L'America come luogo di sogni che si avverano.
La regista, produttrice e sceneggiatrice taiwanese Shih-Ching Tsou ha saputo trasformare questa grande nazione nel terreno fertile della sua carriera.
Fin dal suo primo lungometraggio, co-diretto, co-scritto e co-prodotto con Sean Baker, con il quale ha stretto una fruttuosa collaborazione, ha segnato l'inizio di una generosa operazione che ha rilanciato il cinema indipendente in sala, convincendo fino in fondo le distribuzioni mondiali a rischiare su titoli capaci di raccontare le esistenze di chi sopravvive ai margini della società, ma che si sente comunque il re o la regina del mondo.
Tra pellicole girate interamente con un iPhone 5s e un lavoro da factotum (è stata anche costumista, scenografa, operatrice di ripresa e persino attrice contemporaneamente nel medesimo film), Shih-Ching Tsou ha fatto conoscere il suo nome accanto a quello di Baker e da lì ha semplicemente spopolato, grazie al fatto che l'America è anche luogo di festival. Tanti, forse persino troppi, ma pur sempre luoghi di rifondazioni e di speranze che si estendono anche fuori dai loro confini, verso appuntamenti internazionali come quelli di Cannes, che li fanno uscire con decine di premi in mano e con la possibilità di ottenere persino candidature agli Oscar.
Si salva così il cinema indie in sala: dimostrando che le mitiche rassegne undeground possono ancora tornare agli antichi fasti, soprattutto quando bisogna sostituire registi, ormai consacrati come autori, con nuovi nomi, nuove voci, ora un po' meno maschili e talvolta tutte al femminile, ma capaci di creare coraggiose innovazioni tecniche e narrative.
L'America, quindi, resta un luogo chiave del nostro cinema, quello in cui il dovere lirico e civile della bellezza ravviva la passione per la Settima Arte, grazie a coni di luce accesi per seguire storie ai bordi delle città dei sogni, creando aspettative per il nuovo film in uscita firmato dal regista o dalla regista che ci piacciono e che, nel caso di Shih-Ching Tsou, promette così bene, ma così bene da candidarsi per essere la nuova outsider che riflette con le sue opere su temi controversi, punti di vista diversi e pellicole bellissime da gustare.
Studi
Shih-Ching Tsou nasce e cresce a Taipei, in Taiwam. Dopo essersi laureata alla Fu Jen Catholic University, si trasferisce a New York City per acquisire un master in Media Studies alla New School.
La collaborazione con Sean Baker
Qui, nei primi Anni Duemila, conosce Sean Baker, quando entrambi gravitavano nell'ambiente del cinema indipendente newyorkese. Da quell'incontro è nata una partnership duratura, che l'ha fatta diventare una delle collaboratrici più strette di Baker, producendo gran parte dei suoi film successivi e mantenendo un ruolo fondamentale nel dare coerenza e autenticità alle sue storie.
Il debutto cinematografico
Cominceranno col realizzare assieme Take Out, pellicola del 2004, che rappresenta il primo grande successo di critica, soprattutto nel circuito del cinema indipendente.
Nonostante il budget ridottissimo (circa tremila dollari), il film ha colpito per il suo stile realistico e diretto, raccontando la giornata di un immigrato cinese senza documenti, che lavora come fattorino a New York e che deve racimolare in poche ore il denaro per saldare un debito con i trafficanti che lo hanno fatto entrare negli Stati Uniti.
La critica comincia ad apprezzare la scelta di attori non professionisti, la regia in stile cinéma vérité e la capacità dei due giovani registi di trasformare una storia quotidiana e invisibile in un racconto universale di precarietà e resistenza.
Presentato al Slamdance Film Festival, il film è stato definito una delle opere più autentiche e potenti del cinema indie americano di quegli anni, aprendo la strada a una più lunga collaborazione e consolidando la loro reputazione come autori capaci di farsi narratori delle storie di chi non vediamo.
Altri film con Sean Baker
Nel 2012, ci riprovano con Starlet, del quale Tsou è anche executive producer e costumista, ma il film che ha maggiore successo mondiale è Tangerine del 2015, dove lei stessa si ritaglia un piccolo ruolo, quello di Mamasan.
Considerato una delle intuizioni più brillanti di Shih-Ching Tsou come produttrice, ha contribuito a portare alla luce un film indipendente che ha rivoluzionato il modo di raccontare le periferie sociali con un risultato sorprendente.
Girato interamente con iPhone, il film (diretto da Sean Baker e prodotto dalla Tsou) ha raccontato con energia e ironia la vita di due donne della comunità transgender di Los Angeles, rompendo tabù e dando visibilità a una minoranza spesso ignorata dal cinema mainstream. Con una forza riconosciuta dalla critica per freschezza stilistica, potenza e capacità di trasformare un budget ridotto in un'opera vibrante e universale, il film è stato selezionato al Sundance e ha aperto nuove strade per il cinema underground, mettendo in luce la Tsou come produttrice capace di sostenere progetti audaci e di grande impatto culturale.
Dopo aver finanziato anche Snowbird (2016), co-produce Un sogno chiamato Florida, osannato come uno dei lavori più importanti e riusciti del cinema indie contemporaneo, anche perché, proprio grazie anche al contributo produttivo di Tsou, si è riusciti a trasformare un progetto con risorse limitate in un film carico di sensibilità e realismo verso la vita di famiglie ai bordi della società americana, vista con lo sguardo dei bambini. Bambini che crescono in un motel vicino a Disney World. Bambini come simboli di sogni e di contraddizioni.
La critica è in estasi. La capacità del progetto di unire poesia visiva e durezza sociale, la scelta di una fotografia vivace che contrasta con la precarietà dei protagonisti e la direzione attenta che ha portato Willem Dafoe a una candidatura all'Oscar come miglior attore non protagonista, frutta non solo la selezione del titolo a Cannes, ma anche numerosi riconoscimenti, che hanno fortificato la reputazione della sua produttrice nel dare coerenza e autenticità a una storia pizzicata sulle sue corde universali.
La prima regia in solitaria
Infine, dopo il buon successo di Red Rocket (2021), si prende una piccola pausa da Baker. E mentre lui firma Anora, lei dirige in solitaria (ma con il suo sostegno in altre fasi) La mia famiglia a Taipei (2025), un affresco urbano tenero e spietato su una famiglia taiwanese.
Mentre la madre single fronteggia i debiti gestendo un chiosco in un vivace mercato notturno e la sorella maggiore contribuisce con un lavoretto part-time, la bambina protagonista esplora con meraviglia la vita metropolitana (strade, bancarelle, luci) ma con un grande cruccio nell'anima: il divieto di usare la mano sinistra, nonostante sia mancina, perché è una mano malvagia.
Vincitore alla Festa del Cinema di Roma come miglior film, La mia famiglia a Taipei è stato apprezzato dalla critica per l'ottica intima sulla Taipei contemporanea con una sensibilità che, ancora una volta e così similmente a Baker, pone al centro gli strati più vulnerabili di questo nostro mondo, i suoi conflitti generazionali e le contraddizioni culturali.
Una lettera d'amore a Taiwan estremamente personale (la stessa Tsou è mancina quando esserlo significava essere malvisti e bisognosi di una "correzione"), ma anche un racconto d'infanzia che è un punto di partenza per il suo debutto alla regia. Una regia che pulsa come Taipei dopo il tramonto.