Valerio Zurlini è un regista, scrittore, sceneggiatore, è nato il 19 marzo 1926 a Bologna (Italia) ed è morto il 26 ottobre 1982 all'età di 56 anni a Verona (Italia).
Valerio Zurlini esordì come documentarista, quindi passò al lungometraggio con Le ragazze di San Frediano, piacevole ballata fiorentina qua e là ineguale, ma lietamente pervasa da uno schietto clima corale; in seguito, con L'estate violenta, tentò di ridarci il clima e le ansie del 25 luglio 1943, ma nonostante un innegabile rigore stilistico, sembrò vinto da una passionalità di temi che gli si trasformò tra le mani in letteratura un po' facile.
Con La ragazza con la valigia, invece, venne unanimemente salutato fra i registi più seri e più preparati della giovane scuola italiana.
Un film, se vogliamo, a due soli personaggi, ma quanta cura nel descriverli, quanta delicatezza, quanto garbo! Lui è un ragazzino di buona famiglia, rimasto sempre nella quiete aulica e provinciale di una città come Parma; lei è una ballerina milanese, vistosa, grezza, vissuta, anche se intimamente provvista di una decisa e concreta onestà. Lui si innamora di lei, quasi senza saperlo, e senza capire che lei non è precisamente una fanciulla verginale; ma naturalmente le cose non vanno lisce e la ragazza, che è capitata a Parma per colpa di un brutto tiro giocatole dal fratello di lui, torna alla località balneare da cui era partita.
Di lì a poco l'altro la segue, pur sapendo che quel passo non lo condurrà a nulla, e avendo intuito che la ragazza è in ristrettezze economiche, per riparare alla cattiva azione del fratello, le lascia furtivamente un po' di denaro; prima di andarsene, malinconicamente. Chiud°ndo con serena dignità il capitolo unico del suo « primo amore ».
Il film, però, non è tanto in questa vicenda che, ad esporla così, sembrerebbe rispolverare il tema vieto del ragazzo di buona famiglia e della ballerina, mà è nel disegno quasi prezioso con cui è evocato lo svilupparsi nel candido giovinetto di quell'amore così onesto, silenzioso e pulito ed è nell'umano fervore con cui sono costruiti il personaggio della ragazza vissuta ma non cattiva, e le sue reazioni via via sempre più attonite di fronte a quel sentimento che, sulle prime, nemmeno riesce a capire.
Zurlini ha equilibrato con sensibilissima cura questo scontro, lo ha costruito alla luce della più attenta intuizione psicologica e ce lo ha espresso con una quasi rarefatta interiorità, in un clima di pudore impalpabile, di dolce e austero riserbo. Purtroppo il racconto, dopo una prima parte perfettamente dosata, perde abbastanza del suo incantesimo e si sbriciola un po' sul piano narrativo (anche quanto a rigore e a concentrazione di clima), ma questo non ne sminuisce del tutto il valore, anche per la suggestione di quella insolita cornice parmense e l'asciutto fervore del dialogo senza mai una grinza.
L'opera più impegnativa comunque e più compiuta di Zurlini resta Cronaca familiare (1962) tratto dall'omonimo romanzo di Vasco Pratolini.
La vicenda, come sanno i lettori di Pratolini, consiste esclusivamente nella rievocazione di certi avvenimenti di vita familiare fatta da un fratello maggiore in morte del fratello minore e rivolgendosi direttamente a lui, ancora vivo nel suo ricordo. Nel romanzo questo raccontare le cose non in terza o in prima persona, come di regola si fa, ma in seconda persona (« Quando la mamma morì tu avevi venticinque giorni, eri ormai lontano da lei, sul colle ») non era un mero pretesto per cercare di essere originali, ma era un modo vivo per
tenere sempre direttamente presente nel racconto non solo il protagonista vero, cioè il fratello morto, ma anche e soprattutto il rapporto fra i due fratelli, alla luce del quale Pratolini scriveva.
Nel film, che narrativamente è una copia intelligentemente fedele del romanzo (persino nei dialoghi), questo raccontare in seconda persona è affidato alla voce dello speaker, ed è rimasto, perfettamente espresso, il clima del rapporto familiare che, con quella trovata, l'autore letterario intendeva creare. Questo rapporto illumina tutto il racconto, lo fascia costantemente di una atmosfera commossa, vi accende i momenti più alti di pathos. Ma come?
Le « cose » da narrare non erano molte: un bimbo nasce, la madre muore, il fratello, il padre, la nonna lo lasciano a balia in casa di un ricco signore, dove viene allevato come un figlio. Passano gli anni, il padre muore, il fratello maggiore, che è povero, mette la nonna in un ospizio di vecchi e abbandona Firenze (dove l'azione abitualmente si svolge) lasciando, in pari tempo, il fratellino in casa del padre adottivo. Di lì a qualche tempo, torna, sempre povero e malato. I due fratelli si incontrano e il minore, che ha un carattere angelico (l'altro è più tormentato, più duro, forse un po' egoista), fa in modo che la famiglia si riunisca, almeno di tanto in tanto, attorno alla nonna. Poi anche la nonna muore, il fratellino si sposa, ma è un matrimonio infelice, si ammala, c'è la guerra, il male è misterioso e difficile da curarsi, il fratello maggiore fa di tutto per salvarlo, ma è inutile. E l'altro muore.
Queste cose semplici e piane, però, che già Pratolini aveva raccontato con immacolato nitore, scrivendo forse le sue pagine più terse e più felici di scrittore sicuro, Zurlini le ha ricreate sullo schermo mirando a farle vibrare della stessa tesa, raccolta emozione di cui le aveva rivestite Pratolini, affidandosi visivamente (il film è a colori) alla pittura di Rosai per ridarci le armoniche geometrie e le bene ordinate architetture degli sfondi fiorentini e ricercando narrativamente un ritmo sapientemente lento e largamente cadenzato dalle cui pause, dalle cui volute immobilità, dalle cui raccolte sospensioni nascessero i climi desiderati, gli istanti più laceranti, ma più intimi, più chiusi, più inespressi.
Il risultato è un film che si segue dal principio alla fine con il cuore sospeso, senza mai un attimo di fatica (nonostante l'apparente povertà di fatti e l'evidente staticità del ritmo) e con una trepidazione emotiva intensa e vibrante.
La sequenza, ad esempio, del primo incontro fra i due fratelli e la nonna all'ospizio: esemplare da ogni punto di vista, isola al centro di una scenografia essenziale e quasi scarna il terzetto che, pressoché senza parole, con gesti lentissimi, con pause lungamente tenute, finalmente si unisce e si fonde in un unico sentimento di tenerezza e di gioia. Qui, come in altri momenti del film, Zurlini poteva cedere alla retorica, alla puntualizzazione eccessiva delle « cose buone », al sentimentalismo. Invece, si regge sempre con fermezza sul piano di un gusto controllatissimo, arriva, con la nota dolce, fino al momento opportuno e poi, di colpo, si ferma, raccontando soprattutto dal di dentro, esteriorizzando il meno possibile, mirando sempre e rigorosamente ad una poetica del non detto o dell'appena accennato. Con un lirismo che non rifiuta il realismo, con una sensibilità che non si separa mai dal rigore, con un calore che si accompagna sempre alla severità.
Da Cinema italiano 1952-1965, oggi, Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, Roma 1966
La realtà del fascismo aveva interessato per motivi diversi anche Valerio Zurlini, che tuttavia alla svolta del decennio punta direttamente lo sguardo sull'oggi. La ragazza con la valigia (1962) ha come referenti contigui Guendalina e I dolci inganni. Mentre però in Lattuada il centro dell'attenzione è il singolo personaggio, alla ricerca della propria identità sessuale, qui viene mostrata una specie di educazione sentimentale reciproca, che coinvolge, in maniera progressiva, il timido ragazzo di liceo e la donna. L'attenzione del regista si sposta, poco a poco, dal piano evidente della differenza d'età a quello della più drammatica differenza di classe. Il film affida, come del resto molte altre opere dei primi anni Sessanta, una buona parte della connotazione emotiva alle canzoni di successo di Mina, Celentano, Gino Paoli, che, oltre a riempire lo spazio dell'azione, ne costituiscono un commento pertinente in parallelo o in controcanto. Ma l'elemento che caratterizza lo stile del regista va riconosciuto soprattutto nella sua attenzione per il valore significante dei silenzi, degli sguardi, dei singoli rumori che accompagnano l'azione. Basti pensare alla condensazione del senso nel motivo della solitudine di Aida, nel finale del film - dopo che Lorenzo è tornato a casa - motivo sottolineato e amplificato dal rumore degli zoccoli della ragazza sul selciato della piazza deserta.
Il film successivo, Cronaca familiare del 1965 (Leone d'oro ex aequo alla Mostra del cinema di Venezia), conferma queste caratteristiche e capacità del regista di prendere il posto dello scrittore Vasco Pratolini, dal cui romanzo il film è tratto, per entrare con estremo pudore nella sfera del privato dei suoi personaggi e ricostruire una rete di relazioni attraverso un'attenzione ai minimi gesti, alle allusioni, al senso sospeso. Tutto impregnato figurativamente di ricordi della pittura di Rosai, il film è affidato al punto di vista soggettivo dell'io narrante «Giapponese per il pudore, il carattere contemplativo del racconto (non sarebbe dispiaciuto a Ozu), Cronaca familiare è, al contempo, un film assolutamente italiano per la raffinata bellezza figurativa, l'uso magistrale del paesaggio e di un colore intensamente evocativi [...]. Cronaca familiare chiude in bellezza il ciclo intimistico dell'opera di Zurlini».
Da questo momento il percorso non segue più le medesime direttrici: come in precedenza il regista àncora le vicende a un contesto storico, ma si capisce che le ambizioni del suo discorso cominciano ad assumere una portata quasi ecumenica. Le soldatesse, tratto dal romanzo omonimo di Ugo Pirro, è una specie di atto di dolore recitato in ricordo di poco onorevoli imprese compiute dall'esercito italiano sul fronte greco. Seduto alla sua destra del 1968 pone al centro dell'obiettivo il problema del colonialismo nel terzo mondo, raccontando una vicenda ispirata con evidenza a Patrice Lumumba, il leader della lotta di liberazione congolese. Rispetto ai toni sommessi del regista conosciuto nei primi anni Sessanta, in queste due opere, e in particolare in quest'ultima, ci si trova di fronte a un autore che urla la sua protesta con violenza imprevedibile e tutto sommato eccezionale anche per il cinema di quegli anni.
Nel 1972 esce La prima notte di quiete, un melodramma che sembrerebbe un atto regressivo «inspiegabile» se «non si facesse l'ipotesi che l'autore avesse da compiere una sorta di atto liberatorio consistente nel depositare in immagini, a qualsiasi prezzo e rischio, un materiale tematico troppo a lungo compresso... per trovarselo davanti finalmente oggettivato, in tutto il suo magmatico turgore e nella sua complessiva carica di autobiografica allusività». Di fatto il film appare sempre più un atto testamentario, una specie di radiografia dello spreco, dello «scialo» dell'intelligenza, delle migliori energie nella vita di provincia, con la sostituzione del disagio esistenziale a quello ideologico che prendeva i personaggi del romanzo Lo scialo di Pratolini. Zurlini, per sensibilità, interessi culturali, difesa dei caratteri e dell'identità di uomo di provincia che vuole rimanere legato alle proprie radici, rimane un regista appartato, quasi apolide negli anni Sessanta e Settanta, un autore i cui pochi film realizzati ci consentono, nel tempo, di riconoscerne la grandezza e di veder crescere l'importanza assoluta di alcune sue opere.
Ma è proprio il magma di avvenimenti, frustrazioni, atti mancati, passioni esasperate, perversioni, l'accumulazione meccanica e ipertrofica di connotazioni e situazioni tutte al negativo che, se gli riconquistano il grande pubblico con La prima notte di quiete, pongono la critica in posizione assai più negativa.
Il deserto dei tartan (1976) ottiene invece un consenso unanime di critica. E non è tanto per un omaggio a Dino Buzzati, autore del romanzo omonimo, da cui il film è tratto (alcuni critici considerano il film addirittura superiore al romanzo), quanto perché si riconosce che Zurlini ha saputo filtrare e reinterpretare un soggetto che sembrava appartenergli di diritto.
Opera di grande splendore visivo, di estrema cura nella costruzione dell'immagine, di grande tensione narrativa e forte coinvolgimento ideologico e ideale, II deserto dei tartari cinematografico, se non intende ricreare il senso surreale dell'attesa del romanzo, riesce a comunicare il senso della fine di un mondo di valori (legato al militarismo, ma anche alla cultura mitteleuropea) per molti versi complementare alle opere dell'ultimo Visconti. E forse, rispetto a Visconti non intende solo guardare all'indietro, ma interrogarsi sul movimento in atto del terzo mondo e in particolare dell'Asia verso l'Occidente.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007