La carriera di Danny De Vito attore è troppo lunga e ricca perché valga la pena di riassumerla qui (anche se non tutti sanno che è cominciata all’ombra protettiva di Mario Monicelli con Lady Liberty, nel 1972). Fatto sta che questo attore minuscolo ed esplosivo, ironico e autoironico, dalla presenza prepotente nonostante la breve figura, dopo un primo esperimento con un film lv, si è messo dietro la macchina da presa per realizzare Getta la mamma dal treno (1987), che riprende lo schema di Delitto per delitto in un frenetico gioco cinefilo a cui partecipano molti amici del regista, tra cui Rob Reiner e Barry Levinson che è il direttore della fotografia.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
Ma il film che ha consolidato la sua fama di regista è La guerra dei Roses (1989), una commedia nerissima sul disastro della famiglia americana, girata con spettacolare mestiere e raccontata con implacabile cinismo dall’avvocato, De Vito, colui che avrebbe dovuto mediare tra i due coniugi in armi, Michael Douglas e Kathleen Turner (protagonista di una delle più esilaranti scene di sesso che si siano viste recentemente).
Non altrettanto riuscito è Hoffa - Santo o mafioso? (1992), con cui De Vito ha tentato - falsificando e semplificando - la ricostruzione di una pagina non certo gloriosa della storia americana, quella della corruzione dei sindacati. Chi se la prende con Stone per le sue ipotesi e le sue sintesi disinvolte dovrebbe indignarsi con De Vito. Ma forse è stato solo un tentativo più lungo delle sue non lunghissime gambe.