Titolo originale | Venus |
Anno | 2017 |
Genere | Documentario |
Produzione | Danimarca |
Durata | 80 minuti |
Regia di | Lea Glob, Mette Carla Albrechtsen |
Tag | Da vedere 2017 |
MYmonetro | 3,56 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento domenica 18 giugno 2017
Un raro sguardo al linguaggio segreto della sessualità delle donne, tra passione e vergogna, pudore e piacere.
CONSIGLIATO SÌ
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Lea Glob - regista insieme a Petra Costa di Olmo e il gabbiano (2014) presentato al Biografilm Festival 2016 - e Mette Carla Albrechtsen, entrambe registe danesi, organizzano un casting a Copenhagen nel 2015, in cui intervistano centinaia di ragazze sul tema della sessualità. L'intento è di realizzarne un film, ma ben presto si rendono conto che esso è già iniziato sotto i loro occhi, un film dove il femminile e il suo rapporto col sesso fanno da padroni. Si tratta di una selezione di circa una ventina delle tante interviste raccolte, in cui le ragazze interpellate si aprono raccontando le loro esperienze intime, il loro rapporto col sesso, le loro fantasie, restituendo una loro idea di cosa sia la sessualità.
Messe davanti a una telecamera queste ragazze, preventivamente preparate a dover rispondere a domande personali, parlano liberamente di sesso, amore, desideri, emancipazione, masturbazione, fantasie recondite, feticismo, sensualità, sottomissione, consuetudini, ruoli.
Il teatro di questa indagine è un fondale bianco, in cui non risalta nessun colore. L'attenzione è focalizzata solo sulle giovani donne sedute su una sedia al centro di una stanza, che non è connotata (a ben pensarci, il film non sarebbe stato lo stesso se quella stanza fosse stata rossa o rosa). Sono i corpi e i loro racconti nella lente di ingrandimento, e che emergono dallo sfondo. I dettagli corporei diventano l'emblema del superamento dell'apparenza. Non è un caso che mentre ascoltiamo i racconti delle donne l'attenzione sia sempre focalizzata sugli occhi e sui volti. Lo spettatore viene interpellato proprio attraverso gli occhi delle ragazze, esaltati dai primi piani e dalle inquadrature a mezzo busto e sempre frontali.
Le registe ci mostrano sempre, con un'inquadratura fissa e prima di ogni intervista, il momento in cui le ragazze entrano nella stanza e si accomodano: ognuno di questi esordi delle giovani donne porta già con sé un carico di espressività: la prossemica (il modo in cui il loro corpo occupa lo spazio), come si siedono, dove rivolgono le spalle o il proprio sguardo; tutto di questi corpi e dei loro movimenti ci dice qualcosa prima ancora di sentirle parlare. Ogni ragazza ha un suo modo di entrare in scena, di porsi in favore dell'inquadratura o di ritrarsi da essa, di sorridere, di mostrare la propria nudità, con fierezza, con imbarazzo o ostentando sicurezza.
Anche le parole, nella loro arbitrarietà e nella scelta che se ne fa, ci dicono qualcosa di chi le pronuncia: le due registe sottopongono sapientemente alle intervistate una domanda a proposito del nome che danno ai loro genitali. Le risposte e le motivazioni che queste adducono sono molto significative perché restituiscono un spaccato sull'utilizzo delle parole e sul senso che le persone gli attribuiscono, in base ai propri valori, a quelli condivisi, e a costumi sessuali di un determinato paese in una determinata epoca.
Le parole non bastano di per sè a restituire una dimensione intima, hanno bisogno del corpo. Così come il corpo ha bisogno delle parole. C'è una continua dialettica tra corpo e parola: sul piano dell'espressione si completano; come sguardo che cerca un senso (e una verità) si autoannullano, collidono, stridono, perché si contraddicono a vicenda.
Non è un corpo della mercificazione, della sottomissione; bensì è un corpo messo a nudo, mostrato nella sua crudezza e nella sua vulnerabilità, nella sua bellezza e nella sua naturalezza.