Pier Paolo Pasolini è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, montatore, musicista, è nato il 5 marzo 1922 a Bologna (Italia) ed è morto il 2 novembre 1975 all'età di 53 anni ad Ostia (Italia).
Regista, sceneggiatore, scrittore, poeta, Pasolini trascorse l'infanzia in vari luoghi, seguendo i numerosi trasferimenti della famiglia dovuti alla carriera militare del padre. Dopo la prigionia di quest'ultimo e la tragica morte del fratello partigiano, egli visse per qualche tempo in Friuli, regione d'origine della madre. Qui cominciò ad interessarsi di poesia (Poesie a Casarsa, 1942), soprattutto dialettale. Laureatosi in lettere, si dedicò all'insegnamento, esercitando al tempo stesso un'intensa attività politica. Privato della cattedra ed espulso dal partito comunista a causa dell'accusa di corruzione di minore, si trasferì a Roma nel 1949, dimostrando immediatamente un vivo interesse per le condizioni, la mentalità e i comportamenti del sottoproletariato urbano. Frutto di questa sua indagine sono i romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959); nel 1957 aveva pubblicato anche una raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci. Accanto a questa intensa attività letteraria, che non mancò di attirargli sia approvazioni che durissime critiche, Pasolini iniziò anche ad occuparsi di cinema come soggettista e sceneggiatore, lavorando con Fellini (i dialoghi di Le notti di Cabiria sono suoi), Bolognini, Vancini, Rossi, Lizzani (con questo regista, Pasolini apparve anche come attore, nel personaggio di Leandro «il monco» ne Il gobbo, del 1960, e in Requiescant, del 1967), Bertolucci; in tutte le loro opere, infatti, cominciano a trasparire scene e personaggi che documentano chiaramente la poetica pasoliniana. Particolarmente significativi, a questo proposito, i soggetti de La notte brava (1959, Mauro Bolognini), La giornata balorda (1960, Mauro Bolognini), Morte di un amico (1959, Franco Rossi), La commare secca (1962, Bernardo Bertolucci); in essi, le figure del mondo letterario di Pasolini, popolato di «ragazzi di vita», di prostitute, di rappresentanti del sottoproletariato urbano impegnati quotidianamente nella fatica e nel dolore del vivere, trovarono una nuova e dolente trasposizione cinematografica. Nel 1961, tratto dal romanzo Ragazzi di vita, uscì Accattone, di cui Pasolini fu regista, soggettista e sceneggiatore; egli volle affidare il ruolo del protagonista ad un personaggio del tutto estraneo al mondo del cinema e scoperto da lui stesso, Franco Citti, un imbianchino semianalfabeta, che in seguito divenne una delle presenze fisse nei suoi film. Accattone, presentato al Festival di Venezia, fu accolto con grandi contrasti; ma non vi è alcun dubbio che Pasolini si rivelò in esso un regista di eccezionali capacità, dotato di uno stile personalissimo, sia nella narrazione che nella resa figurativa delle immagini. Ambientazione e personaggi simili a quelli di Accattone compaiono anche in Mamma Roma (1962), storia del disperato quanto inutile tentativo di riscatto da parte di una prostituta non più giovane, madre di un figlio ormai uomo e destinato a concludere i suoi brevissimi giorni sul letto di contenzione. Il film, scritto "su misura" per Anna Magnani e da lei interpretato splendidamente, anche se con qualche intemperanza, riprendeva il tema più caro a Pasolini, le condizioni di un sottoproletariato tanto più misero e disperato, quanto più lontano da un'autentica consapevolezza di sé. Nel 1963, oltre alla scelta e al commento della prima parte del film di montaggio La rabbia e a un tentativo, in parte fallito, di film-inchiesta, Comizi d'amore (ed. 1955), Pasolini realizzò l'episodio La ricotta del film Rogopag (Laviamoci il cervello!), in cui, con toni da apologo, evidenziò ancora una volta la sua dolorosa visione dell'esistenza. Il film anticipò tematiche e modi della sua opera successiva, Il vangelo secondo Matteo (1964), presentato a Venezia nel 1964. Quest'opera, vero capolavoro di poesia, ci offre anche la più diretta chiave di lettura del complesso e tormentato mondo interiore di Pasolini, combattuto, senza speranza di soluzione, fra la volontà di aderire totalmente all'ideologia marxista e una spiritualità cristiana profonda e tormentata; due sentimenti in perenne conflitto fra loro ed entrambi tanto forti da giungere quasi ad una reciproca elisione, così che l'anima finisce con lo smarrirsi, sprofondando in un pessimismo senza speranza. Questo tema fu alla base dei suoi due film successivi, Uccellacci e uccellini (1966), un'opera straordinaria, che denuncia senza veli la crisi completa dell'ideologia marxista, e Teorema (1968), un film difficile e non privo di squilibri, ma comunque geniale e ricco di straordinari momenti poetici. Quasi contemporaneamente, nel 1967 e nel 1969, uscirono Edipo re, rilettura e reinterpretazione di Edipo re e di Edipo a Colono, due drammi di Sofocle (496-406 a.C.) e Medea, tratto dal capolavoro tragico di Euripide (485 ca - 406 a.C.), con una straordinaria Maria Callas nelle vesti della protagonista. In entrambi i film, anche se con qualche discontinuità e con qualche forzatura, Pasolini si sforzò di evidenziare l'attualità delle tematiche di fondo: nel primo, il doloroso cammino di Edipo verso l'autocoscienza; nel secondo, la sofferenza di una donna sradicata dalla propria patria e tradita nei suoi affetti più profondi, che finisce con il trasformare il proprio dolore in ferocia, massacrando i propri figli nel più tremendo gesto di autoannullamento che una madre possa compiere. Un potente legame di pensiero, oltre che letterario, accomuna i film della così detta "trilogia della vita": Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte, rispettivamente del 1970, 1972, 1973. Infatti, in tutti e tre, l'autore sviluppò un solo motivo di fondo, utilizzando come legame il tema comune dell'erotismo. La sua volontà fu quella di rappresentare un'umanità gioiosa, libera e felice, che identificava il proprio totale riscatto da ogni forma di sofferenza nella libertà gioiosa dei sensi e nel loro completo appagamento, senza alcun freno etico o religioso. Tuttavia, al più intenso dei godimenti si accompagna un senso ancor più vivo di delusione e di angoscia, di fronte all'ineluttabile certezza della fine e del disfacimento a cui non può sottrarsi alcuna forma di bellezza e di carnalità; perciò, il trionfo del piacere non può che preannunciare il trionfo della morte. Tale pessimismo costituisce al tempo stesso il preludio e il tema di fondo all'ultimo capolavoro di Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), in cui l'autore presentò un ben noto avvenimento di storia contemporanea come la più recente replica di un eterno dramma umano: infatti il film, fin troppo carico di riferimenti all'opera di De Sade, il "divino marchese" (1740-1814), sviluppò, in una molteplicità di forme, un unico tema: lo sfruttamento, la degradazione e l'abbrutimento dell'uomo da parte dei suoi simili, con la complicità di un intero contesto sociale fondato su falsi valori. In quello stesso anno, la notte del 2 novembre, Pasolini morì, probabilmente ucciso da uno dei "ragazzi di vita" che era solito frequentare, senza farne mistero; ma questo tragico episodio non è mai stato definitivamente chiarito.
Poet, playwright, screenwriter, filmmaker, Communist, Christian, moralist, pornographer, populist, artist: 32 years after he was murdered by a teenage hustler (who later tried to recant his confession), Pier Paolo Pasolini remains, perhaps above all, a subject for furious argument. In an era when Italy produced a bumper crop of difficult, passionate artists, especially in the cinema, he may have been the most difficult of all, and arguably the most prodigiously talented.
No single institution, art form or political tendency could contain his angry, exquisite energies, so it makes sense that a New York retrospective of his work would be spread around the city, encompassing concerts, performances and exhibitions as well as film screenings. The program, called “Pier Paolo Pasolini: Poet of Ashes” and organized by the Italian Cultural Institute, continues through Dec. 18. The heart of it — an 11-film program at the Film Society of Lincoln Center called “Heretical Epiphanies” — opens next Wednesday with a screening of “Mamma Roma.”
That film, a 1962 melodrama with a molten performance by Anna Magnani at its center, remains Pasolini's most popular and most accessible. It is neorealism brought to the pitch of opera, with Magnani's incarnation of wounded, furious motherhood teetering on the edge of camp. And it shows a class consciousness that goes far beyond the social concern of some of Pasolini's contemporaries, into a lower-depths romanticism that has more in common with Jean Genet (or, to risk anachronism, with Rainer Werner Fassbinder) than with De Sica or Visconti.
For Pasolini, social drama always had a sexual component and, increasingly, a spiritual dimension. Magnani's character, a tragic earth mother and modern Madonna, is also a prostitute. “Accattone” (1961), the first film he directed, has as its hero a Roman pimp (Franco Citti) who exhibits notably (and, at the time, scandalously) Christlike attributes. The collision between transgressive sexuality and religious meaning would become a more and more pronounced feature of Pasolini's work in the 1960s, as he moved away from realism toward allegory, medieval literature and the Bible itself.
The sacred and the profane commingle in Pasolini's work, giving it some of its volatile beauty. Similarly, his militant commitment to the proletariat — he proclaimed his allegiance to the Italian Communist Party in 1947 — coexists with a fierce hostility to modernity, and a suspicion of the idea of historical progress.
But his films, finally, cannot really be assimilated to any ideological or aesthetic program. Certainly his last movie, “Salò, or the 120 Days of Sodom” (1975), based on a novel by the Marquis de Sade and set during the decadent phase of Mussolini's regime, is unmatched in its moral extremity and sexual cruelty. Not even today's cinematic torture maestros will go where Pasolini did in the orchestration and observation of cruelty.
“Salò” is not for the faint of heart, or for those who wish to continue believing in the possibility of human goodness. But that is not to say there is anything sentimental or compromised about the rest of Pasolini's work. It springs from the tormented sensibility and rigorous intellect of a man who lived and died at the heart of some of the modern world's most painful contradictions. More than three decades after his death, his best films still feel like news.
Da The New York Times, 23 Novembre 2007
I quasi dieci anni trascorsi dalla morte di Pasolini valgono quanto l’arco di un’intera generazione. Siamo cambiati. Siamo così cambiati che ci vengono a mancare gli strumenti per misurare fino in fondo il cambiamento. Semplificando, possiamo dire: è caduto il primato della politica ed è sprofondato nel pozzo senza fondo di un passato che per troppe ragioni ancora per molto rimarrà senza memoria. Anche Pasolini, il poeta per immagini Pasolini, pagò il proprio tributo a questo primato, leggendo talvolta in chiave politica la propria poesia. In lui gli italiani amavano e più spesso odiavano uno “schieramento”. Lo scandalo dell’omosessualità, poi, rendeva gli opposti sentimenti ancora più assoluti. Caduto il primato della politica e attenuata la passione polemica, si può avanzare un’ipotesi nuova: Pasolini - l’impegnato, il militante, lo scrittore corsaro - fu e resta un inattuale. L’attualità fu per lui sempre l’elemento contro cui opporsi, contro cui suscitare scandalo, arte che l’Italia degli anni Cinquanta gli aveva dolorosamente insegnato. Ancora negli ultimi mesi di vita, Pasolini compie questa sua critica radicale, ora però contro quello stesso schieramento nel quale da sempre si è riconosciuto. Il tema è l’aborto, e tuttavia nel fondo si intravvede qualcosa di più totale, di più definitivo. È nel suo cinema, e in particolare nei suoi ultimi quattro film, che l’inattualità si libera di tutto il peso polemico della cronaca e dell’ingombrante e goffo primato della politica. I primi tre - la trilogia della vita - si rifugiano in un passato recuperato nel sottoproletariato meridionale e nel terzo mondo. L’ultimo - che con gli altri forma una non dichiarata tetralogia, questa volta però “della morte” - confonde passato e futuro, nell’incubo senza speranza del Fascismo Totale. Con Salò l’inattualità, definitivamente, non riguarda più un tempo storico particolare, non riguarda più le vicende particolari di un’epoca. Rifiutato è invece il tempo, la vita. Rifiutato è il suo stesso strumento di poeta, il cinema. Salò non è solo cinema della morte, per quel suo ossessivo procedere nel sangue. È anche, in primo luogo, morte del cinema, cioè di quello che era stato per anni il luogo della speranza della poetica pasoliniana, la sua utopia progressiva. Che cosa è il cinema? Totò - cui Pasolini immagina di porre la domanda in uno scritto del ‘66 - risponde cantando e rivolgendosi a Ninetto, che lo ascolta “col fiocco rosso dello scolaro diligente e menefreghista (...), imparando come una scimmietta la lezione”. Il cinema - canta Totò - “non evoca la realtà, come la lingua letteraria non copia la realtà, come la pittura non mima la realtà, come il teatro. Il cinema riproduce la realtà : immagine e suono! Riproducendo la realtà, che cosa fa il cinema? Il cinema riproduce la realtà con la realtà “. Il cinema - utopia dell’essere nella realtà - è un’infinita soggettiva, un infinito piano sequenza, “infinito come la realtà che può essere riprodotta da un’invisibile macchina da presa”. Esso è la possibilità stessa della vita non ancora vissuta, ma immaginata, cioè pensata per immagini come si fa quando si sogna. Che cosa è, invece, il film? Il film - scrive Pasolini - è la fine dell’infinita possibilità, è la scelta di alcune parti dell’ininterrotto piano sequenza. È la vita così come la si vive. Il passaggio dal cinema al film è opera del montaggio, che fa nel film come la morte nella vita di un uomo: gli dà senso, ne fissa il significato. Il cinema è sogno e vita, ma il film è realtà e morte. Se questa dialettica cinema-film fosse solo una teoria, la si potrebbe confutare. Essa è invece una poetica, e le poetiche non si confutano. In quanto poetica, per esempio, determina la struttura narrativa di Decameron - come più in genere di tutto il suo cinema. Decameron è apparentemente il trionfo della vita e, addirittura, del vitalismo. Eppure è un film e, in quanto film, è anche opera della morte (montaggio). E infatti la morte segna tutto il primo tempo con la novella di ser Ciappelletto, che - con una disperazione ignota in Boccaccio - ne “lega” gli episodi. Il secondo tempo, quasi come “risposta” al primo, è invece costruito attorno alla figura di un poeta e di un artista, Giotto, che Pasolini per diverse ragioni finì per interpretare egli stesso. La leggerezza dell’arte (e del suo sogno) si contrappone così alla morte, dando luogo all’illusione di poterla superare. Ma - si chiede Pasolini - Giotto alla fine del film - “...perché realizzare un’opera, quando è così bello sognarla soltanto?...”. Come in tutto il cinema di Pasolini, già in Decameron dunque è implicito Salò, o il passaggio mortale dal sogno alla realtà, dalla possibilità infinita all’attualità della storia e del tempo. La vita smentisce il sogno, uccide la speranza. Il film, cioè l’attualità del cinema, uccide il cinema. La trilogia della vita è appunto una tetralogia della morte. “Ho visto passare una vita intera. Avevo un futuro che sta cominciando a essere passato. Non credo che si possa fare niente in senso politico”. Al massimo - continua in un’intervista del ‘73 - ci si può comportare come se ci si credesse. Questa è, alla fine, l’inattualità di Pasolini: non solo la critica di un tempo che, per quanto profonda, consente sempre di sperare in un altro tempo ma soprattutto la convinzione insuperabile che il tempo sia, senza rimedio, il trionfo della morte. Quanto di meno “politico” ci sia, dunque. Teniamone conto nei prossimi mesi, quando il decennale della morte ci porterà a riparlare di lui.
Da Il Sole 24 Ore, 7 Luglio 1985
Quanti medici, al capezzale del Cinema. E quante ricette spassose. Mi ha divertito quella di Pier Paolo Pasolini (Il Punto, 18 gennaio 1958), ricca di un accenno a me. Titolo del pezzo: "Letteratura e cinema non sono due componenti diverse di un’unica fenomenologia culturale". Brano che mi riguarda: "La critica cinematografica è in posizione ancillare rispetto a quella letteraria: o è puro giornalismo, superficiale e semplicistico, o è pseudofilologia da cine-club, o è dogma e apriorismo moralistico-politico. Non bastano sei o sette buoni critici per salvare una situazione dominata da critici paroliberi alla Marotta o da fattorini di Partito. Io considero altrettanto nocivi al cinema questi critici dilettanti, spesso moralisti in mala fede, degli stessi, così spregiati produttori". Così ha parlato, dalla nube del Sinai, l’unto del Signore. Beh, gliene dico quattro. Il Pier Paolino sappia che accetto di buon animo la taccia di " parolibero". Se vigessero ancora i biglietti da visita la farei aggiungere, stampata, al mio nome. Essa contiene, fra quintali di libertà di ogni genere, quella, per me inebriante, di non aver mai chiesto né medaglie né lettori viziosi al turpiloquio ed alle oscenità di un Ragazzi di vita. Sono poi libero di non usare, avvenga ciò che avvenga, espressioni come "fenomenologia culturale", o "posizione ancillare", o "apriorismo moralistico-politico": tetre gale di una vacua e buffa nomenclatura, tanto facile da assimilare quanto algida, superba e cafona. Il Pasolini è d’altronde, anche in versi, un mero e vizzo frutto di vocabolario. Poesia Le ceneri di Gramsci? Parole, parole: una ricettazione (da ghetto) di parole. Immagini casuali, ottenute come si ottiene un dodici gettando i dadi. Non un filo di sangue arteriosa, non un centimetro di pelle, non un barlume di umanità e di vita. Parole fluttuanti, parolesemi-di-parole, che fanno pensare alle brulicanti uova dei pesci, e che tutto sommato generano, appunto, silenzio e buio di viscide profondità marine. Effimere ciance premiate a Viareggio. Bene: e che vuole, sentiamo, il Pier Paolo, da me e dal Cinema? Io sono "parolibero", cioè non schiavo, ma padrone delle mie parole. Con me o le parole campano, assumendo la faccia le vene l’ombelico miei, oppure io le scaccio, le rinnego.
In ogni mia riga, critica o narrativa, c’è una qualità comunissima e rarissima: c’è un uomo, un autentico uomo, nato e residente a Napoli e non fra i tarli di uno scaffale. Sono dunque contento, Pasolini, che lei non s’identifichi in me. Tuttavia, siccome lei s’atteggia ad eventuale salvatore del Cinema (Gesù Gesù: non e il suo nome legato a un paio delle più brutte sceneggiature del ’56 e del ’57?) le propongo un giochetto. Offriamoci gratuitamente come sceneggiatori di un film in preparazione, e lavoriamo insieme. Badi: non soli; con due o tre amici imparziali e con un magnetofono che registri l’apporto mio e l’apporto suo. Le garba? Inventeremo, lì per li, vicende, personaggi, dialoghi. Che bellezza. Io scommetto fin d’ora che lei si rivelerà desolatamente privo di fatti, di tipi e di battute da proporre. Nel suo articolo uscito sulla rivista Il Punto, lei ha messo le mani avanti. Ha detto: “La collaborazione dello scrittore a un film deve essere anzitutto critica”. E pazienza. La sfido egualmente. Lei criticherà le vicende, i personaggi e i dialoghi proposti da me; e io criticherò la sua critica, annullandola. Dove piglio questa certezza? La piglio in lei, Pasolini; m’accontenti e vedrà. Pensi che brutta figura mi potrà infliggere se io sbaglio; forza, combiniamo questo duelluccio "culturale", poi ne daremo ghiotte notizie ai suoi lettori (ne ha, mi auguro) e ai miei.
Basta con Pier Paolo. Chi altro c’e, al capezzale del Cinema? Sciami di uomini di penna. Convegni a Roma, a Milano, dovunque; offerte di aiuto (non disinteressato) ai produttori; una febbre, un’ansia di connubio, di nuzialità. Peppino Amato, Dino De Laurentiis, Carlo Ponti, Goffredo Lombardo, sposateci. Abbiamo pubblicato romanzi che talora hanno felicemente superato le duemila copie di vendita; parecchie nostre commedie vantano cinque repliche; noi e soltanto noi possiamo darvi i milioni di spettatori occorrenti ai vostri film. Cari e illustri colleghi, perdonatemi. Non vi amerei quanto vi amo se non vi dicessi che nel vostro affluire al cinema agonizzante c’è la mestizia di un cielo d’autunno sfregiato da voli di corvi. Dire: “La salvezza del Cinema è nei libri”, equivale esattamente a dire: “La salvezza dei libri è nel Cinema”. Che affermazione insensata. Un film e un libro sono parenti come un quadro e una statua. Michelangelo dipingeva e scolpiva; innumerevoli altri insigni pittori non scolpivano affatto. Idem quella di Zavattini e di Soldati è un’eccezione. Ragioniamo. Zavattini ha sacrificato al Cinema i dieci libri che, in vent’anni, avrebbe potuto scrivere. Ma già nei libri che licenziò prima di avvinghiarsi a De Sica (rileggeteli) v’era il cinema. Il signor Gam, il signor Zim, favolette, apologhi, sfondi generici, -un mondo senza date, "gags" di miele e di aloe: tutta una vaga trascrizione chapliniana.
Oggi il mio vecchio Cesare, al Convegno di Milano, sentenzia: “Il cinema ai letterati, perché il cinema si fa con le idee”. Ma sei pazzo, Cesare? “Niente cinema ai letterati”, obietto io, “perché il cinema si fa con le idee, ma con le idee cinematografiche”. Sulla Stampa, il 2 febbraio scorso, Emanuelli ha indicato una via di mezzo: un letterato fra gli sceneggiatori, che eviti alla barca dei film l’insabbiamento nella futilità e nel cattivo gusto. Emanuelli cita il caso del povero Adolfo Franti. Sa Iddio se Franci mi fu caro. Ma egli, durante i più selvaggi cozzi di sceneggiatori, quando più fervevano e s’urtavano i "La voglio cotta", e "La voglio cruda", giaceva in grembo a una poltrona, dormendo come una figura d’asceta in un bassorilievo antico. Oppure, eccezionalmente sveglio, raccontava squisiti aneddoti. Riusciva tosi a percepire, senza infamia e senza lode, infime quote di compensi di sceneggiature. Fu un balzello (finissimo, gentilizio) della letteratura sul cinema.- In fondo, Pasolini questo vorrebbe: ma non sa ne dormire né vegliare con la saggezza e con l’eleganza del povero, indimenticabile Franci.
No, romanzieri e poeti non gioveranno al cinema. I produttori lo sanno ed evitano i "Convegni" organizzati dall’Anica. Battono, invece, il ferro dei soccorsi governativi, degli alleggerimenti fiscali. Attuano vacanze e minacciano "serrate". Dicono: migliaia di persone rimarranno senza lavoro. Chi ne dubita? Ma i biglietti d’ingresso scemati di prezzo riaffollerebbero di nuovo le sale di proiezione? Temo di no. La Televisione, con i Musichieri e le Vie del Successo e i Capitan Fracassa e i Blu dipinti di blu, incalza. Erano vuoti i cinema di Torino mentre sul video balzava il Festival di Sanremo. Allo stesso modo, cinquant’anni fa, tram elettrici e automobili spodestavano carrozze e diligenze. Come agi, allora, il Governo? Suppongo che la maggioranza dei cocchieri si trasformò in autisti e in tranvieri. Non é, questa, la migliore soluzione del problema? Invece di improvvisarsi co-produttore, co-noleggiatore e co-esercente, lo Stato affibbi alla TV i disoccupati del cinema italiano. Quelli di umile specie. Gli Amato, i Sordi, i Matarazzo, i Vassarotti, le Lollobrigide, sono ricchi da far paura: in Italia come a Zurigo o a Londra. Non finiranno sulla paglia. Amen.
Da Giuseppe Marotta, Marotta Ciak, Milano, Bompiani, 1958
Il mondo contadino è una realtà che sta alle spalle anche dell'esperienza di Pier Paolo Pasolini, che tuttavia compie, prima di diventare regista, un tragitto culturale ideologico ed esistenziale assai più complesso. Mentre Olmi accetta in ogni momento senza traumi apparenti le caratteristiche della sua identità e i limiti della sua cultura, Pasolini è portato a trasgredire questi limiti e queste caratteristiche, a fuggire da se stesso, per ritrovare i caratteri più naturali di un'identità perduta in personaggi popolari, contadini o sottoproletari, coi quali cerca di identificarsi.
Anche Pasolini esordisce nella regia nel 1961 con Accattone. Nel cinema porta la stessa carica anticonformista del suo lavoro letterario e si pone subito lungo quella ideale «linea di fuoco» che gli consentirà anche in seguito di deludere le attese, produrre tensioni, polemiche, scandali, introducendo il disordine là dove esistono certezze, ordine, acquisizione passiva di dati di fatto.
A distanza di oltre trent'anni dalla sua morte - dopo che attorno al suo corpo troppo presto santificato dall'eccesso di iniziative si è creata troppo a lungo una vera e propria industria - è possibile tentare di ricomporre le singole parti del suo lavoro in un insieme coerente (come ha cercato di fare da tempo Giuseppe Zigaina puntando l'accento sulla lucida programmazione della sua morte come modo per assicurare l'eternità alla sua opera), tenendone presente l'estrema interdipendenza e connessione tra fare creativo e svolgersi della sua vita. Pasolini godeva della rara capacità di esprimersi con più mezzi a un alto livello di professionalità: come un re Mida, o un uomo orchestra, sapeva trasformare e adattare alle proprie esigenze qualsiasi materiale gli passasse per le mani. Non è stato certo il migliore né il più rappresentativo nei vari settori in cui ha operato, ma la somma e la qualità media dei suoi atti espressivi lo rendono una figura eccezionale e quasi unica nel panorama culturale del dopoguerra. Nel cinema si sarebbe occupato dei minimi dettagli della realizzazione di una scena così come, nel periodo in cui era stato segretario del partito comunista a San Vito al Tagliamento, redigeva a mano i tazebao in friulano (prima di essere espulso dal partito «per indegnità politica e morale» nel 1949). Il passaggio dall'attività di pittore e poeta in friulano a quella di cantore in romanesco della vita dei ragazzi delle borgate avviene in modo naturale. Poi, poco per volta, è attirato dal cinema. Lavora saltuariamente alle sceneggiature o ai dialoghi di film di Soldati, Fellini, Bolognini: il cinema lo attrae per il suo potere di dilatare i mezzi a disposizione dello scrittore. Nei suoi romanzi, Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), mediante il procedimento del «discorso libero indiretto», cerca di registrare dal vivo la lingua dei suoi personaggi, ma vi sono dei limiti invalicabili. Nel cinema la lingua lascia il posto all'immagine, che diventa la vita stessa. Rimane quasi folgorato dalla superiorità di sintesi del cinema sulla letteratura. Ne scopre la diversa capacità di informazione, suggestione ed evocazione rispetto alla parola, ma anche la reciproca convertibilità.
Nei suoi primi film (Accattone, 1961, Mamma Roma, 1962) oltre a trasferirvi il mondo dei romanzi nella struttura generale e nei singoli elementi, egli scopre in maniera autonoma il potere iconico del cinema. E sembra quasi bloccarsi attonito su ogni volto, su ogni corpo, disgiungendoli dallo sviluppo del racconto. «Accattone - ricorda Bernardo Bertolucci che gli aveva fatto d'aiuto regista - fu un'esperienza intossicante e drammatica. Dalla mia prima volta sul set di un film mi aspettavo di tutto, ma non di assistere alla nascita del cinema [...]. Fin dal primo giorno, vidi Pasolini trasformarsi: di volta in volta diventava Griffith, Dovzenko, Lumière [...]. Il suo riferimento non era il cinema, che conosceva poco, ma, lo dichiarò tante volte, i primitivi senesi e le pale d'altare [...] ogni inquadratura era costruita frontalmente e finiva per diventare un piccolo tabernacolo».
Delle figure gli interessa la dimensione frontale e, al tempo stesso, il suo sguardo ne valorizza la prepotente fisicità. La parola non può competere con la forza e l'immediatezza anche delle immagini più casuali. Un volto qualsiasi è in grado di esprimere, nel modo più concentrato, la realtà materiale di un'idea.
La sua immagine non sembra conoscere la tridimensionalità, il suo spazio - almeno nei primi film - non pare avere alcun tipo di relazione con quello del cinema coevo. Volutamente Pasolini fa regredire la visione della macchina da presa ben al di là dell'invenzione dei fratelli Lumière, collocandola nei paraggi della cultura visiva tardo-medioevale e pre-rinascimentale. Non si tratta di citazioni o di suggestioni di superficie, ma di una scelta di fondo - una sorta di «effetto quadro» - che gli servirà da guida lungo tutto il percorso stilistico successivo. Nei volti dei ragazzi di vita romani, così come, in seguito, in quelli di Napoli, della Lucania, India, Africa, il regista ritrova la stessa forza sacrale di certi affreschi medievali, o la fisicità di opere di Piero della Francesca, filtrate attraverso la lezione di Roberto Longhi. Accanto alla propria cultura Pasolini cerca di comunicare anche le proprie emozioni. Il cinema esalta questa cultura rimasta per un decennio allo stato di latenza. L'enorme quantità di primi piani conferisce ai personaggi la forza di icone, di immagini simbolo, senza far loro perdere nulla della materialità. Il suo operatore, Tonino Belli Colli, lo asseconda facendogli progressivamente scoprire la profondità dell'immagine e i suoi diversi confini significanti rispetto alla parola. «Pasolini - ha raccontato nel 2004 Delli Colli a un giovane laureando, Daniele Colombera - non sapeva nulla sulla tecnica, non sapeva cosa fosse una macchina da presa, un obiettivo, ma cercava di dare un carattere a quello che girava. Mi fece vedere La passione di Giovanna d'Arco di Dreyer, tutto graffiato e rovinato e Luci della ribalta di Chaplin: due film che non avevano niente in comune. Non riusciva a spiegarmi... Allora...».
Anche per un montatore di notevole esperienza come Nino Baragli l'avventura di Accattone segna una svolta, apre una nuova fase importante della sua carriera.
Il cinema, come ha detto Enzo Siciliano, esercita su Pasolini un effetto rigeneratore, agisce come una fleboclisi che rinnova la circolazione del sangue poetico. Scoprendo il potere della visione cinematografica egli constata, contemporaneamente, il senso del fallimento di un progetto politico culturale che lo aveva guidato per quasi vent'anni.
Pasolini concepisce i suoi film come redazioni parallele di autonome strutture letterarie e dimostra di potersi muovere, trasportando e contaminando liberamente sullo schermo i propri romanzi, ma anche la cultura letteraria fino alle forme più antiche della tragedia e del mito e ai massimi testi della letteratura e della novellistica di tutti i tempi.
Dai primi film, comunque, cerca di imprimere alle vicende un ritmo che le collochi in una dimensione rituale: ogni avventura, di Accattone o di Ettore (il protagonista di Mamma Roma) e ancor più di Stracci (la comparsa della Ricotta, che interpreta il ruolo del ladrone buono in un film sulla vita di Cristo), si svolge secondo i momenti e le scansioni proprie del rito. L'eroe percorre - mostrando sempre più la sua natura di Alter Christus - le tappe obbligate di una parabola esistenziale chiusa, di cui sono previsti i momenti dell'iniziazione, passione e morte. L'iter dei romanzi e dei primi film, fino a Uccellacci e uccellini del 1965, è rappresentabile nelle situazioni ricorrenti: la deambulazione e l'itinerario conferiscono a ogni viaggio il senso di un percorso obbligato. Tanto più poi Pasolini giungerà a perdere di vista i «ragazzi di vita», con tutti i problemi di linguaggio connessi al loro mondo, tanto più si avvicinerà ai grandi temi del mito. L'incontro con Gesù Cristo nel Vangelo secondo Matteo diventa pertanto un punto terminale di questa prima fase, un'opera in cui il regista investe al massimo le sue energie ideologiche, figurative, culturali, e la sua passione. La sua figura di autore è fortemente implicata in questo film. Anche l'idea della morte del corvo e la sua reincarnazione in Totò e Ninetto, nel finale di Uccellacci e uccellini, fa parte dell'idea strutturale del mito della morte e della rinascita dell'eroe, dello schema che prevede la reincarnazione ciclica dello stesso individuo.
Passando alla scrittura con la macchina da presa, Pasolini scopre l'impossibilità di essere i suoi personaggi, di rubare loro la vita e assimilarne la forza mediante la mimèsi linguistica. L'obiettivo è un elemento di avvicinamento e di separazione; lo schermo non è uno specchio e il transfert si interrompe all'improvviso. All'inizio peraltro è ancora convinto che la vita derivi dai suoi soggetti, mentre lui come soggetto che guarda può cancellarsi e annullarsi. La vitalità è nel giovane «accattone», in Ettore, in Stracci, essendo il discorso libero indiretto che aveva teorizzato per la letteratura nient'altro che il suo assumere la vita dall'oggetto osservato tramite la mimèsi e lo sguardo vampirico. L'occhio cerca di catturare la forza vitale, l'energia che emana dai diversi soggetti osservati. Pasolini muove i suoi primi passi da regista contro ogni regola, come se Ejzenstejn non fosse mai esistito e neanche il neorealismo, tornando a una grammatica elementare e a un'assenza di profondità di campo e a un uso delle luci talmente anomalo che da l'impressione di reinventare da zero il linguaggio cinematografico («Metta, metta Tonino il cinquanta - incoraggia il suo operatore - non abbia paura che la luce sfondi. Facciamo questo carrello contro natura!»). Proprio quando la scoperta del colore nella Ricotta pare dilatare al massimo le possibilità visive, l'immagine, spietatamente, gli fa capire la distanza sociale e culturale che lo separa da loro. A partire da questo cortometraggio del 1963, ognuno riprende il suo posto: da una parte l'intellettuale alter ego, impersonato da Orson Welles, e, al polo opposto, il sottoproletario Stracci, che muore di fame. Il senso del fallimento individuale, la rinuncia a un punto di vista unificato dalla parte dei suoi personaggi e la riappropriazione dello sguardo e della propria presenza come soggetto dell'emissione del messaggio lo porteranno a rappresentarsi nella Divina Mimesis anche come «ombra e sopravvivenza ingiallita», poeta civile di una realtà finita per sempre.
Prima ancora che Togliatti suggelli, con la sua morte, la fine di un'epoca, Pasolini si accorge che non vi sono più ragioni di scrivere per una classe profondamente trasformata e per un'idea di rivoluzione storicamente impossibile. Adottando anche un doppio registro linguistico - per Cristo che parla la lingua e i discepoli che usano il dialetto - Pasolini fa capire la difficoltà di comunicare un messaggio rivoluzionario. La cultura manieristica esibita nella Ricotta (le citazioni e ricostruzioni di opere di Pontormo e Rosso Fiorentino), pur dissacrata dall'innesto di elementi ironici e blasfemi, fissa i punti di riferimento di una figuratività capace di accogliere la presenza dell'autore consapevole del suo reale statuto professionale.
Il senso del fallimento individuale, che matura di pari passo con quello della fine delle speranze di mutare i rapporti nella società italiana, lo porta a percorrere, in maniera più diretta, le proprie ossessioni e a proiettarle sullo sfondo della tragedia e del mito (Edipo re e Medea), per dimostrare come l'unica produzione immaginaria possibile abbia sempre meno rapporti con la realtà circostante e sempre più col sogno.
Il momento del trapasso è dato da Uccellacci e uccellini, opera in cui la realtà convive con la dimensione figurale, l'allegoria e la favola. Il referente figurativo non è più dato solo dalla pittura (che nel Vangelo secondo Matteo aveva raggiunto l'apice dei riferimenti), ma anche dal cinema: il viaggio di Tote e Ninetto è, anzitutto, un viaggio nella storia d'Italia del dopoguerra, attraverso una serie di citazioni cinematografiche che, da Rossellini allo stesso Totò, vanno fino a Fellini, Zavattini e De Sica, includendo riferimenti esterni, come l'omaggio a Chaplin o a Bertolt Brecht.
Pasolini intende pronunciare una specie di orazione funebre per il neorealismo cinematografico, così come aveva fatto nel 1960, in poesia, per quello letterario.
Rispetto, alla grande esibizione di cultura figurativa alta del Vangelo secondo Matteo, Uccellacci e uccellini presenta un tipo di visione che esemplifica al massimo gli elementi (come nella pittura medievale) ne unifica le funzioni, cercando di ritrovare, al di là della diversità e molteplicità degli incontri e degli spazi, uno spazio che contenga e rappresenti tutti gli altri. Uno spazio capace anche di racchiudere la forza e la bellezza della natura incontaminata e dentro al quale si possa ritrovare intatta l'energia vitale, dove il ciclo della vita possa continuare a oscillare tra i due poli estremi di amore e morte.
Negli anni che vanno dalla Ricotta a Medea egli cerca di dilatare la forza del suo sguardo e di giocare su tutti i possibili registri dal tragico al comico, dalla favola all'allegoria. Allontanandosi dalla nave del neorealismo, che ai suoi occhi è ormai un rottame alla deriva, egli esplora, con l'aiuto di strumenti eterogenei, molte rotte. Legge Brecht e Artaud, si interessa di strutturalismo e di semiologia, intreccia la sua apertura verso la psicanalisi con la produzione di opere teatrali e affronta la regia cinematografica di Edipo re e Medea.
Quella cancellazione di sé, tentata nei romanzi e nei primi film attraverso il «discorso libero indiretto», ora lascia il passo a una vera e propria dissociazione, alla proiezione in uno spazio e in un tempo differenti. Ci troviamo, a questo punto dello sviluppo espressivo, al centro di un processo che prima lo ha visto sparire come soggetto nei suoi personaggi sottoproletari e poi lo vedrà annullarsi poco alla volta, ma che ora lo pone all'incrocio della realtà e del sogno, come soggetto sia del presente che del passato. Dopo il Vangelo non si tratterà più di rappresentare un soggetto esterno rispetto a una realtà rappresentata, ma un soggetto che può entrare e trascorrere liberamente dallo spazio della storia a quello del mito, che può entrare nella realtà dei classici non per profanarli ma per rivendicare la possibilità di mescolare temporalità diverse. L'universo rurale apparentemente abbandonato ritornerà ciclicamente nelle opere tratte dalle tragedie come fonte di vitalità, come luogo ideale in cui il seme, il sangue versato e i riti sono legati all'idea della morte e resurrezione dell'eroe. La storia personale di Pasolini sembra così acquietarsi nel momento in cui si ritrova nel grembo e può alimentarsi del liquido amniotico del mito. Gli avvenimenti minimi della quotidianità della sua vita nel momento della prima scoperta del mondo, fatta di risa e canti femminili, di sguardi d'amore, di acque, di verdi salici, si ritrovano perfettamente in una storia più grande che già esiste. Il passaggio temporale che interviene quando il padre del piccolo Pasolini rientra dalla festa, si china sulla culla e lo afferra per i piedi, è simile alla scena della trasformazione dell'osso scagliato in alto dalle scimmie e trasformato in astronave di un film di poco posteriore 2001 Odissea nello spazio di Kubrick. Da un certo momento in poi il suo viaggio di attraversamento alla velocità della luce dei confini tra il mito e la storia diventerà un viaggio verso un altrove che gli appare sempre più come una sorta di habitat ideale e di paradiso culturale perduto. La possibilità di passare dalla rievocazione della propria vicenda autobiografica alla tragedia vera e propria, identificando i piani del prologo ed epilogo di Edipo re, mi sembra una chiara dimostrazione di tutto quanto si è detto finora.
A partire da Edipo re egli cerca di portare, sul piano dalla ragione, il linguaggio profondo del sogno e tenta di materializzare le proprie ossessioni. Non a caso la produzione teatrale di quegli anni è produzione di un teatro di parola, dominato dal linguaggio dell'Es, e non a caso, da questo momento, il motivo onirico assume un ruolo centrale nella sua poetica.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
Il senso di sdoppiamento, di scomposizione del reale, è riproposto sia in Teorema che in Porcile, opere in cui Pasolini dichiara tutto il proprio malessere nei confronti della «falsa rivoluzione» del 1968.
La realtà, in ogni caso, si è talmente frantumata, le certezze si sono così disciolte, che l'apertura nei confronti del sogno diventa una mossa perfettamente legittima: «Perché realizzare un'opera quando è così bello sognarla soltanto», dirà Pasolini-Ciotto nel finale del Decameron, e in II fiore dette mille e una notte un personaggio affermerà a sua volta: «La verità non è in un sogno, ma in molti sogni».
L'ultima fase, quella in cui egli raggiunge i risultati visivi più complessi, lo vede presente come soggetto anche all'interno delle diverse opere (è Ciotto nel Decameron, Chaucer in I racconti di Canterbury, il poeta Simun nelle Mille e una notte e mostra la sua progressiva intenzione di cancellarsi come soggetto per restituire ai personaggi il potere di raccontare e produrre le proprie storie. Attraverso alcuni testi capitali della letteratura universale e sempre continuando a guardare in trasparenza al poema dantesco come motivo e itinerario figurale esemplare, tenta di ricostruire un gigantesco affresco di amore e morte.
Nel Decameron il motivo del sogno e dell'affabulazione si mescola a una cultura figurativa medievale e all'idea di poter ritrovare in Boccaccio le stesse modalità del proprio mondo poetico. Ser Ciappelletto-Citti non è altro che «un ragazzo di vita del XIV secolo» e la sua iniziale uccisione di un personaggio non identificato è una manifestazione della sua autonomia nei confronti della presenza antagonista dell'autore. Pasolini appare solo dopo la morte di Ciappelletto, quando costui è approdato a una verità parziale, quella del ritorno alla madre che lo salverà dai peccati.
Ci si può anche domandare chi sia il personaggio assassinato da Ciappelletto, contro cui egli sputa, buttandolo giù dalla rupe, e rispondere che quel personaggio altri non è che l'autore represso ed eliminato dai suoi personaggi. Solo la morte e la beatificazione di Ciappelletto, che significano anche scomparsa definitiva di un intero universo narrativo, consentono all'autore di ripresentarsi come soggetto produttore di immagini, racconti e sogni. Pasolini scompone i singoli segmenti figurativi secondo i codici della pittura manieristica. La galleria di vecchi sdentati, che paiono grottesche caricature (dai gaglioffi della novella di Andreuccio al marito di Peronella), reagisce allo splendore dei visi dai profili puri e delicati, come quello di Lisabetta. Pasolini stesso si mescola come pittore tra i suoi personaggi alla ricerca del miglior taglio figurativo per i volti. Il gesto delle sue dita sembra già una prefigurazione del gesto del regista e dell'operatore che sceglie il taglio più adatto dell'inquadratura.
La «trilogia della vita» riprende il rapporto tra il soggetto che produce racconto e il desiderio di annullamento e negazione, tra l'idea di scomporre al massimo l'unità narrativa e quella di combinare i diversi racconti entro un identico itinerario figurale.
Nel Decameron Pasolini, come pittore, deve realizzare un gigantesco affresco, mentre nel film successivo si presenta come l'autore dei Canterbury Tales. Nei Racconti di Canterbury il mondo di Boccaccio appare come interamente rovesciato: l'idea di morte, vecchiaia, degradazione fisica, prende il posto di quella della rappresentazione del sesso come vita e manifestazione di giovinezza.
L'itinerario di ascesa e liberazione del Decameron, che porta alla visione della Madonna, spinge qui in direzione opposta, e con perfetta simmetria, alla visione infernale. Ancora una volta è l'inferno della pittura medievale a orientare la sua immagine figurativa, mentre acquistano maggiore evidenza i simboli fallici, che appaiono lungo tutto il film in un processo di accumulazione iperbolica (gli alberi, la croce, il campanile...). Il tessuto iconico delle Mille e una notte è invece quello delle miniature islamiche e persiane: lo spiazzamento figurativo, il mutamento di alcuni codici della visione, una maggiore insistenza nell'uso dei grandi spazi entro cui far muovere i personaggi, la sacralità dei gesti, la serenità con cui l'itinerario esistenziale è fatto oscillare tra l'amore e la morte, mostrano come il regista cerchi (o creda di aver trovato miracolosamente) la possibilità di lasciare agli stessi personaggi la libertà di produrre i propri sogni. Come soggetto egli appare ancora, ma intende collocarsi ai margini del racconto, lasciando gli stessi personaggi liberi di percorrere, fino in fondo, il loro itinerario e seguire i propri istinti. Una natura pronuba li accoglie, facilita i loro incontri e ne asseconda i desideri. I rapporti sessuali non sono più gravati dal tabù della religione cattolica e l'itinerario figurativo pare giungere al punto d'arrivo culturale e ideologico.
La fuga dal presente non può comunque soddisfare la rabbia del regista: la delega a un mondo lontano, incontaminato ed edenico, di produrre sogni capaci di soddisfare le sue tensioni, si mostra in tutta la sua evidenza utopica nel momento in cui egli inizia a intensificare l'attività di polemista e giornalista corsaro, di interprete attento e scomodo della realtà italiana contemporanea. Se Le mille e una notte rivela ancora la fiducia nella realizzazione di un'utopia onirica, in cui la natura si possa cogliere nei momenti in cui afferma il proprio potere, il suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, liberamente ispirato alle 120 giornate di Sodoma di Sade, diventa la più drastica e drammatica dichiarazione di una sconfitta, mostra, e senza possibili alternative, il senso della cancellazione di ogni possibile sogno individuale e poetico e di ogni sogno collettivo per le classi subalterne. I pochi segni «positivi» sparsi nel film non cancellano il fatto che l'unico mondo ancora capace di produrre sogni e di materializzarli sia quello borghese, che afferma la sua egemonia nella forma di un lungo, interminabile e orrendo incubo. Il film registra il trionfo della visione della borghesia e della sua capacità di realizzare un immaginario terribile e orribile. Come in un quadro di Hieronymus Bosch, la fine di Salò mostra, dopo averci fatto passare attraverso tutte le tappe infernali della degradazione del corpo umano, l'esplosione e il trionfo della violenza, della tortura e della morte. Viste da lontano, come se si trattasse di uno spettacolo edificante e dal punto di vista di registi-carnefici, che incarnano il potere e impongono alle vittime la propria visione egemone della storia. Non c'è più posto, a questo punto, per l'immaginario dell'autore, anche se un discorso parallelo alle modalità di sfregio e di degradazione e cancellazione della vita si potrebbe aprire sul suo lavoro, in quanto, proprio nello stesso periodo, egli cancella, distrugge e capovolge, con una furia ormai quasi accecata dalla rabbia, il senso delle poesie della raccolta del 1954, La meglio gioventù. Non c'è più posto (come aveva del resto già detto nel finale della sua opera teatrale del 1968, Calderon) per il sogno di trasformazione ed emancipazione delle classi subalterne. La fine del «sogno di una cosa», di un mutamento e della speranza di una trasformazione profonda dei rapporti di classe è già avvenuta in coincidenza con il 1968. Eppure, negli anni seguenti, egli non ha rinunciato o deposto del tutto le armi, riservandosi il privilegio di continuare a immaginare e ricreare i propri fantasmi di una giovinezza e di un mondo perduti per sempre. E, al di là delle ipotesi della congiura e dell'attentato, che negli ultimi anni hanno ripreso credibilità, è assai probabile che, inseguendo gli ultimi miraggi ectoplastici ed evanescenti (e per di più giunti ormai al punto di massima degradazione, in una fase in cui la realtà pareva condannarlo all'afasia, con ancora dentro una gran voglia di continuare a provocare, a scagliar sassi contro il palazzo del potere, nel suo maledettismo ingenuo e indifeso), in una sera qualsiasi egli abbia incontrato una morte anonima, che la sua visione poetica da tempo aveva immaginato e previsto.
È in ogni caso straordinario che chi come lui non ha dominato il linguaggio cinematografico sia riuscito a raccontare storie che sembrano dar vita ad altre storie e a trasmettere a lungo in questi trent'anni i segni e i temi del suo corpo cinematografico a registi come Sergio Cittì, Luigi Faccini, Nico D'Alessandria, Aurelio Grimaldi, Mario Martene, Cipri e Maresco e Pappi Corsicato, tanto per citare i più evidenti. Il nomadismo culturale pasoliniano, la sua capacità di mescolare e ibridare tutti i linguaggi, la sua asistematicità e la sua capacità di auscultare e captare l'anima delle minoranze e delle identità regionali, fanno sì che tutta l'opera di questo poeta e il suo cinema in particolare continuino a parlarci, a seguirci e a porci e farci porre delle domande, a farci sentire la sua presenza, ad accompagnarci in questa fase di difficile decifrazione dei segni di una società che muta di continuo, e a indicarci profeticamente quello che può ancora accadere sia nelle trasformazioni di superficie che in quelle profonde, nonché tutte le forme di degrado irreversibile e catastrofico che sembra far avanzare il nostro mondo nel segno della perdita.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
Intellettuale contro, incarnazione del masochismo e del furore. Contro il mondo, contro il potere, contro se stesso. Figlio di un ufficiale e di una dolce donna friulana, gira l'Italia al seguito del padre. Nel dopoguerra si iscrive al PCI ma ne viene espulso perché omosessuale. Perde il lavoro di insegnante, deve trasferirsi a Roma con la madre. Dopo precarie occupazioni in borgata, trova sostegno nel cinema, come sceneggiatore, e, intanto, sviluppa con poesie e romanzi la sua vocazione letteraria. Nel 1961 può affrontare, pur senza alcuna conoscenza tecnica, la sua prima regia, Accattone, cui seguono Mamma Roma (1962), altra storia di sottoproletari affidata a una stranita Anna Magnani, un ruvido episodio (La ricotta) del film a episodi RoGoPaG (1963) e Il Vangelo secondo Matteo (1964), rivelazione religiosa di altissima tensione e di straordinaria intelligenza visiva (uomini qualunque, contadini e intellettuali, sono gli interpreti; l'Italia meridionale dirupata funge da Palestina). Il senso del cinema pasoliniano è completato da una fiaba illuministica e lieve - Uccellacci e uccellini (1966) - che definisce preferenze, idiosincrasie e terrori di un intellettuale disomogeneo al cinema italiano. Sarà controcorrente in varie maniere. Polemiche tutte.
Contro la borghesia che sta uccidendo il sentimento religioso e la «purezza» del popolo (Teorema, 1968; Porcile, 1969); contro la classicità accademica che non comprende più il passato, così ricco e nutriente per i contemporanei (lo splendido Edipo re; 1967, l'accorata Medea, 1970); contro i tabù moralistici che castrano la naturalità della vita (Il Decamerón, 1971, e soprattutto l'incantevole Il fiore delle Mille e una notte, 1974);contro l'orrore della repressione, della libertà, dei sentimenti, dell'avvenire (Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975, da Sade, ambientato nel tempo della Repubblica sociale). Affannato, irruente, grezzo a volte e a volte raffinatissimo (le due inclinazioni pittoriche e i suoi studi aiutando), spietato e -fragile, stilisticamente manierista, estatico nelle prove migliori, Pasolini rimarrà uno dei pilastri del cinema italiano.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995