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Rassegna stampa di Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, montatore, musicista, è nato il 5 marzo 1922 a Bologna (Italia) ed è morto il 2 novembre 1975 all'età di 53 anni ad Ostia (Italia).

IDA BIONDI
MYmovies.it

Regista, sceneggiatore, scrittore, poeta, Pasolini trascorse l'infanzia in vari luoghi, seguendo i numerosi trasferimenti della famiglia dovuti alla carriera militare del padre. Dopo la prigionia di quest'ultimo e la tragica morte del fratello partigiano, egli visse per qualche tempo in Friuli, regione d'origine della madre. Qui cominciò ad interessarsi di poesia (Poesie a Casarsa, 1942), soprattutto dialettale. Laureatosi in lettere, si dedicò all'insegnamento, esercitando al tempo stesso un'intensa attività politica. Privato della cattedra ed espulso dal partito comunista a causa dell'accusa di corruzione di minore, si trasferì a Roma nel 1949, dimostrando immediatamente un vivo interesse per le condizioni, la mentalità e i comportamenti del sottoproletariato urbano. Frutto di questa sua indagine sono i romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959); nel 1957 aveva pubblicato anche una raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci. Accanto a questa intensa attività letteraria, che non mancò di attirargli sia approvazioni che durissime critiche, Pasolini iniziò anche ad occuparsi di cinema come soggettista e sceneggiatore, lavorando con Fellini (i dialoghi di Le notti di Cabiria sono suoi), Bolognini, Vancini, Rossi, Lizzani (con questo regista, Pasolini apparve anche come attore, nel personaggio di Leandro «il monco» ne Il gobbo, del 1960, e in Requiescant, del 1967), Bertolucci; in tutte le loro opere, infatti, cominciano a trasparire scene e personaggi che documentano chiaramente la poetica pasoliniana. Particolarmente significativi, a questo proposito, i soggetti de La notte brava (1959, Mauro Bolognini), La giornata balorda (1960, Mauro Bolognini), Morte di un amico (1959, Franco Rossi), La commare secca (1962, Bernardo Bertolucci); in essi, le figure del mondo letterario di Pasolini, popolato di «ragazzi di vita», di prostitute, di rappresentanti del sottoproletariato urbano impegnati quotidianamente nella fatica e nel dolore del vivere, trovarono una nuova e dolente trasposizione cinematografica. Nel 1961, tratto dal romanzo Ragazzi di vita, uscì Accattone, di cui Pasolini fu regista, soggettista e sceneggiatore; egli volle affidare il ruolo del protagonista ad un personaggio del tutto estraneo al mondo del cinema e scoperto da lui stesso, Franco Citti, un imbianchino semianalfabeta, che in seguito divenne una delle presenze fisse nei suoi film. Accattone, presentato al Festival di Venezia, fu accolto con grandi contrasti; ma non vi è alcun dubbio che Pasolini si rivelò in esso un regista di eccezionali capacità, dotato di uno stile personalissimo, sia nella narrazione che nella resa figurativa delle immagini. Ambientazione e personaggi simili a quelli di Accattone compaiono anche in Mamma Roma (1962), storia del disperato quanto inutile tentativo di riscatto da parte di una prostituta non più giovane, madre di un figlio ormai uomo e destinato a concludere i suoi brevissimi giorni sul letto di contenzione. Il film, scritto "su misura" per Anna Magnani e da lei interpretato splendidamente, anche se con qualche intemperanza, riprendeva il tema più caro a Pasolini, le condizioni di un sottoproletariato tanto più misero e disperato, quanto più lontano da un'autentica consapevolezza di sé. Nel 1963, oltre alla scelta e al commento della prima parte del film di montaggio La rabbia e a un tentativo, in parte fallito, di film-inchiesta, Comizi d'amore (ed. 1955), Pasolini realizzò l'episodio La ricotta del film Rogopag (Laviamoci il cervello!), in cui, con toni da apologo, evidenziò ancora una volta la sua dolorosa visione dell'esistenza. Il film anticipò tematiche e modi della sua opera successiva, Il vangelo secondo Matteo (1964), presentato a Venezia nel 1964. Quest'opera, vero capolavoro di poesia, ci offre anche la più diretta chiave di lettura del complesso e tormentato mondo interiore di Pasolini, combattuto, senza speranza di soluzione, fra la volontà di aderire totalmente all'ideologia marxista e una spiritualità cristiana profonda e tormentata; due sentimenti in perenne conflitto fra loro ed entrambi tanto forti da giungere quasi ad una reciproca elisione, così che l'anima finisce con lo smarrirsi, sprofondando in un pessimismo senza speranza. Questo tema fu alla base dei suoi due film successivi, Uccellacci e uccellini (1966), un'opera straordinaria, che denuncia senza veli la crisi completa dell'ideologia marxista, e Teorema (1968), un film difficile e non privo di squilibri, ma comunque geniale e ricco di straordinari momenti poetici. Quasi contemporaneamente, nel 1967 e nel 1969, uscirono Edipo re, rilettura e reinterpretazione di Edipo re e di Edipo a Colono, due drammi di Sofocle (496-406 a.C.) e Medea, tratto dal capolavoro tragico di Euripide (485 ca - 406 a.C.), con una straordinaria Maria Callas nelle vesti della protagonista. In entrambi i film, anche se con qualche discontinuità e con qualche forzatura, Pasolini si sforzò di evidenziare l'attualità delle tematiche di fondo: nel primo, il doloroso cammino di Edipo verso l'autocoscienza; nel secondo, la sofferenza di una donna sradicata dalla propria patria e tradita nei suoi affetti più profondi, che finisce con il trasformare il proprio dolore in ferocia, massacrando i propri figli nel più tremendo gesto di autoannullamento che una madre possa compiere. Un potente legame di pensiero, oltre che letterario, accomuna i film della così detta "trilogia della vita": Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte, rispettivamente del 1970, 1972, 1973. Infatti, in tutti e tre, l'autore sviluppò un solo motivo di fondo, utilizzando come legame il tema comune dell'erotismo. La sua volontà fu quella di rappresentare un'umanità gioiosa, libera e felice, che identificava il proprio totale riscatto da ogni forma di sofferenza nella libertà gioiosa dei sensi e nel loro completo appagamento, senza alcun freno etico o religioso. Tuttavia, al più intenso dei godimenti si accompagna un senso ancor più vivo di delusione e di angoscia, di fronte all'ineluttabile certezza della fine e del disfacimento a cui non può sottrarsi alcuna forma di bellezza e di carnalità; perciò, il trionfo del piacere non può che preannunciare il trionfo della morte. Tale pessimismo costituisce al tempo stesso il preludio e il tema di fondo all'ultimo capolavoro di Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), in cui l'autore presentò un ben noto avvenimento di storia contemporanea come la più recente replica di un eterno dramma umano: infatti il film, fin troppo carico di riferimenti all'opera di De Sade, il "divino marchese" (1740-1814), sviluppò, in una molteplicità di forme, un unico tema: lo sfruttamento, la degradazione e l'abbrutimento dell'uomo da parte dei suoi simili, con la complicità di un intero contesto sociale fondato su falsi valori. In quello stesso anno, la notte del 2 novembre, Pasolini morì, probabilmente ucciso da uno dei "ragazzi di vita" che era solito frequentare, senza farne mistero; ma questo tragico episodio non è mai stato definitivamente chiarito.

A. O. SCOTT
The New York Times

Poet, playwright, screenwriter, filmmaker, Communist, Christian, moralist, pornographer, populist, artist: 32 years after he was murdered by a teenage hustler (who later tried to recant his confession), Pier Paolo Pasolini remains, perhaps above all, a subject for furious argument. In an era when Italy produced a bumper crop of difficult, passionate artists, especially in the cinema, he may have been the most difficult of all, and arguably the most prodigiously talented.
No single institution, art form or political tendency could contain his angry, exquisite energies, so it makes sense that a New York retrospective of his work would be spread around the city, encompassing concerts, performances and exhibitions as well as film screenings. The program, called “Pier Paolo Pasolini: Poet of Ashes” and organized by the Italian Cultural Institute, continues through Dec. 18. The heart of it — an 11-film program at the Film Society of Lincoln Center called “Heretical Epiphanies” — opens next Wednesday with a screening of “Mamma Roma.”

ROBERTO ESCOBAR
Il Sole-24 Ore

I quasi dieci anni trascorsi dalla morte di Pasolini valgono quanto l’arco di un’intera generazione. Siamo cambiati. Siamo così cambiati che ci vengono a mancare gli strumenti per misurare fino in fondo il cambiamento. Semplificando, possiamo dire: è caduto il primato della politica ed è sprofondato nel pozzo senza fondo di un passato che per troppe ragioni ancora per molto rimarrà senza memoria. Anche Pasolini, il poeta per immagini Pasolini, pagò il proprio tributo a questo primato, leggendo talvolta in chiave politica la propria poesia. In lui gli italiani amavano e più spesso odiavano uno “schieramento”. Lo scandalo dell’omosessualità, poi, rendeva gli opposti sentimenti ancora più assoluti. Caduto il primato della politica e attenuata la passione polemica, si può avanzare un’ipotesi nuova: Pasolini - l’impegnato, il militante, lo scrittore corsaro - fu e resta un inattuale. L’attualità fu per lui sempre l’elemento contro cui opporsi, contro cui suscitare scandalo, arte che l’Italia degli anni Cinquanta gli aveva dolorosamente insegnato. Ancora negli ultimi mesi di vita, Pasolini compie questa sua critica radicale, ora però contro quello stesso schieramento nel quale da sempre si è riconosciuto. Il tema è l’aborto, e tuttavia nel fondo si intravvede qualcosa di più totale, di più definitivo. È nel suo cinema, e in particolare nei suoi ultimi quattro film, che l’inattualità si libera di tutto il peso polemico della cronaca e dell’ingombrante e goffo primato della politica. I primi tre - la trilogia della vita - si rifugiano in un passato recuperato nel sottoproletariato meridionale e nel terzo mondo. L’ultimo - che con gli altri forma una non dichiarata tetralogia, questa volta però “della morte” - confonde passato e futuro, nell’incubo senza speranza del Fascismo Totale. Con Salò l’inattualità, definitivamente, non riguarda più un tempo storico particolare, non riguarda più le vicende particolari di un’epoca. Rifiutato è invece il tempo, la vita. Rifiutato è il suo stesso strumento di poeta, il cinema. Salò non è solo cinema della morte, per quel suo ossessivo procedere nel sangue. È anche, in primo luogo, morte del cinema, cioè di quello che era stato per anni il luogo della speranza della poetica pasoliniana, la sua utopia progressiva. Che cosa è il cinema? Totò - cui Pasolini immagina di porre la domanda in uno scritto del ‘66 - risponde cantando e rivolgendosi a Ninetto, che lo ascolta “col fiocco rosso dello scolaro diligente e menefreghista (...), imparando come una scimmietta la lezione”. Il cinema - canta Totò - “non evoca la realtà, come la lingua letteraria non copia la realtà, come la pittura non mima la realtà, come il teatro. Il cinema riproduce la realtà : immagine e suono! Riproducendo la realtà, che cosa fa il cinema? Il cinema riproduce la realtà con la realtà “. Il cinema - utopia dell’essere nella realtà - è un’infinita soggettiva, un infinito piano sequenza, “infinito come la realtà che può essere riprodotta da un’invisibile macchina da presa”. Esso è la possibilità stessa della vita non ancora vissuta, ma immaginata, cioè pensata per immagini come si fa quando si sogna. Che cosa è, invece, il film? Il film - scrive Pasolini - è la fine dell’infinita possibilità, è la scelta di alcune parti dell’ininterrotto piano sequenza. È la vita così come la si vive. Il passaggio dal cinema al film è opera del montaggio, che fa nel film come la morte nella vita di un uomo: gli dà senso, ne fissa il significato. Il cinema è sogno e vita, ma il film è realtà e morte. Se questa dialettica cinema-film fosse solo una teoria, la si potrebbe confutare. Essa è invece una poetica, e le poetiche non si confutano. In quanto poetica, per esempio, determina la struttura narrativa di Decameron - come più in genere di tutto il suo cinema. Decameron è apparentemente il trionfo della vita e, addirittura, del vitalismo. Eppure è un film e, in quanto film, è anche opera della morte (montaggio). E infatti la morte segna tutto il primo tempo con la novella di ser Ciappelletto, che - con una disperazione ignota in Boccaccio - ne “lega” gli episodi. Il secondo tempo, quasi come “risposta” al primo, è invece costruito attorno alla figura di un poeta e di un artista, Giotto, che Pasolini per diverse ragioni finì per interpretare egli stesso. La leggerezza dell’arte (e del suo sogno) si contrappone così alla morte, dando luogo all’illusione di poterla superare. Ma - si chiede Pasolini - Giotto alla fine del film - “...perché realizzare un’opera, quando è così bello sognarla soltanto?...”. Come in tutto il cinema di Pasolini, già in Decameron dunque è implicito Salò, o il passaggio mortale dal sogno alla realtà, dalla possibilità infinita all’attualità della storia e del tempo. La vita smentisce il sogno, uccide la speranza. Il film, cioè l’attualità del cinema, uccide il cinema. La trilogia della vita è appunto una tetralogia della morte. “Ho visto passare una vita intera. Avevo un futuro che sta cominciando a essere passato. Non credo che si possa fare niente in senso politico”. Al massimo - continua in un’intervista del ‘73 - ci si può comportare come se ci si credesse. Questa è, alla fine, l’inattualità di Pasolini: non solo la critica di un tempo che, per quanto profonda, consente sempre di sperare in un altro tempo ma soprattutto la convinzione insuperabile che il tempo sia, senza rimedio, il trionfo della morte. Quanto di meno “politico” ci sia, dunque. Teniamone conto nei prossimi mesi, quando il decennale della morte ci porterà a riparlare di lui.

GIUSEPPE MAROTTA

Quanti medici, al capezzale del Cinema. E quante ricette spassose. Mi ha divertito quella di Pier Paolo Pasolini (Il Punto, 18 gennaio 1958), ricca di un accenno a me. Titolo del pezzo: "Letteratura e cinema non sono due componenti diverse di un’unica fenomenologia culturale". Brano che mi riguarda: "La critica cinematografica è in posizione ancillare rispetto a quella letteraria: o è puro giornalismo, superficiale e semplicistico, o è pseudofilologia da cine-club, o è dogma e apriorismo moralistico-politico. Non bastano sei o sette buoni critici per salvare una situazione dominata da critici paroliberi alla Marotta o da fattorini di Partito. Io considero altrettanto nocivi al cinema questi critici dilettanti, spesso moralisti in mala fede, degli stessi, così spregiati produttori". Così ha parlato, dalla nube del Sinai, l’unto del Signore. Beh, gliene dico quattro. Il Pier Paolino sappia che accetto di buon animo la taccia di " parolibero". Se vigessero ancora i biglietti da visita la farei aggiungere, stampata, al mio nome. Essa contiene, fra quintali di libertà di ogni genere, quella, per me inebriante, di non aver mai chiesto né medaglie né lettori viziosi al turpiloquio ed alle oscenità di un Ragazzi di vita. Sono poi libero di non usare, avvenga ciò che avvenga, espressioni come "fenomenologia culturale", o "posizione ancillare", o "apriorismo moralistico-politico": tetre gale di una vacua e buffa nomenclatura, tanto facile da assimilare quanto algida, superba e cafona. Il Pasolini è d’altronde, anche in versi, un mero e vizzo frutto di vocabolario. Poesia Le ceneri di Gramsci? Parole, parole: una ricettazione (da ghetto) di parole. Immagini casuali, ottenute come si ottiene un dodici gettando i dadi. Non un filo di sangue arteriosa, non un centimetro di pelle, non un barlume di umanità e di vita. Parole fluttuanti, parolesemi-di-parole, che fanno pensare alle brulicanti uova dei pesci, e che tutto sommato generano, appunto, silenzio e buio di viscide profondità marine. Effimere ciance premiate a Viareggio. Bene: e che vuole, sentiamo, il Pier Paolo, da me e dal Cinema? Io sono "parolibero", cioè non schiavo, ma padrone delle mie parole. Con me o le parole campano, assumendo la faccia le vene l’ombelico miei, oppure io le scaccio, le rinnego.

GIAN PIERO BRUNETTA

Il mondo contadino è una realtà che sta alle spalle anche dell'esperienza di Pier Paolo Pasolini, che tuttavia compie, prima di diventare regista, un tragitto culturale ideologico ed esistenziale assai più complesso. Mentre Olmi accetta in ogni momento senza traumi apparenti le caratteristiche della sua identità e i limiti della sua cultura, Pasolini è portato a trasgredire questi limiti e queste caratteristiche, a fuggire da se stesso, per ritrovare i caratteri più naturali di un'identità perduta in personaggi popolari, contadini o sottoproletari, coi quali cerca di identificarsi.
Anche Pasolini esordisce nella regia nel 1961 con Accattone. Nel cinema porta la stessa carica anticonformista del suo lavoro letterario e si pone subito lungo quella ideale «linea di fuoco» che gli consentirà anche in seguito di deludere le attese, produrre tensioni, polemiche, scandali, introducendo il disordine là dove esistono certezze, ordine, acquisizione passiva di dati di fatto.
A distanza di oltre trent'anni dalla sua morte - dopo che attorno al suo corpo troppo presto santificato dall'eccesso di iniziative si è creata troppo a lungo una vera e propria industria - è possibile tentare di ricomporre le singole parti del suo lavoro in un insieme coerente (come ha cercato di fare da tempo Giuseppe Zigaina puntando l'accento sulla lucida programmazione della sua morte come modo per assicurare l'eternità alla sua opera), tenendone presente l'estrema interdipendenza e connessione tra fare creativo e svolgersi della sua vita. Pasolini godeva della rara capacità di esprimersi con più mezzi a un alto livello di professionalità: come un re Mida, o un uomo orchestra, sapeva trasformare e adattare alle proprie esigenze qualsiasi materiale gli passasse per le mani. Non è stato certo il migliore né il più rappresentativo nei vari settori in cui ha operato, ma la somma e la qualità media dei suoi atti espressivi lo rendono una figura eccezionale e quasi unica nel panorama culturale del dopoguerra. Nel cinema si sarebbe occupato dei minimi dettagli della realizzazione di una scena così come, nel periodo in cui era stato segretario del partito comunista a San Vito al Tagliamento, redigeva a mano i tazebao in friulano (prima di essere espulso dal partito «per indegnità politica e morale» nel 1949). Il passaggio dall'attività di pittore e poeta in friulano a quella di cantore in romanesco della vita dei ragazzi delle borgate avviene in modo naturale. Poi, poco per volta, è attirato dal cinema. Lavora saltuariamente alle sceneggiature o ai dialoghi di film di Soldati, Fellini, Bolognini: il cinema lo attrae per il suo potere di dilatare i mezzi a disposizione dello scrittore. Nei suoi romanzi, Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), mediante il procedimento del «discorso libero indiretto», cerca di registrare dal vivo la lingua dei suoi personaggi, ma vi sono dei limiti invalicabili. Nel cinema la lingua lascia il posto all'immagine, che diventa la vita stessa. Rimane quasi folgorato dalla superiorità di sintesi del cinema sulla letteratura. Ne scopre la diversa capacità di informazione, suggestione ed evocazione rispetto alla parola, ma anche la reciproca convertibilità.

GIAN PIERO BRUNETTA

Il senso di sdoppiamento, di scomposizione del reale, è riproposto sia in Teorema che in Porcile, opere in cui Pasolini dichiara tutto il proprio malessere nei confronti della «falsa rivoluzione» del 1968.
La realtà, in ogni caso, si è talmente frantumata, le certezze si sono così disciolte, che l'apertura nei confronti del sogno diventa una mossa perfettamente legittima: «Perché realizzare un'opera quando è così bello sognarla soltanto», dirà Pasolini-Ciotto nel finale del Decameron, e in II fiore dette mille e una notte un personaggio affermerà a sua volta: «La verità non è in un sogno, ma in molti sogni».
L'ultima fase, quella in cui egli raggiunge i risultati visivi più complessi, lo vede presente come soggetto anche all'interno delle diverse opere (è Ciotto nel Decameron, Chaucer in I racconti di Canterbury, il poeta Simun nelle Mille e una notte e mostra la sua progressiva intenzione di cancellarsi come soggetto per restituire ai personaggi il potere di raccontare e produrre le proprie storie. Attraverso alcuni testi capitali della letteratura universale e sempre continuando a guardare in trasparenza al poema dantesco come motivo e itinerario figurale esemplare, tenta di ricostruire un gigantesco affresco di amore e morte.
Nel Decameron il motivo del sogno e dell'affabulazione si mescola a una cultura figurativa medievale e all'idea di poter ritrovare in Boccaccio le stesse modalità del proprio mondo poetico. Ser Ciappelletto-Citti non è altro che «un ragazzo di vita del XIV secolo» e la sua iniziale uccisione di un personaggio non identificato è una manifestazione della sua autonomia nei confronti della presenza antagonista dell'autore. Pasolini appare solo dopo la morte di Ciappelletto, quando costui è approdato a una verità parziale, quella del ritorno alla madre che lo salverà dai peccati.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Intellettuale contro, incarnazione del masochismo e del furore. Contro il mondo, contro il potere, contro se stesso. Figlio di un ufficiale e di una dolce donna friulana, gira l'Italia al seguito del padre. Nel dopoguerra si iscrive al PCI ma ne viene espulso perché omosessuale. Perde il lavoro di insegnante, deve trasferirsi a Roma con la madre. Dopo precarie occupazioni in borgata, trova sostegno nel cinema, come sceneggiatore, e, intanto, sviluppa con poesie e romanzi la sua vocazione letteraria. Nel 1961 può affrontare, pur senza alcuna conoscenza tecnica, la sua prima regia, Accattone, cui seguono Mamma Roma (1962), altra storia di sottoproletari affidata a una stranita Anna Magnani, un ruvido episodio (La ricotta) del film a episodi RoGoPaG (1963) e Il Vangelo secondo Matteo (1964), rivelazione religiosa di altissima tensione e di straordinaria intelligenza visiva (uomini qualunque, contadini e intellettuali, sono gli interpreti; l'Italia meridionale dirupata funge da Palestina). Il senso del cinema pasoliniano è completato da una fiaba illuministica e lieve - Uccellacci e uccellini (1966) - che definisce preferenze, idiosincrasie e terrori di un intellettuale disomogeneo al cinema italiano. Sarà controcorrente in varie maniere. Polemiche tutte.

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