Dolor y Gloria

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I fantasmi colorati di Almodóvar

di Fabio Ferzetti L'Espresso

Salvador Mallo ha il volto di Antonio Banderas ma per il resto è 100% Almodóvar. Sono di Almodóvar la malinconia e i capelli dritti in testa, sua la casa in cui vive, che riproduce la vera casa del regista, suoi i mille dolori fisici e mentali acuiti dall'età. Salvador Mallo, protagonista quietamente alla deriva di "Dolor y Gloria", è insomma un perfetto alter ego di Almodóvar, e come tutti gli alter ego è anche un luogo di reinvenzione e fantasia. L'ideale per un film che è una galleria di fantasmi a cavallo tra presente e passato, immaginazione e memoria, intimità segreta e immagine pubblica, con il fatale impasto di verità e menzogna su cui ogni immagine pubblica si fonda. Ecco dunque riaffacciarsi il protagonista di un successo di trent'anni prima con cui aveva litigato a morte (Asier Etxeandia), ecco le luci e i colori accesi di un'infanzia povera solo materialmente, ecco l'immagine di sua madre (che prima è Penelope Cruz poi l'indimenticabile Julieta Serrano) e quella del suo primissimo, inconsapevole amore, in cui già desiderio e capacità di creare immagini si mescolano, si alimentano, si confondono. Mentre nel suo opaco presente Mallo si lascia andare, aggiunge ai tanti farmaci l'eroina, accetta a malincuore l'invito della Cineteca per la presentazione di un suo film pensando di andarci con l'attore ritrovato, anche se poi tutto si svolgerà al telefono in uno dei non pochi momenti memorabili di un film che ha la cadenza ondivaga del "trip" e gli improvvisi affondi emotivi cui ci ha abituato il regista di "Parla con lei". Uno dei suoi tanti film convocati, più che citati, per l'occasione (quello spettatore che piange in platea...), in un continuo processo di rielaborazione e trasformazione del passato, anche cinematografico, che è forse il vero soggetto dello smaltato, visivamente magnifico "Dolor y Gloria". Non tutto magari raggiunge la stessa temperatura. Non sempre il "tempo ritrovato" di Mallo/Almodóvar, con tutti gli amori e gli errori che riaffiorano dal passato, diventa anche il nostro. Ma il colloquio con la madre anziana, in sottofinale, lo scarto che improvvisamente porta il film in una zona ancora inesplorata, il cocktail acrobatico di pathos e umorismo con cui evoca e insieme tiene a bada il dolore più acuto («Non fare quella faccia da narratore!»), sono la firma di un regista tornato grandissimo dopo lo sfocato "Julieta".
Da L'Espresso, 19 maggio 2019


di Fabio Ferzetti, 19 maggio 2019

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