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Emanuele Barresi e il suo primo film

L'attore livornese racconta il suo esordio dietro la macchina da presa con Non c'è più niente da fare.
di Alessandra Giannelli

Il film

lunedì 4 febbraio 2008 - Incontri

Il film
Emanuele Barresi, livornese, classe 1958, è un attore da sempre. La sua passione è il teatro, così ha cominciato lavorando con Federico Tiezzi, ma anche con una compagnia lucchese (il Teatro del Carretto), dopo anni di studio presso una scuola europea itinerante, promossa dall'allora CEE. Attore teatrale appunto, ma anche dj, lavora poi alla radio recitando, e scrivendo, quella meraviglia che erano i radiodrammi. Conosce Paolo Virzì e Francesco Bruni (sceneggiatore con Barresi del film), con i quali fonda una compagnia amatoriale e poi, proprio col primo, approda al cinema: La bella vita nel 1994, Baci e abbracci nel 1999 e una piccola parte in Ovosodo. Nel 1993 recitava anche in Bonus Malus di Vito Zagarrio. Ma Barresi non smette mai di fare teatro: il "pane quotidiano" lo definisce lui stesso, dove il lavoro c'era sempre. Barresi fa anche la televisione, con la partecipazione a varie fiction. Vive a Roma da nove anni per motivi legati alle tournée e alle maggiori opportunità che la città offre, ma anche perché ormai aveva più amici nella capitale piuttosto che a Livorno.
Oggi, all'età di cinquant'anni, dopo tanto studio e lavoro alle spalle, decide di "inforcare" la macchina da presa e di girare un film che proprio del "suo" teatro parla, soffermandosi su quelle realtà umane, sentimentali che tra gli attori nascono. E lo fa con un film, Non c'è più niente da fare, in uscita il 5 febbraio a Livorno, per l'anteprima, l'8 a Roma. Incontriamo questo regista che definiamo giovane, perché al suo primo film, ma anche per la sua voglia di fare, per parlare di lui, delle sue tante esperienze e del suo film, dal titolo che subito rammenta la nota canzone di Bobby Solo, e conosciamo così un artista preparato e molto gentile, che è dentro al cinema più di quanto non creda.

Subito gli chiediamo: perché questo titolo?
La canzone la sentivo da piccino (ci risponde nel suo simpatico dialetto toscano); era la sigla di "Tutto Totò": una serie di trasmissioni in cui c'erano scenette del mitico interprete nelle sue ultime apparizioni televisive. Dopo Totò, in tv, la sera non c'era più nulla e, quindi, me la ricordo bene quella canzone.

Quando hai iniziato a pensare di fare un film?
Cinque anni fa avevo scritto un monologo che parlava di Ernesto Rossi, un attore teatrale livornese dell'Ottocento, morto in scena mentre interpretava "Re Lear". Avevo scritto un soggetto che parlava di lui, però, quando lo presentai a un produttore, mi disse che la storia di un attore non interessava a nessuno. Poi mi viene in mente di parlare proprio del teatro perché, alla fine, una cosa che di questo mondo mi ha sempre colpito è che la vita delle compagnie è come quella di una famiglia o di un gruppo di amici, dove ci sono tanti meccanismi: quello che ti sta antipatico, quella con cui ti fidanzi, etc. Il fatto che il teatro sia una metafora della vita è vero anche nel "dietro le quinte". Si crea una piccola comunità che sta insieme un anno e oltre, che vive insieme, che mangia insieme, in cui si realizzano delle dinamiche che vivi nella vita quotidiana. È un microcosmo in cui si condensano i piccoli drammi o le gioie che fanno parte della vita di tutti. A me di questa cosa interessava parlare: un piccolo mondo da raccontare, in cui però potevo dire di cose che non riguardano strettamente il teatro, ma tutti noi, come la necessità delle persone di condividere tutto. La compagnia, dal suo stesso nome, è infatti quello che cercano un po' tutti rifuggendo la solitudine. Io quindi non faccio un discorso sul teatro, ma lo uso per raccontare della vita di chi fa teatro, anche dilettante.

Di chi parla, esattamente, il tuo film?
Il film è la storia di un gruppo di attori non professionisti, anche negati a recitare, che di giorno fanno lavori diversi, ma di sera si ritrovano tutti insieme, senza alcuna differenza, per mettere in scena uno spettacolo. Nel film i ragazzi della compagnia occupano il teatro e devono, per forza, mettere in scena qualcosa altrimenti saranno cacciati. Mettono in scena "Cavalleria Rusticana" e succede che, tra di loro, c'è realmente una storia di tradimenti perché l'attore che fa Alfio è cornificato dalla moglie; allora succede che, quando lui va in scena, sfoga la sua ira se qualcuno gli grida "cornuto". Loro fanno mestieri normali e il film parla proprio dei loro, comuni, avvenimenti. La cosa che piaceva molto a me, delle compagnie amatoriali, era questo incontro tra persone di età e mestieri differenti. Non c'era motivo per cui io, a vent'anni, la sera mi sarei dovuto incontrare con un signore di ottanta o un avvocato, un netturbino. Questa è un po' la magia di una compagnia teatrale: si mescolano età, differenti estrazioni sociali; ciò accade per la passione che si ha in comune.

Un giudizio sul tuo film?
È un film ironico. Il film si intitola così, ma è appunto un titolo ironico perché, in realtà, qualche speranza la offre. Qualcuno sostiene che "è un film che ti riconcilia con la vita". Le persone semplici, non gli "addetti ai lavori", mi hanno detto che, dopo averlo visto, sei di buon umore per una settimana; anche se pensi che non ci sia più niente da fare, una possibilità, invece, la trovi sempre. Un film garbato, delicato, - incalza Fabrizio Brandi (anch'egli attore teatrale nella compagnia Teatro Ferramenta di Bologna) -, che nel film interpreta il ruolo di un falegname-artigiano, promesso scenografo dello spettacolo, con il piglio del guappo, spaccone, livornese.

Questo era il messaggio vero che volevi dare con il tuo film?
Si, si, sicuramente. Desideravo raccontare di quei sentimenti che mi portavo dietro da adolescente, o nell'infanzia. Volevo, quindi, trasmetterli. Sono i sentimenti di quando speri che il mondo sia bello, che ti aspettano cose stupende o che la vita sarà meravigliosa. La canzone di Bobby Solo dice si che non c'è più niente da fare, ma anche: "...è stato bello sognare...e domani forse troverai quello che vuoi". A me non interessa, come qualcuno ha detto, che se i film prendono il titolo dalle canzoni hanno successo (e ultimamente ne escono molti). Io avevo pensato a questa canzone, immaginando che non se la ricordasse nessuno, quindi non credevo affatto di sfruttare il successo di una canzone, ma l'ho scelta perché ha un testo semplice che contiene una grande verità. Quello che io volevo dire, con il film, l'ho ritrovato in questa canzone. E io, in un film, vorrei dire sempre quelle due o tre cose lì e cioè che nella vita l'importante è stare insieme, avere una passione in comune e che, se anche le strade di due persone si dividono, quello che c'è stato di bello non passerà mai. La canzone, il film dicono questo. E, in generale, mi piace dare una speranza; pensa, mi chiamano il Frank Capra di Livorno proprio per questo!

Quali sono i film che piacciono a te?
Mi piacciono le commedie eleganti, i film francesi soprattutto, come Il gusto degli altri. I francesi hanno un gusto particolare, sono un pochino più "eleganti" appunto. A me piace che in un film ci sia stile, ho infatti chiesto, durante le riprese, che nessuno dicesse parolacce. Per quanto il tono sia realistico, se ci fai caso, nel film non ci sono parolacce. Perché sono una "scorciatoia", se le uso non faccio un grande sforzo a far ridere la gente: se evito la prima cosa che mi viene in mente, ne devo inventare una migliore per far ridere di più. Mi piacciono anche le commedie semplici, come Svegliati Ned.

Chi è il tuo regista preferito?
Di tutti i tempi è Ernst Lubitsch. (Risponde senza esitazioni!)

Progetti per il futuro?
Sto pensando, e basta, a una storia di truffatori, che però fanno teatro. Mi piacerebbe, anzi, fare una trilogia sul teatro, sulle persone che fanno teatro, che sono, sia attori, ma anche esseri umani, con tutte le loro storie e con quella "confusione" che, dopo tanti anni, li può assalire ovvero non sapere dove finisce il personaggio e inizia la loro vera vita privata e viceversa. Mi piacciono, comunque, i film che parlano di teatro e ne cito uno su tutti ovvero Essere o non essere di Alan Johnson, che per me rappresenta la vera commistione tra "finzione" e realtà. Mi piace ricordare anche Nel bel mezzo di un gelido inverno o anche Les enfants du paradis (conosciuto come Amanti perduti di Marcel Carné).

Fare cinema, parlando di teatro, chissà che questo regista livornese non abbia trovato il modo di farci riscoprire un ambito un po' trascurato. Ma la cosa più importante la ritroviamo in quello che lui ci ha detto: mantenere vivi i desideri dell'adolescente. Lo fa una compagnia di attori dilettanti, lo fa lui che a cinquant'anni si cimenta in un mestiere bellissimo, lo può fare ognuno di noi, nella vita di tutti i giorni, coltivando una passione o un desiderio. Allora, andiamo a vedere questo film!

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