Ruggine

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C'era una volta un uomo nero Valutazione 4 stelle su cinque

di Mydavies


Feedback: 207 | altri commenti e recensioni di Mydavies
giovedì 8 settembre 2011

Nella periferia milanese degli anni Settanta una banda di ragazzini gioca fra le lamiere arrugginite di fabbriche abbandonate. Un ricco ed educato dottore fa il suo ingresso in questo scenario brullo e assolato. La comparsa di un mostro sconvolge un terreno inviolabile, e un gruppo di piccoli eroi dovrà trovare il coraggio di affrontarlo.

“Ruggine” è un film che intreccia abilmente diverse tematiche: è un racconto sull'amicizia, una rappresentazione emblematica dell'inevitabile riemergere del passato nel presente, una riflessione sul potere e le sue dinamiche subdole e distorte, nonché un'intensa e coinvolgente “fiaba nera”.

I toni fiabeschi si avvertono già dall'incipit, in cui due dei giovani protagonisti, Sandro (Giuseppe Furlò) e Cinzia (Giulia Coccellato), si scambiano delle parole timide e qualche tenera carezza sotto una scia danzante di polvere, resa dorata da un fascio di luce che filtra da una fessura sul soffitto del “castello”, un traballante assembramento di rottami rugginosi elevati dai bambini a dimora di giochi e avventure. La loro infanzia scivola sotto il sole cocente dell'estate, fra corse in mezzo a distese di sterpaglie bruciacchiate e rischiose imprese guerresche guidate da Carmine (Giampaolo Stella), l'autoritario capobanda.
Come in ogni fiaba, c'è un orco. Un uomo nero dalla voce cavernosa interpretato dall'ottimo Filippo Timi, in grado tanto di librare il personaggio verso slanci di grottesca follia (come nella scena in cui, con i capelli spettinati e lo sguardo esaltato, intona un'aria lirica, prima restando in primo piano e poi allontanandosi attraverso i campi con le spalle alla camera, mentre la sua figura sfocata si assottiglia in modo sempre più inquietante) quanto di contenerlo in un'immobilità capace, già di per sé, di far paura.

Alla prima torinese del film, a cui ha fatto seguito un dibattito col pubblico, il regista ha fatto accenno all'impegno profuso insieme all'attore perugino per la costruzione di un personaggio complesso come quello del dottor Boldrini; le atmosfere di riferimento sono state quelle del cinema espressionista tedesco del primo Novecento, ha dichiarato. Non a caso le ombre e i cigolii fischiettanti (una parte consistente del valore dell'opera va riconosciuta allo splendido lavoro sui suoni e le musiche) che accompagnano le apparizioni del colto pediatra rievocano esplicitamente “M - Il mostro di Düsseldorf”. In effetti “Ruggine” è, ad un primo livello, la storia di un maniaco, un medico apparentemente rispettabile, in realtà disturbato e devoto a ideali neo-nazisti, che gode, in virtù del proprio status sociale, più elevato rispetto a quello degli immigrati insediati nel fatiscente quartiere in cui è stato costretto a trasferirsi, della loro indiscussa ammirazione. La sua vera natura, dopo il consumarsi dei primi, orrendi, omicidi, comincia a divenire chiara ed evidente agli occhi dei bambini, che notano in lui dei comportamenti strani. Eppure non osano rivelare le loro esatte percezioni agli adulti, perché sanno bene che i grandi non li avrebbero ascoltati. In questo momento emerge in modo piuttosto evidente il discorso sul potere. Il fatto che il gruppo, dopo aver malmenato un barbone per averlo inizialmente creduto responsabile degli efferati delitti, prenda coscienza della colpevolezza dell'individuo più stimato della comunità e non diffonda la scoperta nel “mondo adulto”, rappresenta da un lato la cesura irrecuperabile fra la maturità e l'infanzia, una zona incorrotta in cui lo sguardo puro e diretto sulla realtà non è ancora stato inquinato dai compromessi e le ipocrisie che rendono possibile la vita all'interno della società, dall'altro la presa di coscienza disarmante (ma solo per il pubblico: i ragazzini della storia lo comprendono in modo molto più naturale) che il Male, se per un verso proviene da recessi oscuri e insondabili, per l'altro risiede nella forzata tranquillità, condivisa dai più, del quotidiano, è visibile alla luce del sole sulla superficie di una presunta normalità che assume se stessa acriticamente, rinunciando a uno sguardo sullo e dall'esterno, per ritrovarsi, in definitiva, a galleggiare in un'illusoria totalità indifferenziata. In questo senso, il consorzio umano è immune alla Verità del male presente al proprio interno; essa potrebbe costituire un efficace vaccino se non fosse rifiutata a priori.

Senza svelare il finale, si può dire che la vicenda seguirà uno sviluppo fedele al canone fiabesco. All'interno del piano narrativo focalizzato sul passato dei ragazzi, però, si incastrano vari episodi sul futuro dei tre protagonisti: quello di Sandro (Stefano Accorsi), traduttore impegnato a tenere a bada il vivace figlioletto in un monolocale ingombro di libri; quello di Cinzia (Valeria Solarino), maestra di arte in una scuola media, prima spettatrice incredula poi infervorata parte attiva di un assurdo consiglio di classe che mette a nudo le contraddizioni, e le bassezze, di uno svogliato corpo docenti incapace, col suo magmatico maschilismo e il suo simpatico menefreghismo, di considerare la propria “materia di lavoro” per quella che veramente è, ovvero un insieme di individui in fase di crescita con alle spalle una serie di storie personali più o meno serene, e di affrontare il sorgere di eventuali problemi con cognizione di causa, o perlomeno con il dovuto tatto; infine, quello di Carmine (Valerio Mastandrea), che, rinchiuso nella penombra di un anonimo bar a fumare e bere birra, ci fa assistere alla transazione dall'originaria spavalderia e sicurezza di sé al manifestarsi di una fondamentale vigliaccheria e incapacità di controllare le circostanze, mentre l'irrompere di pressioni presenti contribuisce al conflittuale riaprirsi di cicatrici passate.
Ci vengono così presentati così tre adulti alle prese col fantasma di un episodio ormai trascorso che, sfuggendo alla contingenza del suo accadere particolare, si trasforma in un tema di portata necessariamente più ampia, fino a diventare il simbolo del rimosso storico che grava sull'oggi. Se è vero che, nel corso del suo inevitabile ripresentarsi, esso ha anche, almeno per i personaggi, una portata emancipatoria, perché libera chi conserva il ricordo dal peso della custodia, non si può dire che il film intenda offrire al pubblico alcuna scappatoia, volgendosi in conclusione verso prospettive ottimistiche. Soprattutto per via della naturale tendenza a dimenticarci delle condizioni socio-politiche che hanno preceduto il nostro tempo e a interpretare le brutture e gli orrori che ci circondano come frutto del caso. Spesso abbiamo voglia di sbarazzarci troppo facilmente delle scosse subite, questo il regista di “Nemmeno il destino” non cessa mai di ricordarlo. E fa riflettere come, attualmente, gli unici in grado di elaborare e diffondere (quando ci riescono) idee sull'attualità dalle valenze fortemente politiche siano gli artisti. Dopo la proiezione al cinema Massimo, Gaglianone ha raccontato di una domanda postagli a Venezia da una giornalista della RAI: “Ma perché fai sempre film così duri?”; “Forse – questa la risposta ci vuole qualcuno che dia qualche schiaffone. Sono trent’anni che ci raccontiamo barzellette, e adesso siamo nella merda”. Più chiaro di così non si può.

Splendida l'ultimissima scena, inserita dopo i primi titoli di coda: un rimbalzo di sguardi fra i tre protagonisti adulti in metropolitana, sulla scia di “Un campo lungo cinematografico”, brano composto da Vasco Brondi appositamente per il film. L'atmosfera sospesa nell'azzurrino del vagone, l'incontro mancato, forse avvenuto davvero, forse no, l'accordo fluttuante fra immagini e musica, coronano alla perfezione un'opera scaturita dalla miscela esplosiva fra fiaba e crudo realismo. Mescolanza che trova la sua più compiuta espressione nell'episodio in cui Stefano Accorsi, giocando con il figlio, si finge un drago. Mentre il bambino lo cerca, lui salta fuori dall'armadio, per fargli uno scherzo. Ma, in quel momento, agli occhi del piccolo, il padre si trasforma nell'uomo nero che l'adulto ha conosciuto durante l'infanzia. Il ragazzino si spaventa a morte, e non dice più una parola fino alla fine della scena, nonostante le scuse e l'abbraccio del genitore. Metaforicamente, il ricordo del mostruoso dottore si è materializzato nella tranquillità dell'appartamento, e il Male che rappresenta è stato talmente sconvolgente da ridurre al silenzio un nuovo bambino, fino ad allora ignaro della sua esistenza.

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marezia venerdì 9 settembre 2011
torino, prego.
43%
No
57%

Il riassunto già parte male, sia più attento al prossimo.

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