René Clair (René-Lucien Chomette) è un attore francese, regista, scrittore, sceneggiatore, è nato il 11 novembre 1898 a Parigi (Francia) ed è morto il 15 marzo 1981 all'età di 82 anni a Neully-sur-Seine (Francia).
Piacere alla maggioranza è abbastanza facile: basta non mirare in alto. Né è difficile conquistare la minoranza: il segreto è sottrarsi alle tegole. Più arduo è ottenere successo di pubblico con film di qualità. Così sosteneva René Clair, pseudonimo di René Lucien Chomette, nato a Parigi fle11998, e quasi coetaneo dei cinema. Quanto ai suoi film, certo furono insieme popolari e belli, da quelli girati prima della guerra (Paris qui dort, Un cappello di paglia di Firenze, Sotto i tetti di Parigi, Il milione, A nous la liberté, Quatorze juilet), a quelli della maturità (Il silenzio è d’oro, La bellezza del diavolo, Le belle della notte, Grandi manovre, Quartiere dei lillà).In tutti cercò di tener fede al suo impegno poetico, e insieme a quel “Chiaro” che s’era scelto come nome d’arte.
Poi, all’apice della carriera, tra la fine degli anni 50 e l’inizio dei 60, un manipolo combattivo e crudele di giovani autori ne fece il simbolo (e il capro espiatorio) dei vecchio cinema francese, che meritava d’essere spazzato via dall’onda nuova, dalla nouvelle vague. «Cinéma de papa», così lo chiamavano. E fu come se il gruppo dei rivoluzionari — François Truffaut, Jean-Luc Godard, Alain Resnais, Eric Rohmer, Claude Chabrol —facesse cadere la ghigliottina sul collo d’un vecchio monarca. Dopo altri 5 film minori l’ultimo fu Le fetes galantes (Per il re, per la patria e per Susanna), del 1965 —, abbandonò il set e si dedicò alla scrittura e al teatro. Sentiva di non poter più girare “per tutti”, e ne trasse le conseguenze.
Prima d’allora, nel 1950, s’era già volto all’indietro nella memoria,fino a ritrovare il “se stesso”del 1923, quando aveva smesso il suo mestiere di giornalista,, s’era dedicato completamente al cinema. Dopo 26 anni dal suo esordio con Entr’acte, aveva immaginato un dialogo impossibile e fecondo tra il suo presente e il suo passato, che poi aveva pubblicato in Réflextion faite. Notes 1920-1950, e che ora l’editore Excelsiori88i ripubblica come Riflessioni sul cinema. Note per servire all’arte cinematografica (pagg. 312, €22,00, con una Premessa di Maurizio Porro).
Non pretendo di scrivere una storia dei cinema, scrive il Clair del 1950 nella Prefazione, né voglio dimostrare d’aver avuto ragione. Ho solo testimoniato la “grande avventura” cui ho assistito: «la creazione di un linguaggio, di un’arte, di un’industria». Sempre deciso, così aggiungiamo, a fare non solo il meglio possibile, secondo quel che l’arte pretende, ma anche — come da vecchio amava ripetere—«il meglio possibile per il più gran numero possibile».
Da Il Sole-24 Ore, 29 aprile 2007
Secondo i francesi, ciò che distingue l’intelligenza è la «clarté», la chiarezza. Forse è per questa ragione che il più intelligente dei registi del cinema, René Lucien Chomette, dovendo scegliersi uno pseudonimo, si scelse quello di Clair. Con il nome di battaglia di René Clair, il nostro è dunque da circa trent’anni, con Chaplin, con Ford, con Stroheim (ma quest’ultimo non lo fan più lavorare che come attore) uno degli intramontabili principi dello schermo. Ford è l’ingenuo «epos»; Chaplin la semplice poesia delle cose; Stroheim la forza selvaggia dell’io. Clair non è che l’intelligenza sicura di sé, attenta ai trabocchetti, nemica dell’enfasi, dell’empietà, dell’errore. È difficile non amare René Clair, com’è facile porgli dei limiti, accusarlo, come s’è fatto sin dagli inizi, di «sécheresse», di aridità. Eppure le cose non son così semplici. René Clair è infatti l’autore del Cappello di paglia di Firenze, ma anche di Per le vie di Parigi: del Milione e de L’ultimo miliardario, ma anche del Silenzio è d’oro e di quel film sui ragazzi, Aria pura, che fu interrotto dalla guerra.
Forse le accuse di «intelligenza» hanno un’altra ragione. Nel cinema, come ognun sa, l’intelligenza puzza di bruciato, conserva qualcosa di eretico. Ci sono quei signori che sanno tutto sui «gusti» del pubblico, e che decretano a priori il successo o l’insuccesso di un film. Per questi tali Clair, il quale ha osato scrivere che il film d’arte è in parte una faccenda da iniziati, è un nemico sicuro. Così è accaduto che il più francese, e il più limpido, dei registi è dovuto andare a lavorare all’estero dopo il più intelligente, ma anche il più secco, dei suoi film, L’ultimo miliardario. Così come è accaduto che, senza scandalo per nessuno, il grande Chaplin ha potuto mettere del vino sentimentale nell’orcio razionalistico del maestro dei Due timidi: a noi la libertà si è trasformato agevolmente in Tempi moderni.
Prima di essere Clair, il signor Chornette è stato giornalista. (Chi vuol saperne di più può leggere con profitto il volumetto biografico uscito nelle edizioni Bocca). Tra l’universale meraviglia egli ha continuato a scrivere per i giornali, un po’ in appoggio delle proprie teorie estetiche e un po’ perché gli faceva piacere tornare alla vecchia professione. Il risultato è stato un altro libro: «Réflexion faite» che con il titolo «Vita e storia del cinema», è stato tradotto in italiano (Nuvoletti editore, Milano). Nato a Parigi nel 1898, René Clair ha compiuto dunque, nel 1955, 57 anni. Pochi quando si rifletta alla somma di lavoro che egli ha saputo compiere dal 1923, quando ha inizio la sua opera con Parigi che dorme, al capolavoro Il silenzio è d’oro e al film mancato che s’intitola La bellezza del diavolo. Opera di rara originalità, quella di Clair si raccomanda soprattutto all’attenzione delle anime sensibili, degli spettatori di gusto per il suo straordinario rigore. Sin dagli inizi Clair sa che cosa è il cinema: lo sa così bene che non solo lavora nella direzione delle ricerche avanguardistiche (Entracte) ma ci dà subito quel capolavoro di leggera comicità, Un cappello di paglia di Firenze, che forma tuttora, assieme alle parti più riuscite dei Due timidi, la delizia dei giovani frequenta-tori dei cine-club.
Come Chaplin, come tanti altri intellettuali amici del cinema, Clair da principio accolse con male parole, le relative male parole di una persona educata, l’invenzione del parlato. Ben presto però la sua curiosa intelligenza seppe trarre dal nuovo procedimento forze insperate per procedere oltre nell’espressione cinematografica. Fu il primo infatti, con Sotto i tetti di Parigi, con Per le vie di Parigi, con A noi la libertà, a darci una serie di opere memorabili che non si sarebbero potute concepire senza il nuovo mezzo espressivo. Tenero ed ironico, egli ha voluto essere il continuatore dei pionieri francesi del film comico, Méliès, Zecca, Max Linder, concludendo con Il silenzio è d’oro un arco che anche nei contenuti ritorna con patetica grazia agli inizi dell’arte cinematografica. Polemico contro il film sonoro e parlato, si divertì in Sotto i tetti di Parigi a mostrarci ironicamente i partiti che dalla nuova tecnica uno spirito libero poteva trarre. Si vedono due che discutono ma non si sente nulla perché gli interlocutori son visti attraverso una vetrata. Oppure si sentono le voci di due amanti che parlano a letto nel buio assoluto della notte. Obbligato ad andarsene fuori dai piedi, perché, come accade, anche i francesi amano l’intelligenza nei libri, ma non nelle pellicole, Clair ha fatto in Inghilterra con Robert Donat, e l’americana dalle belle guance Jean Parker, un film perfettamente inglese, Il fantasma galante. Chiamato a Hollywood alla vigilia della scoppio della guerra si dedicò ad opere di contenuto americano in: Accadde domani, poi Ho sposato una strega e The Flame of New-Orleans, che sono tutte percorse dal più corretto spirito anglosassone. Razionale ma, soprattutto, artista, Clair rifà col cartone Parigi ma soltanto a Parigi, non a Hollywood o a Londra. I marciapiedi innaffiati dalla pioggerella di aprile in Sotto i tetti di Parigi; i caffeucci dove Maurice Chevalier giuoca l’ultima carta sono tutti ricostruiti in studio. Però c’è l’aria di Parigi, il colore del cielo, il linguaggio sapido e precipitoso della piccola gente che il regista predilige sopra ogni cosa al mondo. Mentre gli uomini sono simpatiche marionette un po’ folli, le donne di Clair sono pungenti ed evidenti come quelle le cui dolci immagini occupano con inquietante dolcezza il cuore degli spettatori. Non son mai attrici celebri, «stars». Pola Illéry, così bella, sparisce dopo due film; l’Annabella del Milione è una esordiente; la fragrante Marcelle Darrien nel Silenzio è d’oro s’è dileguata dopo la prima prova. L’intelligenza, qualità astratta, non ama evidentemente di intrattenersi sulle cose. Il cortese signor Clair non ama insistere, è un precursore che cerca di passare inosservato, un saggista importante che non si dà arie, un artista straordinario cui tutti quelli del cinema devono qualche cosa.
Francia 1900. In una cittadina che trascorre le sue calme giornate priva difatti importanti, il reggimento di dragoni, che è ospite della città, suscita innumerevoli pettegolezzi. Al centro delle chiacchiere è un sottotenente di piacevole aspetto, il quale ha straordinari successi presso le signore e signorine di ogni ceto. Tali successi provocano gelosie da parte dei «dongiovanni» locali; ne nasce una sfida in termini piuttosto crudi. Il sottotenente si impegna a pagare un pantagruelico pranzo a tutta la buona compagnia se non riuscirà ad ottenere i favori della prima giovane incontrata casualmente ad una festa da ballo. Il poco cavalleresco patto è stipulato nelle debite forme.
La sera della festa, la scelta del protagonista cade su una signora divorziata, una parigina finita in provincia, che ha il migliore negozio da modista della città, e che è corteggiata da un signore buono e dovizioso, il quale tuttavia non ha il coraggio di presentarla alla propria famiglia. La bella signora è presto conquistata dalle maniere eleganti, anche se un tantino sfrontate, del sottotenente: il quale è sul punto di cogliere l’agognata vittoria, quando si accorge di esser stato a sua volta preso dal giuoco e di amare appassionatamente la giovane che da principio era stata la posta di una sciocca ed oziosa commedia. Cerca di perdere la scommessa; ma la città, ronzante come un alveare, ha ormai messo sull’avviso la sventurata che, in un ultimo colloquio, congeda, con il cuore spezzato, il maldestro conquistatore. Il sottotenente tenta «in extremis» di farsi perdonare: all’alba del giorno dopo il reggimento parte per le grandi manovre. Passerà davanti alla finestra dell’innamorata: sarà perdonato se vedrà la finestra spalancata. Ahimè, la finestra è chiusa. Nulla vieta però di sperare in una riconciliazione degli amanti.
Le grandi manovre è un film stupendo, carico di valori suggestivi e poetici, e perfettamente inserito in quella tradizione della cultura francese, apparentemente leggera, ma invece sottile, amara e profonda che è il dono più prezioso ed originale offerto da Parigi alle anime sensibili del mondo intero. I colori squillanti, la perfetta evocazione ambientale, la magica interpretazione di Gérard Philipe e di Michèle Morgan, l’originalità del soggetto, concorrono unita mente alla riuscita di una pellicola poetica, attraente e svariante. È giusto dire che la prima parte ci è sembrata pii ricca e densa della seconda,, cui nuocciono l’ambiguo finale l’addio sotto la pioggia, nel fiacre, tra i lazzi dei compagnoni, che poteva essere facilmente evitato, purché il protagonista avesse il garbo di dare una voce al cocchiere Sembra anche opportuno aggiungere, a chiarimento del significato ultimo di questo film (che ha avuto il merito d farci ricordare all’inizio due dei più famosi versi di Baudelaire: «La diane chantait dans les cours des casernes, - e le vent du matin souffiait dans les lanternes») che Clair aveva immaginato un epilogo più logico e cerebralmente crudele. Passando a cavallo, in testa al suo squadrone, da. vanti alla finestra dell’amata il sottotenente la vedeva aperta e traeva un sospiro di sollievo. Ma non era nella realtà che un segno luttuoso: la domestica della protagonista ave va trovato la propria padrona asfissiata dal gas e aveva aperto la finestra per dare aria alle stanze.
Vive con la famiglia (il padre è un commerciante) nel quartiere delle Halles. Non termina gli studi, parte volontario, a 17 anni, per la guerra. Torna a casa ferito alla spina dorsale. Si avvicina alla sinistra, trova lavoro nel cinema, dapprima come assistente alla regia poi come attore. Ma più che recitare, gli interessa la manipolazione del linguaggio cinematografico. Comincia con una favoletta imperniata sui trucchi ( Paris qui dort, 1923) e con una variazione surrealista da utilizzare come intervallo (s'intitola appunto Entr'acte) per uno spettacolo di balletti. Nel 1927 realizza - non ha ancora compiuto 30 anni – il suo primo lungometraggio, Un cappello di paglia di Firenze, da un testo di Labiche e Michel, imperniato sul classico tema (cinematografico) dell'inseguimento.
Con il sonoro, verso il quale aveva mostrato non poche perplessità, gira, fra il 1930 e il '33, quattro graziosi capolavori, in cui la vita del popolino, i sentimenti ingenui della gioventù e gli scherzi del caso si amalgamano lungo il filo di storielle senza importanza: Sotto i tetti di Parigi (1930) narra l'amore infelice di un cantante girovago, Il milione (1931) riprende il tema dell'inseguimento sostituendo al cappello di paglia un biglietto della lotteria, A me la libertà (1932) vede due amici alle prese con la vita di fabbrica e la voglia di farla finita con tutte le costrizioni, Per le vie di Parigi (1933) racconta le pene e le ripicche d'amore di due giovani che si conoscono a un ballo per strada durante la festa nazionale. Spiritoso, tenero, lucido ed elegante, Clair s'è ormai affermato come un vero autore.
Emigrato in USA per sfuggire al nazismo, trapianta a Hollywood con qualche fatica (dopo un intermezzo britannico) il suo spirito francese, e almeno due volte fa centro ( Ho sposato una strega, 1942, e Accadde domani, 1944). Tornato in patria dà spazio alla nostalgia di quando il mondo era diverso, più gentile e dolce anche se non sempre amico. E sono due capolavori (fra altre opere non eccezionali): Il silenzio è d'oro (1947), il cinema muto a Parigi nelle patetiche vicende di un produttore simpatico (Maurice Chevalier), e Le grandi manovre (1956), raffinato film a colori sulle delusioni d'amore e sulla guerra incombente (siamo nel 1914). Primo uomo di cinema a divenire accademico di Francia, Clair scrive tre romanzi, testi teatrali e radiofonici, nonché due volumi di riflessioni sulla settima arte.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Il cinema è «scoperto» dai Lumière nel 1895; ed è riscoperto dai parigini fra il 1921 e il '26. È quasi un «movimento», iniziato da Louis Delluc, il pioniere della critica cinematografica francese. Per intellettuali e intellettualoidi il cinema diventa l'argomento di rito. Tutti ne parlano, molti ne scrivono. Intervengono anche Maurois e Gide, Bloch e Cocteau; accanto a quella teatrale i quotidiani inaugurano una rubrica cinematografica; riviste ospitano saggi, La Nouvelle Revue e il Mercure de France non sono ultimi a capitolare. Si aprono i primi Cine-Club e si crea tutta una letteratura, in gran parte improvvisata. Si inneggia, e giustamente, a Chaplin; si riconosce a Shakespeare, o gran bontà, un certo «taglio» cinematografico; si discute sul ritmo; si tenta un'estetica; si condannano film notissimi, se ne esaltano altri ignoti. Il cinema comincia ad avere su di sé lo sguardo di spettatori esigentissimi, disincantati; ed è anche con questa platea d'eccezione, nella capitale dell'arte contemporanea, che dovrà d'ora in poi fare i suoi conti.
Se questo «movimento» è letterario e polemico, le opere che lo fiancheggiano sono quelle della cosidetta «avanguardia». Con questa parola, prima e poi docile a mille pretesti, si suole definire la produzione cinematografica francese, non commerciale, tra il '21 e il '28. Sono per lo più brevi film, dovuti a isolati di molto coraggio e di pochi quattrini, rigorose e audaci ricerche di ombre e di luci, del linguaggio delle «cose», dei ritmi d'inquadrature e di sequenze. Il sognò, o l'allucinazione, vi hanno naturalmente gran parte; la trovata ingegnosa, o cerebrale, predomina; e per un Painlevé che sceglie vie scientifico-documentarie con intenzioni poetiche, i Léger, Man Ray, Dulac, Deslaw, sono legati a pure esperienze di ritmo e di composizione, cinema da raffinato laboratorio. Si esclude il soggetto per il soggetto, l'attore per l'attore; e si giunge a un film intitolato La danse des fauxcols, candidi solini fatti piroettare in ogni senso con un testardo e monotono entusiasmo. Si sorride, di quei tentativi; ma intanto dei giovani li hanno sperimentati, seguiti; e se la prima generazione del cinema francese ebbe per guida l'enfatico Abel Gance, la seconda, nata dall'«avanguardia», avrà per guida René Clair.
È, allora, poco più che ventenne. Si chiama René Chomette, è giornalista ai Débats, e, naturalmente, è innamorato del cinema. Scrive un romanzo, dai capitoletti brevi brevi, sembrano quelli di una pre-sceneggiatura. Pur di entrare in uno studio, fa la comparsa, poi quasi l'attore, prima con Feuillade, poi con Protozanoff. Nel '22 è a Bruxelles, assistente di Baroncelli. Crede ormai di saperne abbastanza; e nel '23 tenta il suo primo film, Paris qui dart. La trovata c'è, e assai cinematografica. Un magico raggio investe Parigi, e tutti costringe a un'improvvisa immobilità, negli atteggiamenti più impensati. Occorrevano molto gusto e parecchio ingegno, per insistere sull'effetto che si può facilmente trarre dalla ripetizione dell'ultimo fotogramma che abbia ripreso un determinato movimento. Ma Clair ha gusto, ha ingegno, rivela risorse quasi poetiche; non è poco, per un filmetto che poteva riassumersi in un meccanico scherzo. Entr'acte (1924) è più ambizioso. La surrealistica sceneggiatura di Picabia tratteggia una sarabanda di ritmi felici e d'immagini singolari, con parecchie fumisterie: colonne del Partenone e ballerine barbute, barchette di carta su di un oceano di tetti, un carro funebre trainato da un cammello, il corteggio in corsa ripreso al rallentatore. Capricci, variazioni, pretesti; intelligenti e aridi, saporiti e ingenui, ingegnosi e arbitrari, pur di «épater» qualsiasi gusto «pompier». Clair, in Entr'acte, sembra quasi voler fare un sommario dell'«avanguardia» dalla quale sta per staccarsi.
E si giunge al suo primo vero film, Le voyage imaginaire ('25), lo si è potuto rivedere questa settimana. Tutte le risorse del cinema d'allora collaborano a questa féerie che è un po' fiaba e un po' vaudeville. È il sogno di un povero impiegato di banca, con fate chiromanti e statue di cera, con tratti umani e d'ambiente di una precisione rara, e con una verve ora soltanto allegra, ora di un'acuta ironia. Il montaggio è duttile, calzante al fotogramma; gli attori sono guidati come raramente accade; ma è sopratutto una vena ironica e sbarazzina, elegante e lieve, a fare già tutte le sue piroette e tutti i suoi sberleffi, con il garbo di un artista e la felicità di un poeta. Seguiranno, nel '27 e nel '28, Un chapeau de paille d'Italie e Les deux timides, un «vaudeville» e una commedia tipicamente «alla» Clair; e saranno il prologo ai suoi due film più noti, Sous les toits de Paris ('30) e Le million (32), che imporranno la sua firma all'ammirazione di tutti.
Al rivedere Le voyage imaginaire e Les deux timides si è ancora una volta sorpresi e commossi. È la cinematografica adolescenza di un regista geniale. Ha da poco scoperto l'obiettivo, e l'obiettivo è il suo gioco e il suo assillo. Tutto per lui è cinema, dev'essere cinema; e per «diverti-: re», vuole anzitutto divertire se stesso. Si racconta delle fiabe, e poi se le smonta; a tutto irride, e poi se ne commuove; predilige gli umili, e li tratta con raffinate eleganze. è monello, e pensoso; è capriccioso, e saldo; potrebbe diventare un «enfant gaté», riesce a essere un artista. Le voyage imaginaire e Les deux timides ci danno questa cinematografica adolescenza, dall'estro acerbo e sottile, dall'umore sempre felice. È come un bel mattino d'aprile; e sono perciò due film preziosi.
(1948)
Da Film visti. Dai Lumière al Cinerama, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1957