Fabio Carpi realizza il suo primo film, Corpo d'amore del 1972, dopo una lunga attività di giornalista, scrittore, poeta, sceneggiatore. Dalla sua amicizia e dalla collaborazione con Nelo Risi nascono le sceneggiature di Andremo in città e Diario di una schizofrenica. Da quegli anni Carpi taglia in un certo senso il cordone ombelicale, che lo lega all'attività letteraria, per dedicarsi al cinema a tempo pieno.
In Corpo d'amore Carpi mette a frutto tutte insieme le sue competenze letterarie, pittoriche, musicali, cinematografiche: la sua -scrittura visiva è intensa e dimostra di aver assimilato perfettamente varie lezioni: si tratta di un soggetto enigmatico, quasi metafisico, che racconta una doppia storia di mancata comunicazione tra padre e figlio e di comune amore per la medesima bellissima ragazza giunta tra le loro braccia, come una sirena dalle onde del mare. Il film si fa ammirare per l'intensità visiva (la fotografia è di Vittorio Storaro) e per il livello alto di riferimenti filosofici e cinematografici, anche se la letterarietà dei dialoghi non aiuta a orientarsi nel groviglio dei sentimenti. Si tratta dell'unico caso di squilibrio tra le parti perché con le opere successive emerge come qualità specifica del regista la sua capacità di accordare perfettamente le varie scritture, quella letteraria, quella visiva e quella musicale. Due anni dopo gira L'età della pace, una delle opere - in effetti poco considerate - grazie a cui, al di là del senso di degrado inarrestabile del sistema negli anni Settanta, si possono registrare improvvisi e imprevisti scarti verso l'alto. «Era dai tempi di Umberto D. - scrive Tassone - che un regista non realizzava un'opera così originale, rigorosa, emozionante, riuscita, sull'isolamento, le delusioni, i rimpianti, le rabbie della terza età». E si potrebbe aggiungere che era anche dal tempo del Sempione strizza l'occhio al Frejus di Vittorini che il problema della vecchiaia e della morte non trovava, pur nell'apparente misura di una vicenda singola racchiusa tra le quattro mura di un appartamento, un respiro e una portata così grandiosi. La storia del vecchio ex combattente, confinato in una realtà che non è più sua, appare come la prosecuzione in chiave moderna della storia d'Ulisse, una volta tornato a Itaca. Carpi è un autore molto più coinvolto nel suo cinema, più portato a proiettare il proprio io nelle storie narrate. Gli altri titoli che compongono la sua filmografia (Quartetto Basileus, Les chiens de Jerusalem prodotto da Antenne 2, Barbablù, Barbablù, L'amore necessario, La prossima volta il fuoco, Nel profondo paese straniero, Nobel-Ignobel, Le intermittenze del cuore) ne confermano le grandi doti di direttore d'attori e lo definiscono come magistrale continuatore della tradizione del Kammerspiel. La sua cultura cosmopolita rende la sua presenza difficilmente classificabile e lo stesso regista si definisce come «un corpo estraneo» nel cinema italiano degli ultimi vent'anni. Ma ne è anche una specie di coscienza critica, un autore che non rinuncia in nessun momento a pensare all'opera cinematografica come a un prodotto alto di cultura e intelligenza.
Quartetto Basileus è un film che promuove Carpi grazie al suo enorme successo in America - un anno di repliche al Lincoln Plaza di New York e 4 milioni di dollari di incassi - nel ristretto gruppo di autori degli ultimi decenni che superano le frontiere nazionali. Nell'insieme il suo cinema si distingue per la capacità di muoversi entro atmosfere sospese, di saper rendere, attraverso sguardi, silenzi, gesti minimi, accumulazioni di energie, il senso della complessità e precarietà degli equilibri nei rapporti interpersonali, di saper far vibrare sentimenti ed emozioni lungo una gamma di toni e sfumature molto ampia. Il contesto sociale non gli interessa (è lui stesso a dichiararlo) mentre la sua macchina da presa è interessata soprattutto allo studio dei rapporti, tra un uomo e una donna, tra un padre e un figlio, tra due generazioni di musicisti, tra padre e figli (per Barbablù, Barbablù Carpi si ispira a Cesare Musatti, il grande vecchio della psicanalisi italiana, per tracciare il ritratto di uno psicanalista giunto al bilancio della sua esistenza). I suoi film mostrano la lotta contro il tempo e le sue leggi inesorabili e devastanti. I suoi personaggi maturi - interpretati da attori del calibro di John Gielgud, Ben Kingsley, Francois Simon, Georges Wilson - inseguono utopicamente l'amore assoluto e sono disposti a compiere qualunque cosa per difenderlo: ne escono sconfitti, ma vogliono guardare egualmente al futuro mentre devono fare i conti con le fragilità e imprevedibilità del vivere quotidiano.
Carpi è forse l'autore più assimilabile al cinema di un regista come Rohmer: il suo cinema non solo regge alla distanza, ma cresce nel tempo, guadagna in leggerezza e profondità della visione: nel corso della sua attività Carpi torna periodicamente e varia alcuni temi: quelli del conflitto tra arte e vita, della contemplazione affascinata del momento dionisiaco e irripetibile della giovinezza, della meditazione sulla vecchiaia come momento chiave dell'esistenza in cui vale ancora la pena di assaporare il dono che può giungere da ogni attimo di vita, in cui possono bruciare i fuochi del desiderio e le ragioni del vivere non debbono dipendere soltanto dalla memoria e dallo sguardo rivolto all'indietro.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007