Geoffrey Rush è un attore australiano, produttore, è nato il 6 luglio 1951 a Toowoomba (Australia). Geoffrey Rush ha oggi 73 anni ed è del segno zodiacale Cancro.
È capace di passare in un secondo dallo slang australiano, quello con la bocca larga, alla perfetta declamazione dell’inglese shakespeariano. Apparire, con la stessa convincente fisicità, ora un solenne Re Lear ora un irriverente Snoopy fuggjto dalle strisce dei Peanuts. Logico quìndi che Geoffrey Rush, faccia anonima e solido passato da attore teatrale a Melbourne, sia diventato al cinema lo specialista in personalità eccentriche ed esuberanti, preferibilmente mutuate dalla realtà. Tutto partì appena nove anni fa: lo sconosciuto Rush, già ultraquarantenne, fece conoscere al mondo con Shine la vera storia di David Helfgott, squinternato pianista di talento. Il ruolo gli valse una lunga lista di premi culminati nell’Oscar, la stima imperitura di Steven Spielberg e un inaspettato accesso al mainstream. Oggi, a 54 anni, lo specialista Rush ci offre il ritratto di Peter Sellers, icona trasformistica del cinema britannico nel film Tu chiamami Peter, nelle sale italiane dal 19 agosto. Quando, fu presentato al Festival di Cannes due anni fa, film-biografia firmato dal regista Stephen Hopkins riuscì in un colpo a scatenare le ire di parenti e fan di Sellers e le perplessità di critici con un ritratto fin troppo tormentato della vita del più esilarante comico inglese, stroncato da un infarto nell’80, a 54 anni, appunto. Dagli inizi in radio negli anni 50, al successo ottenuto grazie a registi come Blake Edwards, che per lui inventò l’ispettore Closeau e Stanley Kubrick, che gli fornì il ruolo multiplo in Il dottor Stranamore, Sellers è raccontato come un uomo volubile e iracondo, complessato e a tratti meschino, incastrato in difficili rapporti con registi e mogli, oppresso dalla madre, inadeguato come padre. «Non puntavamo certo al documentario», chiarisce subito Geoffrey Rush, al telefono dalla sua casa di Melbourne. «Fin dall’inizio il regista Stephen Hopkins ed io abbiamo deciso che volevamo parlare del lato oscuro di Peter Sellers: i dubbi e i rimpianti, le esaltazioni e le crisi di quest’attore di immenso talento e celebrità ma dall’equilibrio incredibilmente fragile. Ho visionato una serie di filmati, anche privati, che mi ha messo a disposizione la tv HBO e ho trovato la storia di un uomo profondamente infelice».
Però le reazioni dei figli di Sellers e della seconda moglie Britt Ekland al film sono state negative.
«Una cosa gonfiata dalla stampa. Senza aver visto il film la Ekland dichiarò ai giornali inglesi che Charlize Theron era troppo alta e vecchia per interpretarla. Poi
Charlize l’ha invitata all’anteprima del film a Cannes e Britt è rimasta turbata, ha detto di aver rivissuto pezzi della sua vita, lo sono andato a pranzo con la famiglia di Sellers. Ho detto loro: “Vi capisco. Come è possibile riconoscere in uno sconosciuto pieno di trucco e protesj di silicone il proprio marito e padre?”. Da Blake Edwards, invece, è arrivato il migliore dei complimenti: “Dopo venti minuti di film”, ha detto, “non vedevo più Geoffrey Rush, ma Peter Sellers”».
La trasformazione è straordinaria: eppure lei non somiglia così tanto a Sellers.
«È vero, io sono alto e magro, lui era piccolo e, almeno ad inizio carriera, grassoccio. Ci sono volute cinque ore di trucco al giorno, 38 parrucche, protesi in tutto il viso:
l’unica parte vera di me restava la fronte. Ma il peggio è stato la voce: ne usava sei o sette diverse, più quelle dei personaggi. Ho trascorso le pause di lavorazione del film La maledizione della luna nera ascoltando le sue interpretazioni alla radio e al cinema».
Perché ha accettato un ruolo così rischioso?
«All’inizio avevo rifiutato. Ero spaventato all’idea di interpretare Sellers: negli anni 60 è stato l’equivalente cinematografico dei Beatles, esponente perfetto della Swinging London, icona pop. Una delle prime vere celebrità britanniche insieme a David Niven e Laurence Olivier».
E perché poi ha detto sì?
«È stata proprio la paura l’ingrediente chiave che mi ha fatto accettare. lo conduco una vita normale, specie rispetto a quella di Sellers. Vivo una vita tranquilla con moglie e due figli: quando tutti pensavano che sarei andato ad Hollywood, ho solo traslocato in una casa più grande nella stessa strada di Melbourne. Ma la recitazione è la mia droga. Ho vissuto alti e bassi, ho avuto un esaurimento nervoso. Ogni volta per me è importante superare i miei limiti. Così, quando il regista è tornato un anno dopo, mi sono convinto».
Com’è cambiata la sua vita dopo Shine?
«Avevo passato i quarant’anni, sul palcoscenico con me c’erano attori formati che potevano essere miei figli, stava arrivando il tempo dei ruoli da padre, da méntore. Shine è stato un vento meraviglioso che mi ha sollevato in alto. Ho accompagnato questo film in tutto il mondo, anche in Italia, al Festival di Capri. È buffo perché in Usa erano ammirati dal mio parlare veloce, ma il doppiatore italiano era molto più rapido di me, perfino più somigliante al vero Helfgott».
Una curiosità: lei è stato compagno di college di Mel Gibson. Anche allora era cattolico come oggi?
«Eravamo due ventenni innamorati del teatro, ubriachi di vita. Sapevo solo che la famiglia di Mel era legata alla chiesa cattolica. Era un ragazzo pieno di humour, sul palcoscenico era un clown capace di incredibile inventiva. Non capisco poi perché, nella sua straordinaria carriera, si sia limitato ai ruoli di eroe romantico o d’azione. Anche se ci vediamo poco, è rimasto un legame forte tra noi. E, fatalità, quando ho preso in mano l’Oscar, ho girato lo sguardo e al lato delle quinte c’era lui».
Che effetto le fa essere reclutato da Spielberg per il suo prossimo film, Munich?
«Steven è sempre stato il più grande sostenitore di Shine: “finalmente un bel film”, disse. Da anni progettavamo di lavorare insieme, è arrivata l’occasione».
Il film affronta la vendetta del Mossad, il servizio segreto israeliano, sui terroristi palestinesi di Settembre nero dopo il massacro della nazionale israeliana alle Olimpiadi di Monaco nel ‘72. Ci sono già molte polemiche, soprattutto sui dubbi di coscienza che avrebbero colto gli agenti israeliani.
«È inevitabile, quando affronti un tema come questo. Ma la sfida di Steven è giusta, ed è la stessa che insegnava Shakespeare: raccontare i grandi conflitti attraverso la singola vicenda umana. Cercare di coinvolgere il pubblico in una questione enorme, antica e dolorosa come quella del Medio Oriente, che altrimenti farebbe solo paura. Questo film può essere un buon punto di partenza per provare a capire».
Da Il Venerdìdel 12 agosto 2005