Walt Disney è un attore statunitense, regista, produttore, co-produttore, è nato il 5 dicembre 1901 a Chicago, Illinois (USA) ed è morto il 15 dicembre 1966 all'età di 65 anni a Burbank, California (USA).
Fu subito mito. Come per i suoi immortali personaggi di Biancaneve e della Bella Addormentata. All’indomani della sua morte, si diffuse contemporaneamente la notizia che il suo corpo era stato sottoposto a criogenesi per sfidare il tempo. Walt Disney aveva invece scelto d’essere cremato, ma in quell’ormai lontano dicembre del 1966 le voci circolarono con insistenza e sarebbero periodicamente riapparse. Perché già allora lui e l’azienda che portava il suo nome – forse nessun’altra impresa è mai stata così identificata coni! suo creatore – erano diventata la macchina dei sogni americani per eccellenza, grandi interpreti dell’immaginario collettivo.
Era stato Disney – uomo gregario quanto chiuso, di famiglia irlandese religiosa e irrequieta – a inventare o meglio reinventare l’animazione cinematografica e i parchi giochi. A disegnare personaggi universali quali Topolino e patrie della fantasia quali Disneyland, che hanno definito per generazioni – al passaggio di crisi economiche, guerre e epoche di benessere – non solo tempo libero e divertimento, ma modi di vita e l’intera cultura popolare “made in Usa” nell’ascesa al dominio del palcoscenico internazionale. A dar vita allo sforzo prometeico di ricucire, almeno nel suo Regno Magico (non a caso soprannome della sua azienda), ferite e contraddizioni del mondo.
Un imprenditore discusso
Alla sua scomparsa Disney vantava le cifre d’una simile rivoluzione: quell’anno 240 milioni di spettatori avevano guardato un suo lungometraggio, 8o milioni avevano visto un suo documentario educativo, cento milioni alla settimana si sedevano davanti a un suo programma televisivo, quasi altrettanti avevano letto un suo libro, 50 milioni ascoltavano i suoi dischi e sette milioni avevano visitato Disneyland. Quarant’anni dopo le cifre non tradiscono le ambizioni di Walt: l’impero da lui fondato ha un giro d’affari da 32 miliardi di dollari, undici parchi tematici nel mondo, canali televisivi ed editoria e rimane tra i leader del grande schermo, padrone anche delle nuove frontiere dell’animazione digitale.
Ma la strana reazione alla sua morte – quando per l’opinione pubblica era diventatolo zio dell’America, Uncle Walt – è anche lo specchio delle battaglie sul suo lascito. Pochi ‘imprenditori sono stati tanto discussi: i detrattori hanno tacciato i suoi sogni di incarnare l’imperialismo, di coltivare l’alienazione, l’omologazione e l’impoverimento culturale. I suoi sostenitori l’hanno celebrato con identica foga quale leader di un’azienda più unica che rara, “profeta” capace di riflettere sensibilità e coscienza contemporanea, di influenzare forme espressive che mischiavano arte nobile e meno nobile (antesignano della Pop Art) e di ispirare i movimenti più disparati, dall’ambientalismo alle culture alternative, fino al fascino delle nuove tecnologie e della ricerca spaziale.
Abbastanza per dar vita a una vasta letteratura: gli elogi arrivano a volte da fonti insospettabili. Sergei Ejzenstejn, che vede nelle sue creazioni «il più grande contributo all’arte del popolo americano». Oppure il critico Mark Van Doren, che lo definì «un artista che conosce innumerevoli verità che non!. possono essere insegnate». Ma è forte anche il rigetto: nel 1968, solo due anni dopo la sua morte, viene dato alle stampe il j’accuse più feroce. In The Disney Version, Richard Schikel denunciò Disney come il catalizzatore «per gli illetterati», brillante imprenditore ma, quando si tratta di cultura, «un orrore».
Il duello delle interpretazioni cerca ancora oggi un equilibrio: in Magic Kingdom (il Regno Magico), Steven Watt nel 1998 ha riabilitato Disney come il principale interprete dei sogni a stelle e strisce. E nella più recente biografia, pubblicata nelle scorse settimane da Neal Gabler con il significativo sottotitolo il trionfo dell’immaginazione americana, abbondano i tentativi di riconciliare la schizofrenia di Disney: in lui si può vedere,afferma, un alfiere della creazione di un ideale d’infanzia e di valori «per la classe media protestante e bianca, che ha trasformato gli americani in ubbidienti e disciplinati consumatori». Ma anche «un pioniere della tolleranza,della liberazione personale, della controcultura».
E Gabler propende per interpretarel ’imprenditore come il sognatore sotto la bandiera di un uomo che «ha cambiato il mondo».
Dai primi passi al film su Biancaneve
Quel che è certo è che Walt Disney è stato l’acuto e sofferto interprete di tempi burrascosi. Da Chicago, doveWalt nasce agli albori del Novecento, la famiglia sitrasferisce presto in una fattoria a Marceline, in Missouri. Questa cittadina di provincia, idealizzata, diventa teatro della sua passione per gli animali e il disegno e fornirà il baricentro morale delle sue opere. Ma, tornato a Chicago davanti al fallimento dell’avventura dei Disney come agricoltori, Walt è succube di un padre autoritario – e violento – e di dure corvé di lavoro notturno per il nuovo business della famiglia per sbarcare il lunario: la consegna dei giornali. A 16 anni lascia la scuola, si arruola nella Croce Rossa falsificando la propria data di nascita e, all’indomani della Prima guerra mondiale, viene spedito in Francia. Torna cambiato: deciso e determinato a seguire la sua vocazione artistica Prima a Kansas City, dove si fa le ossa nella pubblicità e conosce il disegnatore Ub Iwerks, poi a Hollywood.
E in California, dove era arrivato con soli 40 dollari in tasca e una cartella di schizzi, I che fonda la sua casa di produzione, la Disney Brothers, con il fratello più anziano Roy. Ed è qui che prende anche forma il sogno dell’animazione. Inizialmente vende una serie basata sulle avventure di Alice nel paese delle meraviglie. Presto è la volta del primo successo d’un personaggio inventato: il fortunato coniglio Oswald, disegnato da Iwerks. La strada dei successo è lastricata di delusioni: i diritti di Oswald sono della Universal e, quando Disney chiede un aumento, perde il contratto. Da questo fallimento nasce tuttavia Mikey Mouse, del quale Walt è attento a conservare il controllo.
Disney, con i suoi bassi costi e la sua offerta di svago, supera meglio di altri la Grande Depressione degli anni Trenta. I suoi personaggi si affermano per l’originalità, tecnica nel disegno “morbido” e psicologica con i loro spirito d’iniziativa, che trova eco negli anni difficili del New Deal. Topolino diventa il suo alter ego come quello di tanti altri, impegnati a mettere a frutto il proprio ingegno in circostanze avverse. Nel 1937dà i natali al primo lungometraggio animato della storia, Biancaneve e i sette nani, considerato una follia da tutti e accolto invece da ovazioni e incassi per otto milioni che, al giorno d’oggi, equivalgono a quasi cento milioni di dollari.
Le città ideali: i parchi-divertimento
La Seconda guerra mondiale, però, mette nuovamente alla prova Walt: gli studi della Disney sono di fatto “requisiti” per filmati patriottici odi addestramento. E, all’uscita dal conflitto, Disney fatica a ritrovare smalto, nonostante una successione di nomination agli Oscar (alla fine ne avrà contate 48) e di film passati alla storia quali Fantasia (dove Topolino interagisce con un autentico direttore d’orchestra), Pinocchio, Dumbo e Bambi. La sua immagine, mentre avanzano rivali più irriverenti, da Hanna e Barbera alla Warner Brothers, è progressivamente incrinata dall’accusa di essere diventato un grande addomesticatore di culture, cultore del sentimentalismo e della banalità votato a fuggire la realtà. E anche e forse soprattutto reduce da uno sciopero di disegnatori e animatori nel 1941 che lascia una profonda ferita in Walt, spezzando quell’armonia sociale daini cercata anche in azienda e spingendolo verso posizioni politiche sempre più conservatrici. Per tutta risposta all’agitazione, Disney, che è soggetto a forti depressioni, partecipa negli anni Cinquanta alla caccia ai comunisti scatenata dal senatore Joseph McCarty.
Ma Disney allarga anche i suoi orizzonti imprenditoriali: lancia forse il primo documentario naturalistico d’avventura, On Seal Island (l’Isola delle foche), e si getta nei film d’azione con L’Isola del Tesoro. È la nuova grande missione la trova in un’altra rivoluzione: quella dei parchi dei divertimenti, che fino ad allora ospitavano giochi slegati fra loro. Disneyland apre i battenti nel 1955 ad Anaheim in California:più che un parco giochi, la prima incarnazione per Disney d’una città ideale, un mondo di fantasia protetto dalle vicissitudini del mondo. Sforzo estremo di imporre “ordine, controllo e comfort”, almeno per un po’, sulle lacerazioni della società.
Il colossale Disney World
I suoi disegni di ingegneria sociale troveranno l’incarnazione più ambiziosa solo postumi in una vera e propria città della Disney: nel 1994 in Florida sorge Celebration Usa, 2.700 abitanti, ispirata ad Epcot (Experimental Prototype Community of Tomorrow), l’utopistica città del futuro dove Walt fondeva la nostalgia per un idilliaco mondo rurale americano e il fascino per tecnologia e innovazione. Una città, nelle sue parole, «mai completata, vetrina dell’ingegnoe dell’immaginazione frutto della libertà imprenditoriale americana». Alla vigilia della morte, però, Walt è già alacremente al lavoro su un altro progetto che vedrà la luce postumo in Florida, diventando il suo testamento più grandioso: il colossale parco di Disney World. Per cambiare il mondo. O forse, più semplicemente, per lasciarsi alle spalle la solitudinee disperazione di quelle gelide, interminabili notti nella periferia di Chicago a distribuire giornali.
Da Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2006
È il nome del «cartoon». Il disegno animato che ha invaso il mondo, ed ha avuto innumerevoli imitatori ovunque, si identifica con questo bozzettista pubblicitario di Kansas City, che aveva cominciato distribuendo i giornali a domicilio, s'era arruolato nella Croce Rossa per partecipare alla prima guerra mondiale e nel 1919 s'era imbattuto in un collega di talento, Ub lwerks. Fondano una società che comincia a produrre disegni animati a Kansas City, ma con scarso successo. l due si trasferiscono a Hollywood e, con l'assistenza del fratello di Disney, Roy, riprendono a lavorare, sfornando la serie Alice in Cartoonland. Nel 1928 nasce Mickey Mouse (Topolino): i due primi filmetti sono muti, il terzo (Steamboat Billie) è sonoro. Ormai il gioco è fatto. Assume subito grandi dimensioni, i film si moltiplicano, i successi non si contano più.
«Silly Symphonies» è il nome della serie che si diffonde su tutti gli schermi. La più celebre delle-«sinfonie» s'intitola I tre porcellini, esce nel 1933. Contiene una canzoncina infantile («Who Is Afraid of tbc Big Bad Wolf?») che esprime le speranze suscitate dal New Deal rooseveltiano. Il bestiario, nel frattempo, s'è infoltito: sono nati Minnie, la compagna di Topolino, Pluto, Donald Duck (Paperino). È arrivato il colore (fin dal 1931), si perfezionano i metodi di ripresa dei disegni con un banco a più livelli (la Multiplane Camera), si allestisce uno stabilimento articolato in molte sezioni dentro la «Walt Disney Company», si progetta il grande salto dal cortometraggio al lungometraggio. E nel 1937, dopo tre anni di complicata lavorazione, vede la luce Biancaneve e i sette nani, impresa che ha del prodigioso: un cartoon sgargiante, infantile, fiabesco, pieno di fantasia (la storia viene dai fratelli Grimm), di musiche, di meraviglie goffe e tenere, di astuzia. Seguiranno Pinocchio (1939), un mezzo insuccesso, Fantasia (1940), visualizzazione pedestre di celebri pagine sinfoniche, che irrita e seduce insieme, come sempre i prodotti Disney (Disney ha trascurato il disegno per curare l'organizzazione e la serializzazione del lavoro).
Verrano altri lungometraggi, alcuni fortunati (Bambi, 1942, Cenerentola, 1950), altri meno. Verrano le crisi interne della «Company» (nel 1941, insofferenti degli atteggiamenti dittatoriali di Disney, i disegnatori scioperano e si licenziano), nasceranno altre iniziative (si passerà alla realizzazione di film non disegnati), si punterà sulla fiorente produzione di gadgets con i personaggi più amati, si fonderà una società di distribuzione per sottrarsi alle imposizioni altrui (la Buena Vista, dal nome della via in cui ha sede la compagnia) e si aprirà, nel 1955, un enorme parco dei divertimenti ad Anaheim, in California. Disney morirà nel 1966, quando la Walt Disney Company avrà già imboccato le strade della normale produzione, cinematografica e televisiva, merchandising e home-video: una impresa, in genere prospera, come tante altre.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995