Tim Robbins, ottimo attore, padre dei due figli di Susan Sarandon, quest’anno vincitore dell’Oscar destinato a un interprete non protagonista, in Codice-46 di Michael Winterbottom si muove a Shangai in un futuro troppo simile al presente: eliminazione d’ogni libertà in nome della salute e della sicurezza, virus che permettono la lettura del pensiero altrui, fitte città verticali grigia azzurre, cancellazioni parziali o totali della memoria, miseri agglomerati arabi come unici luoghi di indipendenza e vacanza perché sono «fuori». Profezie ovvie, retorica avvenirista, insomma un pastrocchio: Tim Robbins avrebbe meritato di più, di meglio, come ha avuto in Mystic River di Clint Eastwood.
Collo lungo, dinoccolato, con le spalle un poco curve e la faccia che a 46 anni conserva un’incerta espressione da bambino rannuvolato o da studente in allarme, certo Tim Robbins non è bello. E nato in California e cresciuto al Village di New Vork figlio del folk singer e compositore di canzoni Gill e della vicedirettrice d’una rivista culturale politica, manifestazioni, discussioni, teatro di strada. A 12 anni già recitava in una compagnia itinerante, poi formò un gruppo teatrale d’avanguardia, The Actors Gang. Corsi di teatro all’università di Los Angeles. Le prime apparizioni sullo schermo (anche in Top Gun) restarono inosservate. Nel 1988 è uno dei tre protagonisti di Bull Durham di Ron Shelton: gli altri due, nel film sul baseball, sono Kevin Costner e soprattutto Susan Sarandon di cui s’innamora appassionatamente per non lasciarla più.
Li unisce il sentimento, ma anche l’impegno politico e civile: tutti e due sono democratici militanti senza paura, onesti, tenaci, e ne offrono testimonianza anche con i film. In Jacob’s Ladder di Adrian Lyne, Tim Robbins è un reduce dal Vietnam ossessionato da allucinazioni; ne I protagonisti di Robert Altman è un produttore cinematografico omicida; ali della libertà di Frank Dareborit è la vittima di un errore giudiziario; in Mister Hula Hoop di Joel Coen è il simbolo di una paraboia accusatoria sul sistema capitalista, in Dead Man Walking dirige l’amico Sean Penn e Susan Sarandon in una storia contro la pena di morte. Nessuno a Hollywood è più coerente di lui. Su un unico punto preferisce tacere: agli inizi scriveva canzoni faceva il cantante, come il suo papà.
Da Lo Specchio, 27 marzo 2004