gavoz
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sabato 3 settembre 2011
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la ruggine più intensa
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Gaglianone ci sorprende con un film davvero bellissimo, uno dei migliori film italiani degli ultimi anni; chissà, forse il migliore.
Una fotografia da favola moderna, profonda, bellissima; dei bambini fantastici, attori in stato di grazia.
Filippo Timi indimenticabile in questo ruolo da orco cattivo, folle ma agghiacciante: interpretazione magistrale; ha decisamente trovato il suo ruolo.
Bravissimi e intensi Mastrandrea e la Solarino, meno Accorsi, ma si può assolutamente perdonare: appare poco, ma il suo ruolo è molto meno facile di quanto sembra.
Il regista mantiene la mano morbida ma ferma, e non lascia via d'uscita allo spettatore, lasciato lì seduto, solo, sempre pronto al peggio, avvolto da una storia forte e decisamente difficile, perso nei continui e repentini cambi di fuoco che alienano la prospettiva e lo lasciano assorbire, riflettere, respirare per qualche interminabile secondo.
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Gaglianone ci sorprende con un film davvero bellissimo, uno dei migliori film italiani degli ultimi anni; chissà, forse il migliore.
Una fotografia da favola moderna, profonda, bellissima; dei bambini fantastici, attori in stato di grazia.
Filippo Timi indimenticabile in questo ruolo da orco cattivo, folle ma agghiacciante: interpretazione magistrale; ha decisamente trovato il suo ruolo.
Bravissimi e intensi Mastrandrea e la Solarino, meno Accorsi, ma si può assolutamente perdonare: appare poco, ma il suo ruolo è molto meno facile di quanto sembra.
Il regista mantiene la mano morbida ma ferma, e non lascia via d'uscita allo spettatore, lasciato lì seduto, solo, sempre pronto al peggio, avvolto da una storia forte e decisamente difficile, perso nei continui e repentini cambi di fuoco che alienano la prospettiva e lo lasciano assorbire, riflettere, respirare per qualche interminabile secondo.
Una delicatezza stilistica e di immagine "infame", perchè figlia della tensione che rimane silenziosa in sottofondo, sempre pronta ad esplodere. Ed esplode; lentamente e inesorabilmente.
Questo è il Cinema italiano che deve essere valorizzato, seguito ed acclamato; entertainment sì, ma con una profondissima consapevolezza dei propri mezzi e dei metodi per metterli in scena senza lasciare lo spettatore inebetito, distratto, o peggio, indifferente.
Un film che non si dimentica, che mi fa sentir fiero di essere anch'io un regista italiano.
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(di killtheboredom)
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paolo assandri
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lunedì 5 settembre 2011
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traumi e rinascite: ruggine e rinascita.
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Non è un film sulla pedofilia. Questo potrebbe essere il paradosso da cui partire per mettere a fuoco l'ultimo film di Daniele Gaglianone.
La periferia industriale e fatiscente di una grande città del Nord Italia fa da sfondo ad una vicenda d'un gruppo di bambini "terroni" (Carmine, Sandro e Cinzia, i tre protagonisti)e delle loro famiglie di padri lavoratori e di madri "che fanno figli e passata di pomodoro".
Questo purgatorio popolato da angeli è lastricato di ferro arrugginito, il ferro del "Castello", (costruzione abbandonata che i bambini hanno trasformato in "base" per i loro giochi) spesso ripreso in piano ravvicinato e costantemente evocato dalla colonna sonora e dai colori della fotografia.
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Non è un film sulla pedofilia. Questo potrebbe essere il paradosso da cui partire per mettere a fuoco l'ultimo film di Daniele Gaglianone.
La periferia industriale e fatiscente di una grande città del Nord Italia fa da sfondo ad una vicenda d'un gruppo di bambini "terroni" (Carmine, Sandro e Cinzia, i tre protagonisti)e delle loro famiglie di padri lavoratori e di madri "che fanno figli e passata di pomodoro".
Questo purgatorio popolato da angeli è lastricato di ferro arrugginito, il ferro del "Castello", (costruzione abbandonata che i bambini hanno trasformato in "base" per i loro giochi) spesso ripreso in piano ravvicinato e costantemente evocato dalla colonna sonora e dai colori della fotografia.
Un giorno l’apparente calma della periferia è violata dall'unico uomo colto che la frequenta, il medico di zona, Filippo Timi, che ucciderà due bambine spargendo il seme del terrore tra gli abitanti del quartiere. Gli unici membri della comunità che sembrano conoscere la colpevolezza del medico (e la sua incredibile stranezza) sono i bambini, che nella scena madre del film si troveranno costretti a salvare la piccola e indifesa Rosalia (sorella di Carmine) senza l’aiuto di nessuno. Sarà il piccolo Carmine a uccidere il mostro, con una serie di bastonate apparentemente liberatorie, dalle quali invece non si libererà più.
Ed è proprio su questa tagliente, dolorosa interazione tra il tempo passato e il tempo presente (più che sulla pedofilia come crimine in sé) che sembra ruotare tutto il film. Lo testimoniano la scelta narrativa di accostare l'infanzia e la maturità dei protagonisti tramite montaggio alternato e le specifiche tecniche di quest'ultimo (sovrapposizioni sonore lunghe e ripetute, messa a fuoco lenta,faticosa, volti di bambini che diventano volti d’adulti e viceversa).
Il filo conduttore, chiaramente, è la sofferenza. Il trauma per aver visto quell’orrore con occhi ancora innocenti e la conseguente impossibilità di cancellarlo accomuna tutti i protagonisti. Cinzia, diventuta insegnante, non sembra in grado di lavorare con lucidità, Sandro non si stacca dal figlio nemmeno in metropolitana, senza accorgersi che un rapporto così simbiotico è deleterio per il bambino, Carmine conduce una vita disagiata che ha senza dubbio le proprie radici nella difficile infanzia al "Castello". E anche Rosalia, nelle ultime battute del film, si scopre essere ancora fortemente legata a quel periodo buio, per mezzo di una vicinanza e di una gratitudine ossessiva (che infatti si manifesta con favori "economici") nei confronti del fratello-salvatore.
È un passato che non abbandona mai, quello di Gaglianone, che si attacca ai gesti, alle nevrosi, al quotidiano, con cattiveria subdola e senza apparente tregua.
Solo la colonna sonora, nella sequenza finale del film, riesce a donare qualche flebile speranza. Il brano "Un campo lungo cinematografico" de "Le luci della centrale elettrica", infatti, sembra illuminare con una luce nuova i protagonisti, alleggerendoli fino a farli simbolicamente rinascere.
Timi si conferma superlativo nei ruoli in cui la ragione lascia il posto alla follia (viene alla mente l’imitazione del Duce di Benito Albino, in clinica, nel finale di Vincere di Bellocchio).
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stolencar
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venerdì 23 settembre 2011
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da un ottimo soggetto un film incompiuto
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Due stelline risicate per un film che davvero poteva dare di più con un soggetto decisamente valido e una discreta sceneggiatura. Pollice verso per il montaggio con dissolvenze a gò-gò. Non ci siamo con il suono in presa diretta e con l'audio in generale, in molti casi quasi incomprensibile.
Dubbi anche sulla regia, a tratti dilettantesca per un film di spessore come avrebbe voluto essere. Bravi i bambini e gli attori meno noti. Non essenziale e ridondante il personaggio interpretato da Accorsi. La Solarino fa la sua parte ma compare per non pià di 3-5 minuti sul grande schermo. Non è da escludere che i nomi noti siano funzionali al richiamo per critica e pubblico.
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Due stelline risicate per un film che davvero poteva dare di più con un soggetto decisamente valido e una discreta sceneggiatura. Pollice verso per il montaggio con dissolvenze a gò-gò. Non ci siamo con il suono in presa diretta e con l'audio in generale, in molti casi quasi incomprensibile.
Dubbi anche sulla regia, a tratti dilettantesca per un film di spessore come avrebbe voluto essere. Bravi i bambini e gli attori meno noti. Non essenziale e ridondante il personaggio interpretato da Accorsi. La Solarino fa la sua parte ma compare per non pià di 3-5 minuti sul grande schermo. Non è da escludere che i nomi noti siano funzionali al richiamo per critica e pubblico. Sempre bravo Mastandrea e Timi, ma non basta per un film mancato, dove peraltro riconosco due trovate notevoli del regista che valgono tutto il film e forse una maggiore benevolenza e speranza per opere future nei confronti di Gaglianone.
Il viso del dottor Boldrini-Timi trafigurato e orrorifico nell'autolavaggio, quale trasformazione schizofrenica degna di un nuovo dr Jeckyll; e il finale fatto di sguardi in metropolitana con un'azzecata canzone delle Luci della Centrale Elettrica.
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osteriacinematografo
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venerdì 10 febbraio 2012
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la ruggine come memoria
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Nella prima scena di “Ruggine” il pulviscolo illuminato a giorno penetra e dilata uno spazio buio e angusto, volteggiando candidamente attorno a due bambini che tentano un ingenuo, reciproco approccio. Il campo visivo si allarga e ci trasporta negli anni 70 della periferia torinese.
Un gruppo di ragazzini passa le giornate nei dintorni dei palazzoni in cui vivono. E’ un’infanzia selvaggia ma felice, perché i piccoli hanno grande libertà e la forza di una società in miniatura.
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Nella prima scena di “Ruggine” il pulviscolo illuminato a giorno penetra e dilata uno spazio buio e angusto, volteggiando candidamente attorno a due bambini che tentano un ingenuo, reciproco approccio. Il campo visivo si allarga e ci trasporta negli anni 70 della periferia torinese.
Un gruppo di ragazzini passa le giornate nei dintorni dei palazzoni in cui vivono. E’ un’infanzia selvaggia ma felice, perché i piccoli hanno grande libertà e la forza di una società in miniatura. Le loro giornate e le riprese si alternano fra i campi sconfinati e un ammasso di lamiere che costituisce la loro base segreta. Il loro mondo, soprattutto qui, si sviluppa autonomamente da quello degli adulti, e i ragazzini, capitanati da Carmine, sviluppano le loro dinamiche, i modi di stare insieme e difendere la roccaforte, quel tipo di luogo in cui ogni bambino nasconde una parte di sé, in modo sacro, ritualizzato. E’ un luogo simbolico e affascinante, e una fotografia in chiaro scuro ci mostra un vero e proprio castello, un piccolo regno abbarbicato su se stesso, un luogo dove gli adulti non entrano mai, o quasi.
Questo idillio viene guastato dalla comparsa del nuovo medico condotto, il Dr. Boldrini (un ottimo Filippo Timi), un professionista che si rivela in breve il lupo cattivo, il mostro, il maniaco che prima seduce e poi uccide due bimbe innocenti. Il gruppo di bambini, in forza di una sensibilità pura e incontaminata, capta le reali sembianze del dottore, ma la scoperta rimane all’interno della banda in miniatura, per via di un certo tipo di comunicazione infantile che fatica ad emergere e teme di trasferirsi nella dimensione adulta,tanto incredula e distante da apparire irraggiungibile.
Gaglianone propone un’altalena fra passato e presente, per quanto poi quel passato è così pregnante ed insito nel presente da smarrire la propria connotazione temporale originaria. Gli avvenimenti di ieri e di oggi si mescolano nelle vicende di Sandro, Carmine e Cinzia, tre di quei bambini –ormai quarantenni- che affrontano con fatica e dolore la vita nel ricordo amaro e pulsante di un passato che non se ne va, perché ha reciso alla radice l’innocenza dei di allora, immacolati nell’isola che non c’è dell’età infantile.
La ruggine del metallo di due vecchi silos funge da nido e riparo per i ragazzini, la stessa ruggine che si rivelerà fonte d’insidie e paura nella scena madre del film, e che poi si depositerà in forma maligna nei ricordi e nelle coscienze di adulti spezzati.
Il film di Gaglianone è ben strutturato: l'ambientazione e la contrapposizione fra il mondo adulto e quello infantile ricordano in parte le atmosfere di "Io non ho paura" di Salvatores; la narrazione è cupa e oscillante, l’attenzione per le manie e i particolari del mostro minuziosa, e la frammentazione con cui il regista sviluppa il passato, i blackout che frappone alle immagini rendono appieno l’idea dei ricordi d’infanzia, che spesso si riducono a flashback nitidi ma estemporanei, e non posseggono mai linearità e compiutezza; forse si eccede nella caratterizzazione del personaggio del Lupo Cattivo, che a tratti perde un pizzico di credibilità, ma senza intaccare la grande prova di Timi e la qualità dell’opera.
“La porta è stata spalancata, e non c’è più modo di richiuderla” – scrive Stefano Massaron nel libro omonimo da cui è tratto il film.
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mydavies
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giovedì 8 settembre 2011
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c'era una volta un uomo nero
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Nella periferia milanese degli anni Settanta una banda di ragazzini gioca fra le lamiere arrugginite di fabbriche abbandonate. Un ricco ed educato dottore fa il suo ingresso in questo scenario brullo e assolato. La comparsa di un mostro sconvolge un terreno inviolabile, e un gruppo di piccoli eroi dovrà trovare il coraggio di affrontarlo.
“Ruggine” è un film che intreccia abilmente diverse tematiche: è un racconto sull'amicizia, una rappresentazione emblematica dell'inevitabile riemergere del passato nel presente, una riflessione sul potere e le sue dinamiche subdole e distorte, nonché un'intensa e coinvolgente “fiaba nera”.
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Nella periferia milanese degli anni Settanta una banda di ragazzini gioca fra le lamiere arrugginite di fabbriche abbandonate. Un ricco ed educato dottore fa il suo ingresso in questo scenario brullo e assolato. La comparsa di un mostro sconvolge un terreno inviolabile, e un gruppo di piccoli eroi dovrà trovare il coraggio di affrontarlo.
“Ruggine” è un film che intreccia abilmente diverse tematiche: è un racconto sull'amicizia, una rappresentazione emblematica dell'inevitabile riemergere del passato nel presente, una riflessione sul potere e le sue dinamiche subdole e distorte, nonché un'intensa e coinvolgente “fiaba nera”.
I toni fiabeschi si avvertono già dall'incipit, in cui due dei giovani protagonisti, Sandro (Giuseppe Furlò) e Cinzia (Giulia Coccellato), si scambiano delle parole timide e qualche tenera carezza sotto una scia danzante di polvere, resa dorata da un fascio di luce che filtra da una fessura sul soffitto del “castello”, un traballante assembramento di rottami rugginosi elevati dai bambini a dimora di giochi e avventure. La loro infanzia scivola sotto il sole cocente dell'estate, fra corse in mezzo a distese di sterpaglie bruciacchiate e rischiose imprese guerresche guidate da Carmine (Giampaolo Stella), l'autoritario capobanda.
Come in ogni fiaba, c'è un orco. Un uomo nero dalla voce cavernosa interpretato dall'ottimo Filippo Timi, in grado tanto di librare il personaggio verso slanci di grottesca follia (come nella scena in cui, con i capelli spettinati e lo sguardo esaltato, intona un'aria lirica, prima restando in primo piano e poi allontanandosi attraverso i campi con le spalle alla camera, mentre la sua figura sfocata si assottiglia in modo sempre più inquietante) quanto di contenerlo in un'immobilità capace, già di per sé, di far paura.
Alla prima torinese del film, a cui ha fatto seguito un dibattito col pubblico, il regista ha fatto accenno all'impegno profuso insieme all'attore perugino per la costruzione di un personaggio complesso come quello del dottor Boldrini; le atmosfere di riferimento sono state quelle del cinema espressionista tedesco del primo Novecento, ha dichiarato. Non a caso le ombre e i cigolii fischiettanti (una parte consistente del valore dell'opera va riconosciuta allo splendido lavoro sui suoni e le musiche) che accompagnano le apparizioni del colto pediatra rievocano esplicitamente “M - Il mostro di Düsseldorf”. In effetti “Ruggine” è, ad un primo livello, la storia di un maniaco, un medico apparentemente rispettabile, in realtà disturbato e devoto a ideali neo-nazisti, che gode, in virtù del proprio status sociale, più elevato rispetto a quello degli immigrati insediati nel fatiscente quartiere in cui è stato costretto a trasferirsi, della loro indiscussa ammirazione. La sua vera natura, dopo il consumarsi dei primi, orrendi, omicidi, comincia a divenire chiara ed evidente agli occhi dei bambini, che notano in lui dei comportamenti strani. Eppure non osano rivelare le loro esatte percezioni agli adulti, perché sanno bene che i grandi non li avrebbero ascoltati. In questo momento emerge in modo piuttosto evidente il discorso sul potere. Il fatto che il gruppo, dopo aver malmenato un barbone per averlo inizialmente creduto responsabile degli efferati delitti, prenda coscienza della colpevolezza dell'individuo più stimato della comunità e non diffonda la scoperta nel “mondo adulto”, rappresenta da un lato la cesura irrecuperabile fra la maturità e l'infanzia, una zona incorrotta in cui lo sguardo puro e diretto sulla realtà non è ancora stato inquinato dai compromessi e le ipocrisie che rendono possibile la vita all'interno della società, dall'altro la presa di coscienza disarmante (ma solo per il pubblico: i ragazzini della storia lo comprendono in modo molto più naturale) che il Male, se per un verso proviene da recessi oscuri e insondabili, per l'altro risiede nella forzata tranquillità, condivisa dai più, del quotidiano, è visibile alla luce del sole sulla superficie di una presunta normalità che assume se stessa acriticamente, rinunciando a uno sguardo sullo e dall'esterno, per ritrovarsi, in definitiva, a galleggiare in un'illusoria totalità indifferenziata. In questo senso, il consorzio umano è immune alla Verità del male presente al proprio interno; essa potrebbe costituire un efficace vaccino se non fosse rifiutata a priori.
Senza svelare il finale, si può dire che la vicenda seguirà uno sviluppo fedele al canone fiabesco. All'interno del piano narrativo focalizzato sul passato dei ragazzi, però, si incastrano vari episodi sul futuro dei tre protagonisti: quello di Sandro (Stefano Accorsi), traduttore impegnato a tenere a bada il vivace figlioletto in un monolocale ingombro di libri; quello di Cinzia (Valeria Solarino), maestra di arte in una scuola media, prima spettatrice incredula poi infervorata parte attiva di un assurdo consiglio di classe che mette a nudo le contraddizioni, e le bassezze, di uno svogliato corpo docenti incapace, col suo magmatico maschilismo e il suo simpatico menefreghismo, di considerare la propria “materia di lavoro” per quella che veramente è, ovvero un insieme di individui in fase di crescita con alle spalle una serie di storie personali più o meno serene, e di affrontare il sorgere di eventuali problemi con cognizione di causa, o perlomeno con il dovuto tatto; infine, quello di Carmine (Valerio Mastandrea), che, rinchiuso nella penombra di un anonimo bar a fumare e bere birra, ci fa assistere alla transazione dall'originaria spavalderia e sicurezza di sé al manifestarsi di una fondamentale vigliaccheria e incapacità di controllare le circostanze, mentre l'irrompere di pressioni presenti contribuisce al conflittuale riaprirsi di cicatrici passate.
Ci vengono così presentati così tre adulti alle prese col fantasma di un episodio ormai trascorso che, sfuggendo alla contingenza del suo accadere particolare, si trasforma in un tema di portata necessariamente più ampia, fino a diventare il simbolo del rimosso storico che grava sull'oggi. Se è vero che, nel corso del suo inevitabile ripresentarsi, esso ha anche, almeno per i personaggi, una portata emancipatoria, perché libera chi conserva il ricordo dal peso della custodia, non si può dire che il film intenda offrire al pubblico alcuna scappatoia, volgendosi in conclusione verso prospettive ottimistiche. Soprattutto per via della naturale tendenza a dimenticarci delle condizioni socio-politiche che hanno preceduto il nostro tempo e a interpretare le brutture e gli orrori che ci circondano come frutto del caso. Spesso abbiamo voglia di sbarazzarci troppo facilmente delle scosse subite, questo il regista di “Nemmeno il destino” non cessa mai di ricordarlo. E fa riflettere come, attualmente, gli unici in grado di elaborare e diffondere (quando ci riescono) idee sull'attualità dalle valenze fortemente politiche siano gli artisti. Dopo la proiezione al cinema Massimo, Gaglianone ha raccontato di una domanda postagli a Venezia da una giornalista della RAI: “Ma perché fai sempre film così duri?”; “Forse – questa la risposta – ci vuole qualcuno che dia qualche schiaffone. Sono trent’anni che ci raccontiamo barzellette, e adesso siamo nella merda”. Più chiaro di così non si può.
Splendida l'ultimissima scena, inserita dopo i primi titoli di coda: un rimbalzo di sguardi fra i tre protagonisti adulti in metropolitana, sulla scia di “Un campo lungo cinematografico”, brano composto da Vasco Brondi appositamente per il film. L'atmosfera sospesa nell'azzurrino del vagone, l'incontro mancato, forse avvenuto davvero, forse no, l'accordo fluttuante fra immagini e musica, coronano alla perfezione un'opera scaturita dalla miscela esplosiva fra fiaba e crudo realismo. Mescolanza che trova la sua più compiuta espressione nell'episodio in cui Stefano Accorsi, giocando con il figlio, si finge un drago. Mentre il bambino lo cerca, lui salta fuori dall'armadio, per fargli uno scherzo. Ma, in quel momento, agli occhi del piccolo, il padre si trasforma nell'uomo nero che l'adulto ha conosciuto durante l'infanzia. Il ragazzino si spaventa a morte, e non dice più una parola fino alla fine della scena, nonostante le scuse e l'abbraccio del genitore. Metaforicamente, il ricordo del mostruoso dottore si è materializzato nella tranquillità dell'appartamento, e il Male che rappresenta è stato talmente sconvolgente da ridurre al silenzio un nuovo bambino, fino ad allora ignaro della sua esistenza.
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amici del cinema (a milano)
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giovedì 8 settembre 2011
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una ruggine che non andrà piu' via
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Nel cinema a volte la troppa passione va a detrimento della godibilità di un film.
E' il caso sicuramente di "Ruggine", un'opera che regala dei momenti molto intensi, forti e disturbanti, ma al quale avrebbe fatto bene una cura "dimagrante", una sottrazione di scene e toni.
Soprattutto nella fase iniziale la sceneggiatura indulge troppo in salti temporali, nei paralleli tra i bambini del passato e il destino degli stessi, ormai adulti, nel presente.
Il regista marchigiano ci mette del suo volendo spiegare troppe volte quello che magari con un taglio di sequenza qui' e una elisione visiva la' avrebbe acquistato maggiore forza (avrei preferito anche qualche dissolvenza in meno).
Premesso questo il giudizio sul film e' positivo, le abilità registiche di Gaglianone sono notevoli e anche la sua capacità di delineare personaggi "umani" e' indubbia.
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Nel cinema a volte la troppa passione va a detrimento della godibilità di un film.
E' il caso sicuramente di "Ruggine", un'opera che regala dei momenti molto intensi, forti e disturbanti, ma al quale avrebbe fatto bene una cura "dimagrante", una sottrazione di scene e toni.
Soprattutto nella fase iniziale la sceneggiatura indulge troppo in salti temporali, nei paralleli tra i bambini del passato e il destino degli stessi, ormai adulti, nel presente.
Il regista marchigiano ci mette del suo volendo spiegare troppe volte quello che magari con un taglio di sequenza qui' e una elisione visiva la' avrebbe acquistato maggiore forza (avrei preferito anche qualche dissolvenza in meno).
Premesso questo il giudizio sul film e' positivo, le abilità registiche di Gaglianone sono notevoli e anche la sua capacità di delineare personaggi "umani" e' indubbia.
Il marchio del passato sui protagonisti del film e' indelebile e li ha resi ormai dei disadattati sociali.
Quando hai visto la faccia del Male (quello con la M maiuscola) ogni possibile illusione (o speranza) e' infranta e tutte le ipocrisie della vita quotidiana non sono piu' sopportabili.
Valeria Solarino (per me una bella scoperta) e Filippo Timi sono molto in parte e danno una ottima interpretazione, Valerio Mastandrea conferma la sua continua crescita di attore, mentre Stefano Accorsi purtroppo ha solo un piccolo spazio.
Su ognuno di loro rimarrà una ruggine che non andrà piu' via.
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paolo castellani
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lunedì 12 settembre 2011
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si può morire e far morire d’amor_4
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(...)
E poi, il mostro già nel suo personale crepuscolo, con il castello di ruggine alle spalle, i pantaloni a mezza gamba che sono segno della violenza e dell’ultima barriera abbattuta, senza più difese e senza più perdono, Filippo-dottorboldrini consegna l’ultimo sacrificio umano dell’abiezione a un monologo di onnipotenza, in piedi sopra le rovine. Ma il suo tempo sta per finire.
Il drago ha ucciso ma morirà. L’uomo nero di questa storia, raccontata e vista come una fiaba, ha i caratteri forti, ruvidi, feroci di Filippo Timi quando Filippo vuole essere, ed è, quell’uomo nero. Di qui l’esasperazione della sua prova d’attore, necessaria, connaturata alla rappresentazione di un’ossessione, del male dentro quell’uomo, dentro l’uomo.
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(...)
E poi, il mostro già nel suo personale crepuscolo, con il castello di ruggine alle spalle, i pantaloni a mezza gamba che sono segno della violenza e dell’ultima barriera abbattuta, senza più difese e senza più perdono, Filippo-dottorboldrini consegna l’ultimo sacrificio umano dell’abiezione a un monologo di onnipotenza, in piedi sopra le rovine. Ma il suo tempo sta per finire.
Il drago ha ucciso ma morirà. L’uomo nero di questa storia, raccontata e vista come una fiaba, ha i caratteri forti, ruvidi, feroci di Filippo Timi quando Filippo vuole essere, ed è, quell’uomo nero. Di qui l’esasperazione della sua prova d’attore, necessaria, connaturata alla rappresentazione di un’ossessione, del male dentro quell’uomo, dentro l’uomo. E nessuno come lui avrebbe potuto rappresentarla esattamente così. La scelta di Gaglianone è andata nella direzione, giusta, dell’attore che “vive” dentro quel corpo e quell’anima che pensa e genera il male; che è cosa opposta alla rassicurante recita di un interprete dai mezzi toni, che forse sarebbe piaciuta più ai critici.
Suggestioni, atmosfera, tracce, ferite. Ruggine. Il film di Gaglianone va oltre il testo, si serve della ruggine per portare la fiaba nera al di là, nella storia, nella vita dei protagonisti diventati adulti. I bambini che avevano condiviso “quel” mondo ora non si incontrano più, come invece accadeva ai personaggi del libro (Sandro e Cinzia), che si ritrovavano, un po’ semplicisticamente forse, tramite un contatto-mail. No, restano distanti, divisi per sempre. E quel vagone della metropolitana che ne unisce per qualche minuto i destini ci sussurra che percorreranno la stessa strada separati, anche se con la stessa ruggine addosso. La ruggine è quel mostro, che in Sandro, rimasto sempre bambino, riaffiora quando meno se lo aspetta, come una voce muta dell’animo, nella lotta simulata, nella caccia al drago con il figlio. In Carmine il drago è l’incapacità di vivere, di strapparsi una volta per tutte da dentro il sangue di quel carnefice (nel film Carmine uccide il dottorboldrini, che invece moriva accidentalmente nel romanzo), di accettare una sorte, di essere libero di scegliere. Per Cinzia il drago sono gli altri, quelli vicini a lei, i suoi colleghi di lavoro, insegnanti che normalizzano e giustificano con bavosa acquiescenza la violenza sessuale subita da una loro allieva in casa. Combattono quel tormento, in forme diverse, tutti e tre. E la ruggine ci resta attaccata addosso. Nei titoli di coda, quando il film lascia spazio ai nostri pensieri, e al male che li colora.
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filippo catani
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domenica 9 ottobre 2011
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innocenza violata per sempre
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Periferia torinese alla fine degli anni '70. Un gruppo di ragazzini passa i propri pomeriggi a giocare con le figurine o in un deposito di auto abbandonato. Dovranno però fare prestop i conti con un insospettabile mostro che porta vestiti eleganti ed è rispettato da tutti. Ad anni di distanza i protagonisti della vicenda portano ancora scolpiti nell'anima i segni di questo trauma.
Un film bello, potente e duro come un pugno nello stomaco. E' davvero dura vedere come l'infanzia che per un bimbo deve essere il periodo della spensieratezza si può trasformare nel più terribile degli incubi. Con una ulteriore aggravante: la paura di raccontare tutto ai "grandi" perchè questi ultimi non crederanno mai ai racconti dei bambini.
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Periferia torinese alla fine degli anni '70. Un gruppo di ragazzini passa i propri pomeriggi a giocare con le figurine o in un deposito di auto abbandonato. Dovranno però fare prestop i conti con un insospettabile mostro che porta vestiti eleganti ed è rispettato da tutti. Ad anni di distanza i protagonisti della vicenda portano ancora scolpiti nell'anima i segni di questo trauma.
Un film bello, potente e duro come un pugno nello stomaco. E' davvero dura vedere come l'infanzia che per un bimbo deve essere il periodo della spensieratezza si può trasformare nel più terribile degli incubi. Con una ulteriore aggravante: la paura di raccontare tutto ai "grandi" perchè questi ultimi non crederanno mai ai racconti dei bambini. E, una volta adulti, tutti portano dei segni e anzi una delle protagoniste si ritroverà a scuola ad affrontare un possibile caso del genere con tutte le difficoltà emotive del caso.
Una menzione particolare allo straordinario Filippo Timi che veste i panni del dottore/pedofilo con grande intensità in un ruolo durissimo e difficilissimo.
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reservoir dogs
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domenica 4 settembre 2011
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un campo lungo cinematografico
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Sotto una luce giallastra (quasi grondante di ruggine) due giovani anime conversano su un polveroso materasso, Cinzia e Sandro e poi Cosimo; bambini che trovano nel "Castello", una accozzaglia di ferracci rugginosi, il loro luogo d'esilio, di divertimento, di "involontaria" crescita.
A distanza di trent'anni la vita di quei bambini in quell'estate è stata segnata da un fatto; l'arrivo dell'Orco, il Dr Boldrini (Timi), borghese dal pensiero neonazi-fascista, pedofilo e assassino.
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Sotto una luce giallastra (quasi grondante di ruggine) due giovani anime conversano su un polveroso materasso, Cinzia e Sandro e poi Cosimo; bambini che trovano nel "Castello", una accozzaglia di ferracci rugginosi, il loro luogo d'esilio, di divertimento, di "involontaria" crescita.
A distanza di trent'anni la vita di quei bambini in quell'estate è stata segnata da un fatto; l'arrivo dell'Orco, il Dr Boldrini (Timi), borghese dal pensiero neonazi-fascista, pedofilo e assassino. La banda degli Alveari sarà costretta ad armarsi per difendersi dal mostro lasciando nella propria anima (collettiva) segni laceranti ed indelebili.
Come definito dallo stesso Gaglianone alla presentazione del film alla 68° Mostra del Cinema di Venezia: "E' una moderna fiaba nera, dove l'Orco tenta di uccidere i bambini"; una moderna fiaba nera le cui tematiche toccano piaghe odierne, piaghe purtroppo ancora tristemente aperte della pedofilia.
Un film sul Potere afferma il regista, un potere decaduto ma ancora persistente, che il dr Boldrini rappresenta ed esercita con le estreme conseguenze.
Tratto dal romanzo omonimo di Stefano Massaron, il quarto lungometraggio di Daniele Gaglianone attinge a piene mani da "M - il mostro di Düsseldorf"; il suo Dr. Boldrini, canticchia una macabra canzone come l'Hans Beckert di Fritz Lang e la stessa ombra incute terrore più del corpo stesso.
Si ritrovano nel regista anconetano elementi stilistici già presenti nel precedente “Pietro”: apertura dell'obbiettivo con conseguente visione sfocata, quasi si avesse la vista “appannata” per il dolore/pianto e bruschi stacchi d'inquadratura, senza dissolvenza, con ritorno alla precendente inquadratura, come se si volesse tentare invano di distogliere lo sguardo dalle atrocità, “Ora ci vedo, ora non ci vedo” dice il Pietro del film omonimo citando “inconsapevolmente” il Michel Strogoff di Jules Verne.
L'igenuità puerile farà ben presto spazio alla necessità di sopravvivenza; se per la banda il dottore risulta divertente, seminudo nel mezzo al prato, per "l'adulto" fruitore il peggio sta per riverificarsi. Si raggiunge dunque la presa di coscienza: “i grandi non ci crederebbero mai” con l'incosapevolezza, dopo il fatto, di essere diventati comunque "Adulti".
Si torna dunque alla "ruggine" che all'inizio cadeva dall'alto, ruggine che si è attaccata al corpo ed è penetrata all'interno "bloccando" le vite del gruppo, un amore mai sbocciato completamente, un amicizia perduta, il tempo passa e i tre si allontanano e "Un campo lungo cinematografico" (canzone delle Luci della centrale elettrica) nella metropolitana dei titoli di coda diventa necessario per un illusorio(?) ritrovo.
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stefano capasso
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martedì 7 aprile 2015
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dal dolore all'attenzione sensibile
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Ruggine è il titolo di questo film di Daniele Gaglianone, titolo che rappresenta simbolicamente la difficolta di muoversi liberamente dei tre protagonisti nelle loro vite. Carmine, Sandro e Cinzia ormai adulti e ognuno con la propria vita, sono rimasti impigliati nel ricordo di una tragedia vissuta insieme da bambini, quando frequentavano lo stesso gruppo di giochi. Erano gli anni ‘70 in una periferia di una cittadina della Sicilia, e il gruppo, che aveva formato una banda sullo stile degli adulti, venne preso mira dal nuovo medico locale, una personalità ambigua attratta dai bambini. L’esperienza traumatica, dalla quale uscirono con le loro forze, continua ad essere presente in ogni momento della loro vita, indirizzandola continuamente.
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Ruggine è il titolo di questo film di Daniele Gaglianone, titolo che rappresenta simbolicamente la difficolta di muoversi liberamente dei tre protagonisti nelle loro vite. Carmine, Sandro e Cinzia ormai adulti e ognuno con la propria vita, sono rimasti impigliati nel ricordo di una tragedia vissuta insieme da bambini, quando frequentavano lo stesso gruppo di giochi. Erano gli anni ‘70 in una periferia di una cittadina della Sicilia, e il gruppo, che aveva formato una banda sullo stile degli adulti, venne preso mira dal nuovo medico locale, una personalità ambigua attratta dai bambini. L’esperienza traumatica, dalla quale uscirono con le loro forze, continua ad essere presente in ogni momento della loro vita, indirizzandola continuamente. Il film si svolge con uno stile visivo denso ed una sceneggiatura disposta su 4 piani diversi; la colonna sonora è presente in quasi tutte le scene e tutto questo fornisce un carattere espressivo molto forte al film. Il tempo narrativo presente, breve, racchiude un lungo tempo di ricordi dolorosi. I tre protagonisti hanno difficolta a relazionarsi serenamente col mondo che li circonda, e allo stesso tempo sono anche in grado di cogliere quelle sfumature, per averle conosciute, che altri non sono in grado di cogliere. Come accade spesso, la sensibilità, l’attenzione specifica si sviluppano intorno ad una ferita lacerante.
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