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Ultimo aggiornamento martedì 27 novembre 2018
La storia dello sguardo palestinese su un'arte di strada di matrice occidentale. In Italia al Box Office L'uomo che rubò Banksy ha incassato 84,2 mila euro .
CONSIGLIATO SÌ
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Nel 2007 lo street artist universalmente noto come Banksy mette la sua firma anche sui muri di edifici privati e pubblici in Palestina. Un gesto clamoroso che porta l'attenzione del mondo sul conflitto israelo-palestinese, "risolto" con l'edificazione, completata nel 2003, del costosissimo muro o "barriera di separazione" tra i territori. In particolare, un suo murale, Donkey's Documents, ritrae un soldato israeliano che controlla i documenti a un asino. L'opera non raccoglie l'entusiasmo di tutti i locali: mentre un negoziante si sostiene vendendo con soddisfazione i souvenir ispirati alle sue opere, meta di pellegrinaggio da tutto il mondo, e l'ex sindaco di Betlemme, Vera Baboun, lo esalta come un eroe contemporaneo, altri si sentono oltraggiati perché si sentono assimilati alle caratteristiche deteriori di quell'animale.
Altri ancora ne riconoscono il valore fondamentale nella loro economia, mentre gli autori del film si chiedono se l'opera non sia in realtà una citazione pittorica colta e un incitamento alla diserzione e all'abbandono di quel rituale meccanico e violento di continua certificazione di identità.
Di certo il tassista e bodybuilder Walid, molto scettico sull'impatto reale dell'artista, non apprezza quel tipo di espressione e preferirebbe che la superstar donasse fondi ai campi profughi. Su indicazione del ricco imprenditore Mikael Kawanati, Walid si occupa della rimozione dell'opera, al fine di rivenderla per scopi più pratici alla causa dei locali (mettendolo all'asta su eBay al prezzo di 100 mila dollari). Ma non trattandosi di una tela o di una scultura, l'operazione consiste in una complicata estrazione chirurgica dal cemento di un blocco che pesa quattro tonnellate. Non esattamente un oggetto facile da imballare, trasportare e spedire ai mercanti d'arte di tutto il mondo, che invece se la contenderanno, nonostante sia completamente estrapolata dal contesto che ne determina in maniera molto precisa il valore, artistico e monetario.
Non è la prima volta che il cinema incontra la parabola del quotatissimo graffitaro, da Exit Through the Gift Shop (2010), in cui lo stesso artista intercetta le performance di colleghi come Space Invader, a Banksy Does New York (2014), che ne documenta l'azione artistica nella metropoli. Anche l'opera prima L'uomo che rubò Banksy, leggera nei mezzi di produzione ma profonda nella ricerca di senso, nelle parole del regista Marco Proserpio (formatosi a MTV e nella regia pubblicitaria), usa il celeberrimo artista come "esca", per parlare non solo delle suoi meriti nell'arte dello stencil ma anche dei palestinesi "non come vittime" ma come individui che reagiscono a una provocazione. Innescando così il film stesso. Il quale è stato girato nell'arco di sei anni, inseguendo quell'opera, che da Betlemme - unica meta turistica in Palestina, dove non a caso Banksy nel 2017 ha aperto clamorosamente anche il Walled Off, albergo che accoglie i suoi lavori - raggiunge un collezionista di Copenhagen, ma anche Londra e Los Angeles.
Il pedinamento, rigorosamente con macchina a mano, alta definizione, un po' di mini-DV e parecchio spirito punk, è occasione per incontrare il parere di collezionisti ed esperti e sollevare domande su copyright, legalità, stratificazione semantica, funzione, destinatari e credibilità residua dell'arte di strada.
Una forma d'espressione spesso sottovalutata, che vuole parlare a tutti e invadere il mondo e al tempo stesso è fagocitata dal mercato. Con una consistente apertura alla realtà italiana: la voce, tra le altre, di Paolo Buggiani, performer e collezionista, tra i primi estimatori della graffiti art di Keith Haring, e la rievocazione della vicenda di Blu, writer bolognese anonimo come Banksy, che nel 2016 ha cancellato le sue proprie opere in segno di rifiuto rispetto al sistema che lo "normava" in una mostra limitando l'accesso alla sua produzione. Su tutto, il commento super partes, ironico e quasi sacerdotale di Iggy Pop, che nella versione italiana sarà l'unico ad essere sottotitolato e non doppiato. In Festa mobile al Torino Film Festival 2018.