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Toy Story 3: la quintessenza della Pixar

La saga di Toy Story riassume la filosofia dello studio.
di Gabriele Niola

I personaggi sono giocattoli nelle mani degli autori

mercoledì 7 luglio 2010 - Making Of

I personaggi sono giocattoli nelle mani degli autori
La trilogia di Toy Story, il simbolo stesso della Pixar (dopo la lampada Luxo ovviamente), consente in controluce di leggere tutta l'evoluzione e le aspirazioni di uno studio che da 15 anni a questa parte fa il miglior cinema (e i migliori incassi) del mondo.
Orientato ai bambini con ben più d'una strizzata d'occhio agli adulti, all'avanguardia tecnicamente (anche in materia di 3D stereoscopico adottano tecniche diverse da tutti) e fortemente radicato nella tradizione del cinema, ogni film di Toy Story ha affrontato un genere diverso portando avanti l'idea alla base dell'azienda, che i personaggi sono giocattoli nelle mani degli autori, i quali giocandoci divertono se stessi e gli spettatori.

Dallo schermo allo scaffale
Alla fine sono tutti giocattoli. La primigenia creatura Pixar (se si parla di lungometraggi) ha dato l'imprinting ad un'intera produzione. I giocattoli di Toy Story, pupazzi dalla funzione antica animati con spirito e attitudine moderna, fin dall'inizio hanno rispecchiato il modo di operare con cui lo studio di Lasseter si è prefisso di fare cinema: prendere dei fantocci, infondergli una personalità arbitrariamente e poi seguirla fino in fondo.
Anche gli altri, si dirà, fanno lo stesso, nessuno però con la coerenza, l'abilità e la profonda consapevolezza di questo meccanismo della Pixar.
Basta guardare alla scena d'apertura di Toy Story 3, in cui i personaggi sono coinvolti in una rocambolesca scena d'azione che li vede “fuori personaggio”, cioè agiti da Andy interpretano qualcos'altro, come accade nei giochi.
Ma come Woody e Buzz anche Nemo, Saetta McQueen, Wall-E e via dicendo sono oggetti di marketing pronti per diventare giocattoli ed essere venduti, come capitava nell'industria dell'animazione seriale televisiva giapponese che ha dato vita ad alcuni dei prodotti più ispiranti per la generazione Lasseter.

Il 3D come lo fanno alla Pixar
Arrivati al secondo film uscito ufficialmente in 3 dimensioni alla Pixar stanno cominciando a maturare uno stile e un modo d'intendere questo nuovo strumento.
Innanzitutto niente oggetti che escono dallo schermo, assolutamente vietato rompere la quarta parete (come del resto si prefiggono di fare molti colleghi, in primis la Dreamworks) e in seconda battuta molta attenzione al punto focale di ogni immagine.
L'idea tecnica che la Pixar ha avuto per risolvere il problema della messa a fuoco tridimensionale e dell'illusione di profondità è infatti diversa da quanto fanno gli altri studi. Loro sostengono essere una necessità, vista l'età della fetta più importante del pubblico affezionato, ma in realtà è l'ennesima genialata.
Per ogni immagine alla Pixar studiano il punto in cui si dovrebbe concentrare l'attenzione dello spettatore medio, sia il volto di Woody, un dettaglio sullo sfondo o un personaggio in primo piano, a partire da quello poi stabiliscono le profondità, sia dietro di esso che davanti ad esso. La regola fondamentale però è mai superare una certa distanza (espressa in pixel) che è stata decisa dagli alti dirigenti tecnici del gruppo. Una specie di misura aurea calcolata incrociando dati come la distanza media tra i bulbi oculari di un essere umano, la distanza media da uno schermo di media grandezza e via dicendo.
In questo modo non ci sono errori, non ci sono problemi, non ci sono affaticamenti e soprattutto distrazioni dalla storia. Il 3D Pixar infatti non impressiona ma lavora ad un livello subliminale. Coinvolge inconsapevolmente.

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