suo stile non sembra avere padri, in quanto ogni riferimento esterno viene bruciato nel vivo dell'esperienza personale. La macchina da presa, nelle sue mani, ora è un mezzo caldo, che aggredisce il proprio oggetto, ora è uno strumento gelido, con cui il regista pare eseguire un'operazione di crioterapia.
Già col secondo film, La Cina è vicina, assai più ricco d'intenzioni del primo, Bellocchio non pare rispettare le promesse e l'attesa della critica è delusa. Lo scarto tematico-stilistico spiazza la critica, che lo trova confuso a tutti i livelli e non avverte che il regista usa degli schemi narrativi ovvi per esplorare - come con una bacchetta rabdomantica - una quantità di pulsioni, tendenze, comportamenti sotterranei, pronti a sfociare alla minima rottura nel sistema.
Nel 1969 Bellocchio gira dei documentari militanti e partecipa con l'episodio intitolato Discutiamo, discutiamo alla realizzazione di Amore e rabbia.
Tra il 1971 e il 1976 continua a sviluppare il suo discorso antiistituzionale con Nel nome del padre (1971), Sbatti il mostro in prima pagina e Marcia trionfale (1976). In mezzo il documentario Nessuno o tutti (Matti da slegare) del 1974 cofirmato con Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli.
In questa fase Bellocchio avverte, in modo più profondo, il senso di sdoppiamento tra la propria identità autoriale e i doveri di militanza che la negano a favore di un'idea dell'opera come prodotto collettivo.
Nei tre lungometraggi si comincia ad avvertire la ricerca di una nuova dimensione stilistica che tenga conto di alcuni modelli di riferimento dati dalle opere contigue di Ferreri, Petri, Rosi, Costa-Gavras, Damiani e intenda superarli per un diverso livello di coscienza politica. Questo si nota soprattutto in Sbatti il mostro in prima pagina, scritto in collaborazione con Goffredo Fofi, film che racconta una storia che attraversa una serie di eventi reali che hanno scosso in quegli anni la coscienza del paese. Si va da riferimenti a primi episodi terroristici, come le bombe alla Fiera campionaria di Milano del 1969, o di cronaca nera (la morte di Milena Sutter) a episodi di guerriglia urbana o a eventi traumatici come la strage di piazza Fontana, la morte dell'anarchico Pinelli, o quella dell'editore Giangiacomo Feltrinelli. Il film appare oggi come una delle fonti più emblematiche del periodo e la fiction (che pure è spesso costruita maldestramente) non impedisce di utilizzarlo non tanto per le sue qualità estetiche o espressive quanto per il suo alto grado di rappresentatività e per la capacità di trasmetterci, a vent'anni di distanza, il senso di tensione sociale e di temperatura ideologica in aumento e di lotta cieca e senza esclusione di colpi tra le varie forze organizzate, istituzionali e spontanee.
Nei tre film a soggetto il regista, pur eseguendo temi noti, non mostra una reale tensione: pare piuttosto accontentarsi di vivere di rendita e, anche dal punto di vista stilistico, queste opere sono facilmente assimilabili ad altre d'argomento politico degli stessi anni. In quasi tutte esiste un giustapporsi di livelli: da una parte l'interesse documentaristico per il funzionamento dei meccanismi repressivi nei collegi e nelle caserme, dall'altra le vicende dei personaggi. L'intento dimostrativo prevale e il risultato è quello dell'accentuazione dello schematismo ideologico.
A parere di chi scrive, soltanto con l'esperienza di Nessuno o tutti, frutto di un lavoro collettivo, Bellocchio da l'impressione di reimpadronirsi in senso attivo della macchina da presa, e di ritrovare quella forza che sembrava dissolversi.
Il gabbiano, e ancor più Salto nel vuoto, segnano un ulteriore passo avanti tematico, stilistico e anche un tentativo di ricollegarsi agli stimoli più vitali della prima opera o forse una sensibile inversione di tendenza. Tuttavia, al di là delle rotture e dei mutati atteggiamenti nei confronti del reale, Bellocchio è anche uno degli autori più coerenti nell'intrecciare e proiettare il proprio vissuto, le trasformazioni della sua esperienza e dei suoi atteggiamenti nei confronti del mondo con le vicende delle sue opere. «Non si può restare arrabbiati tutta la vita, riconosce egli stesso in tempi recenti, il problema è trasformare la rabbia e farla divenire un rapporto più dialettico, più profondo con la realtà, in cui la critica a questo tipo di realtà, a questo tipo di società, propone una trasformazione di essa».
Cinque i titoli degli anni Ottanta, quattro film di finzione più un documentario: Gli occhi, la bocca, Enrico IV, Diavolo in corpo, La visione del sabba, uno agli inizi degli anni Novanta, La condanna. È un decennio in cui alla fase lunga del cinema «gridato», aggressivo, dissacrante, manicheo, subentra un periodo di ripiegamento, di bisogno di usare la macchina da presa non come pugno o sasso o corpo contundente, ma come protesi tattile e visiva, strumento termoaccumulatore e termoconduttore capace di carezzare e soprattutto di spingere lo sguardo oltre le superfici subito visibili. Bellocchio manifesta, già a partire da Salto nel vuoto, il bisogno di riappropriarsi di uno stile che troppo a lungo ha tentato di negare. I risultati spesso ma in modo discontinuo, sono all'altezza delle intenzioni: lo sguardo (in certi momenti di Gli occhi e la bocca ma anche dei film successivi) riesce a spingersi verso le zone segrete dell'inconscio fino ai limiti di baratri come quelli della follia e delle grandi paure collettive, ma soprattutto sembra ipnotizzato dal fascino di un'idea di femminilità che assume valenze totalizzanti. Se nel primo decennio della sua attività il regista aspirava a fare della famiglia una cosmologia autosufficiente e autodistruttiva in questa fase si apre a un sistema di relazioni più aperto, complesso e problematico, dove l'introspezione psicologica si mescola alla registrazione delle relazioni uomo-donna in una morfologia che va dalla scoperta dei sentimenti allo stato nascente alla esplosione della passione e al valore terapeutico dello scambio sessuale, alla violenza e alla sopraffazione come manifestazione e verifica dei poteri. Il passaggio avviene da sistemi ordinati e ridotti a strutture semplici a sistemi caotici non dominabili per la loro complessità. Centrale in questa ricerca - nella quale ha un peso non secondario lo psicanalista Maurizio Fagioli - il progetto di riuscire a mettere in scena l'inconscio, di riuscire a liberare, mediante la macchina da presa, nuclei compressi dell'immaginazione e del desiderio.
Lungo un decennio tra i meno memorabili della storia del cinema italiano e della storia nazionale Bellocchio sembra aspirare alla perfetta mimetizzazione nel paesaggio e al limite a quella invisibilità che gli consenta di riaprire un dialogo tra l'Io e il profondo. Tutta la fase successiva degli anni Novanta e degli inizi del nuovo millennio è caratterizzata invece dalla riappropriazione delle capacità affabulatorie, dal piacere della direzione degli attori, dalla competenza registica e narrativa messa al servizio delle trascrizioni di testi letterari, come II principe di Homburg del 1996 e La balia del 1999, tratto da Pirandello, senza rinunciare ad approfondire la propria visione del mondo, il proprio rapporto con gli attori, con i personaggi e con le loro scelte di vita. Un cinema della penombra è quello dell'ultimo Bellocchio - come ha notato Sandro Bernardi - un cinema che sceglie una posizione volutamente appartata alla ricerca del perfezionamento dello stile, della capacità di cogliere momenti di verità intcriore utili a capire il male del vivere quotidiano, l'impossibilità di accettare leggi, convenzioni, regole di ogni tipo che spengono l'individualità e pongono la persona in balia degli altri, dell'assurdità delle convenzioni e delle regole sociali. Con i suoi ultimi film L'ora di religione (2002), Buongiorno notte (2003) e II regista di matrimoni (2006) Bellocchio torna a parlare dei disturbi di relazione dell'individuo in rapporto alla famiglia, alla religione e considera con autentico spirito laico il problema della laicizzazione del sacro, dei rapporti tra pubblico e privato nella gestione dei problemi della religione. In II regista di matrimonila. ricerca del sé, della realizzazione delle proprie potenzialità passa anche attraverso una riflessione sul cinema e sul suo mutamento in atto tra le più originali degli ultimi anni. In Buongiorno notte, invece, cerca di ricostruire dall'interno, servendosi delle memorie della brigatista Laura Braghetti, i comportamenti e la logica dei brigatisti che hanno rapito e ucciso Aldo Moro cercando anche di reinterrogarsi, attraverso il film, sulla politica della fermezza perseguita dalle diverse forze politiche, dallo stesso papato, immaginando possibilità diverse rispetto a quelle decise dalla storia. La sua condanna nei confronti dei brigatisti è ferma e inequivoca, ma la scelta di assumere un punto di vista troppo ravvicinato ha suscitato forti reazioni negative sia sul piano politico che della critica cinematografica. Vale comunque la pena di riportare almeno una sua frase pronunciata nel corso di una tavola rotonda con alcuni politici (Emanuele Macaluso e Marco Pollini): «Io cerco di raccontare la loro quotidianità mentre di là c'è un signore chiuso a chiave che interrogano e con cui, in un certo modo, dialogano e trattano. A sinistra qualcuno mi accusa di averli rappresentati all'acqua di rose, altri perché il Moro del film è troppo umano. Io non dico che fossero geni del male, queste categorie non mi appartengono. Ho detto e confermo che erano folli e stupidi. Moro, in qualcosa, mi fa venire in mente mio padre, ma nel rappresentarlo mi sono mosso in maniera assolutamente libera. Era molto più intelligente dei brigatisti, perché aveva un rapporto con la realtà umana assai più sicuro, più profondo e più complesso. Loro dietro l'ideologia erano disumani».
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
«La cuccagna promessa da Silvio Berlusconi non è mai arrivata. La grande promessa, il ricco premio, la tombola annunciata non li abbiamo vinti. Non mi ha stupito il suo successo elettorale: penso che se il tenore di vita collettivo si fosse innalzato, avrebbe continuato a vincere. La caduta delle ideologie ha lasciato il Paese in baiìa degli eventi e delle emozioni: mi deprime vedere il fronte laico che annaspa e si fa condizionare dalla fede e dalla religione. Appartengo all’area di sinistra, ma non ho alcun legame con i partiti: voto per i Ds, ma non ho mai frequentato i politici, a parte forse un’intesa cinematografica con il generoso Ve!troni. Da ragazzo, il mio idolo era Lenin. Ero un rivoluzionario, uno che si batteva contro il revisionismo del Pci, ma personalmente non ho mai piegato un capello a nessuno. L’ironia e la prudenza, innate, mi hanno salvato in più di un’occasione. Ho sempre partecipato, con il mio mestiere, al grande cambiamento nazionale che ha preso l’avvio, all’inizio degli anni Sessanta, proprio da Piacenza, proprio da casa mia. Un cammino lungo, che ancora continua. Era il 1962 quando mio fratello maggiore Piergiorgio, insieme a Grazia Checchi, Cesare Cases, Goffredo Fofi, Franco Fortini e tanti altri, fondò i “Quaderni Piacentini”, rivista marxista su cui si sono, ci siamo, formati in tantissimi. Oggi, il mio slogan personale potrebbe essere sintetizzato così: la questione morale è viva e lotta insieme a noi. So che non è tutto, ma il senso della morale, nella mia vita, è importante. Per questo, non ho mai capito il craxismo: mi dicevano che era moderno, ma io continuavo a non capire».
Incontro Marco Beilocchio nel suo ufficio romano, sulla scrivania, ancora i documenti del suo ultimo lavoro, Il regista di matrimoni, con Sergio Castellitto. «Un film piuttosto inattuale» lo dice sorridendo, «non parla di Berlusconi, né di cocaina né di Iraq. Comincia dove finiva 8 1/2 di Fellini: un regista prepara I promessi sposi in un ufficio più o meno come questo, fatica, non ce la fa più e infine si al-lontana dal suo tavolo e parte. Va in Sicilia, incontra un regista di matrimoni, uno di quei tizi che per girare una videocassetta porta la coppia in abito da nozze dopo la cerimonia sullo scoglio al tramonto, insomma il suo alter-ego meno fortunato. Da questo incontro, nasce una storia simile al romanzo manzoniano, c’è un principe del luogo che vuole impedire un matrimonio...»
Siamo in una bella strada a nord di Roma, le stanze sono ordinatissime, parquet lucido a specchio, pareti bianche. Lui, a sessantasei anni, sembra ancora il ragazzo che quarant’anni fa sconvolse il cinema italiano e un paio di generazioni con il suo film d’esordio, I pugni in tasca. Fu un caso internazionale, «accolto dalla sinistra con stupore ed entusiasmo, su “Rinascita” ne scrisse Italo Calvino, ebbe successo anche in Italia, riuscii a produrlo grazie a Piergiorgio, andò lui alla Banca Commerciale di Piacenza a chiedere un finanziamento, girammo in casa di una zia a Bobbio». Un film autobiografico, si disse allora, immaginando che i ragazzi nati negli anni Quaranta e Cinquanta avessero una grande rabbia dentro e che questa rabbia potesse esplodere, improvvisa, da un momento all’altro. Come poi avvenne. Marco nasce durante la guerra, nel 1939, «mio padre Francesco conservava l’autografo che il duce consegnava alle famiglie numerose, eravamo nove, poi diventammo otto. Era un avvocato, molto tiepido verso il regime. Con la Repubblica diventò un conservatore, si schierò con De Gasperi. Parlava pochissimo di politica, si dava un gran da fare per mantenerci e creare un patrimonio per il nostro futuro. La borghesia cattolica considerava il comunismo come un peccato, nel primo dopoguerra. Da bambino, ho vissuto con l’angoscia dell’arrivo dei russi. I sacerdoti mi avevano spiegato che, se avesse vinto il Pci, mi avrebbero obbligato a rinnegare la fede. Ci parlavano in continuazione dei martiri della cristianità, i missionari ci raccontavano dei loro confratelli cui i cinesi avevano tagliato la lingua. Ci preparavamo alla guerra civile, inevitabile nel caso di un’invasione sovietica, con gli inni religiosi, cantavamo: “Qual falange di Cristo Redentore, la gioventù cattolica è in cammino”. Oppure: “Siamo arditi della fede, siamo araldi della Croce, a un tuo cenno, alla tua voce, un esercito ha l’altar”». L’esercito di Pio XII, il cinema parrocchiale con i film di guerra e le vite dei santi, «i terribili Promessi sposi di Mario Camerini», l’Anno Santo del Cinquanta, Bellocchio li ricorda come fosse ieri. «Ero in piazza San Pietro, gli studenti sembravano in preda a vere e proprie turbe emotive, io resistevo e il curato mi sgridò perché non urlavo abbastanza. Ero già vaccinato contro il fanatismo, forse».
Al liceo, dai barnabiti di Lodi, nonostante la messa quotidiana, «cade il terrore dell’inferno e mi allontano dalla pratica religiosa». Lo attende il concorso per il Centro sperimentale di cinematografia, «era controllato da un certo potere Dc, ma era aperto al mondo. Vennero Fellini e Mastroianni a mostrarci La dolce vita, Pietro Germi con Divorzio all’italiana, Antonioni con L’avventura, passarono Blasetti e Nanni Loy, era venuto a incontrare gli studenti anche Charlie Chaplin. Dopo le proiezioni seguiva il dibattito». L’aspirante regista chiede ad Antonioni, con tono rivendicativo: «“Ma come si fa a entrare nel vostro mondo?”, proprio la stessa domanda che fanno a me, quando vado nelle scuole e nelle università. Una domanda inevitabile, senza risposta». La distanza del tempo e degli anni scolorisce le passioni. «Ho fatto il Sessantotto da vecchietto, ripensandoci oggi mi appare tutto un po’ ridicolo. Ricordo che andai personalmente a palazzo Campana, a Torino, nel dicembre 1967, data d’inizio di quella che allora si chiamava la Contestazione. Sotto accusa, il potere cattedratico, i docenti. Partecipai a un momento storico: il primo sgombero forzato di un’aula. I poliziotti furono gentilissimi. La verità, che oggi non è semplice da spiegare, è che il nostro vero avversario di allora era il partito, il Pci. Aderii, per qualche mese, all’Unione dei marxisti-leninisti di Aldo Brandirali, una pedestre imitazione del maoismo, con coreografie e slogan che inneggiavano al libretto rosso e alla rivoluzione. Ma non eravamo né bombaroli né terroristi.»
La sottolineatura del regista non è casuale. «Un giorno, Franco Piperno venne nel mio studio e mi propose di fare un film sul sequestro Moro, ma io non ero pronto. Penso volesse svelare alcune cose, raccontare la sua verità. La stessa cosa mi capitò con il libro-intervista di Silvana Mazzocchi con Adriana Faranda: Adriana voleva controllare la sceneggiatura. Ma io intendevo dare a quella tragedia un finale diverso. Dopo tanti anni passati a cercare un’identità, attraverso l’analisi collettiva, sentivo di dover riassumere in quelle immagini anche il mio percorso esistenziale più profondo. »
In Buongiorno, notte, la liberazione del prigioniero illustre, una delle scene più dolci del cinema italiano, dà il senso della formazione del regista: un ex marxista particolare, uno che non ha mai sentito come proprio l’odio di classe. E che ha rivendicato, sempre, la sua «piacentinità». Un mix di rivoluzione e prudenza, riservatezza e incoscienza, educazione e nostalgia.
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006