Rainer Werner Fassbinder. Data di nascita 31 maggio 1945 a Bad Wörishofen (Germania) ed è morto il 10 giugno 1982 all'età di 37 anni a Monaco di Baviera (Germania).
Fassbinder è un autore eccezionalmente prolifico che, in 36 anni di vita ma in soli 13 di attività, è riuscito a girare 40 film, scrivere una dozzina di commedie, firmare almeno 30 regie teatrali e vari adattamenti radiofonici, senza considerare la produzione letteraria. I suoi film sono arrivati in Italia tardi e male. Tardi, considerando che il primo film distribuito è Il Matrimonio di Maria Braun (1979, quando i primi lavori risalgono al 1965). Male, perché trova spazio solo dietro la nomea di artista maledetto, omosessuale, drogato. In realtà, Fassbinder è solo una personalità dotata di una particolare sensibilità che cerca nel cinema il punto d'origine di un profondo disagio: il senso di oppresione e di mancanza di libertà provocato dal rapporto con l'istituzione. Ma questa esigenza dello spirito diventa, nel cinema di Fassibinder, tutt'uno con la ricerca stilistica. É come se ogni conquista formale rappresentasse una parziale liberazione, anche se non il superamento, da un'angoscia. Non è un caso allora che il suo genere preferito sia il melodramma, dove la storia dell'autore, i riferimenti autobiografici, si pongono in perfetto equilibrio con la Storia e la parabola, in cui è più facile il passaggio dal piano privato a quello sociale. Il matrimonio di Maria Braun, ad esempio, è ambientato nell'immediato dopoguerra e racconta le vicissitudini di una donna che, costretta da difficoltà, restrizioni e umiliazioni, cerca con forza e determinazione di ricominciare. Alla fine, tra amori diversi, si renderà conto che la sua libertà, le scelte, l'autonomia sono solo apparenti. É una vicenda privata che diventa una palese metafora della Germania, della sua situazione politica ed economica. Così come in altri casi diversi ritratti femminili serviranno a descrivere la Germania bismarckiana (Effi Briest, 1974, dal romanzo di Fontane), quella degli anni Cinquanta (Veronika Voss, 1981) e Settanta (Un anno con tredici lune, 1978).
Un altro aspetto, per molti versi conseguente, che segna la poetica di Fassbinder è la visione della società capitalistica organizzata in classi distinte e condizionata dalle leggi di mercato. Una situazione che costringe all'emarginazione tutta una serie di figure sociali: terroristi, immigrati, cameriere, soldati, omosessuali sono i soggetti che il regista tedesco sceglie per misurare gli effetti dell'oppressione. Si tratta di una visione che, più che sulla politica, si sofferma sulle vicende umane. Lo si instuisce chiaramente in Germania in autunno (1978), quando per raccontare la situazione tedesca negli anni del terrosismo, Fassbinder si concentra sui gesti quotidiani, sul linguaggio familiare, sulle relazioni tra singoli, come a voler metter in risalto che l'unica politica che interessa tutti è quella dei sentimenti e che il credo sociale diventa interessante solo se influenza i rapporti personali.
«Rainer Werner Fassbinder è morto... oggi ho perduto un buon amico e la Germania un genio. Non avrei mai immaginato che sarebbe giunto il giorno in cui io, tanto più vecchio, mi sarei trovato a scrivere parole di lutto per un uomo di soli trenta-sei anni. La sua energia creativa, la sua vitalità parevano indistruttibili». Con queste affettuose parole, piene di stima, comincia il ricordo di Douglas Sirk Il regista che Fassbinder avrebbe voluto essere e al quale si è ispirato per comporre i suoi lividi, angosciosi, cupi melodrammi in cui le passioni e le emozioni sono strozzate dalle parole e dalle regole sociali, dai flash-back e dalla verità degli attori, dalla luce e dai tagli del montaggio. Da un cinema che continua a proporsi come specchio rotto della vita. Il 10 giugno del 1982 il regista muore nel suo appartamento di Monaco e con il “wunderkind”, il bambino prodigio del cinema tedesco del secondo dopoguerra, scompare uno dei protagonisti di quell’ultima onda del cinema europeo che perderà, rapidamente, la sua spinta, la sua originalità, la sua forza esplosiva. Fassbinder se ne va troppo presto, trascinato da una corrente impetuosa, da quelle rapide esistenziali che non lasciano scampo. Qualche mese prima della sua tragica fine aveva vinto il Festival di Berlino con uno dei suoi capolavori Veronika Voss e, con la velocità che aveva contrassegnato e connotato tutto il suo arco creativo, era riuscito a girare la sua ultima pellicola, il lancinante e bellissimo Querelle de Brest. Senza contare i testi teatrali, l’attività radiofonica e discografica o le interpretazioni in film diretti da altri, Fasbbinder lascia, in 13 anni (nel 1969 debutta, dopo due cortometraggi, con la sua opera prima L’amore è più freddo della morte), più di quaranta regie tra pellicole, video, sceneggiati, film per la televisione. Una filmografia ipertrofica, espansa, originale in cui cinema e Tv si intrecciano in maniera fertile (una coabitazione e una collaborazione tra i due media che hanno influenzato la nascita e lo sviluppo di tutto il cosiddetto “nuovo cinema tedesco”). Racconta in una delle molte e generose interviste: «Nei miei film ho lavorato secondo un’estetica del pessimismo, mentre in televisione secondo un’estetica della speranza». Naturalmente, analizzando trame e racconti scritti e diretti per la Tv, la chiave di lettura offerta da Fassbinder non è del tutto veritiera. Il futuro cineasta nasce 31 maggio del 1945 a Bad Wörishofen in Baviera. Il padre è un medico e la madre una traduttrice, la quale apparirà in numerosi film con gli pseudonimi Lilo Pempeit e Liselotte Eder. Lasciata la scuola senza conseguire la maturità liceale, Fassbinder studia recitazione, lavora nell’archivio di un quotidiano, cerca di iscriversi alla scuola di cinema di Berlino, ma non viene ammesso, entra a far parte dell’action-theater, fonda con un gruppo di attori tra i quali una delle sue muse, Hanna Schygulla, l’Antiteater. A cavallo tra gli anni 60 e gli anni 70 dirige Dèi della peste Attenzione alla puttana santa!, Il mercante delle quattro stagioni, Le lacrime amare di Petra von Kant rivelando un talento, una rabbia, una disperazione, un uso del linguaggio cinematografico che bruciano gli occhi degli spettatori. Il successo internazionale arriva nel 1978 con Il matrimonio di Maria Braun, dopo aver intrapreso con film come Tutti gli altri si chiamano Alì, Effi Briest, Il diritto del più forte, Despair la sua esplorazione del melodramma, la sua personalissima interpretazione del cinema di Douglas Sirk, che è considerato superiore a quello di Godard, Fuller e Fellini: «Ha girato i film più teneri che io conosca: sono i film di un uomo che ama la gente invece di disprezzarla». Anche Fassbinder ama nei suoi film gli uomini, le donne, i personaggi condannati all’infelicità, alla gelosia, alla delusione, al disincanto, a non essere mai corrisposti, all’intollerabile legge del potere e dell’oppressione. Il successo del Matrimonio di Maria Braun lo aiuta ad affrontare una riduzione televisiva (un modello di riferimento eccezionale) del romanzo Berlin Alexanderplatz e a continuare, con Lili Marleen, Lola e Veronika Voss, il suo dolente viaggio in un lunghissimo autunno in Germania. Purtroppo la morte lo ha afferrato proprio mentre egli stava dimostrando a se stesso che i film possono liberare la testa.
Da Film Tv, n. 22, 2005
Figlio di un medico e di una traduttrice, partecipa come attore e regista all’Action Teather un gruppo d’avanguardia di Monaco. Lì incontra alcuni dei suoi futuri collaboratori: Hanna Schygulla, Peter Raben e Kurt Raab; con essi fonderà l’Antiteater di cui ben presto diverrà il leader. Nel 1969 presenta al festival di Berlino, il suo primo lungometraggio L’amore è più freddo della morte, un’opera ricca di riferimenti al primo Godard e a Straub; seguiranno Katzelmacher e Gli dei della peste. Nel 1970 realizza per il cinema il suo dramma Il soldato americano, realizza Attenzione alla puttana santa: si tratta dell’opera che, in un certo senso, conclude il primo periodo della sua attività. Sulla scia dell’entusiasmo prodotta dalla visione di alcuni film di Douglas Sirk, Fassbinder inizia a ripensare il suo ruolo d’autore. Da questo ripensamento emerge la rivalutazione dell’ingenuità nel cinema hollywoodiano e in particolare nei melodrammi di Sirk.
Nel 1971 gira Mercante delle quattro stagioni storia di un perdente, girata interamente dal punto di vista del protagonista, il cui mutismo appare più assordante di un grido; accolto da un grande successo di critica il film mostra quanto il regista abbia assimilato e personalizzato la lezione di Sirk. Le lacrime amare di Petra von Kant (1972), traccia la relazione sentimentale tra una stilista di moda e una giovane di estrazione popolare, che presto l’abbandonerà per ritornare dal marito. La relazione omosessuale, giocata tra il raffinato e il dozzinale, svela una dialettica amorosa in cui i componenti tendono a vampirizzarsi a vicenda. Le difficoltà di una relazione sono anche al centro di La paura mangia l’anima (1973), storia di una vedova sulla sessantina, con un lavoratore marocchino molto più giovane di lei, che si presenta come una variante di Secondo amore di Sirk; in entrambi un amore socialmente impossibile, suggellato con il matrimonio, scatena il disprezzo dei figli: se tuttavia Sirk descrive essenzialmente la meschinità di una cittadina americana di provincia, Fassbinder indaga anche l’interno della coppia, per rintracciare le crepe che la chiusura o l’accettazione interessata dell’ambiente producono nella reciproca fiducia dei protagonisti. Con Martha, incentrato sul sadomaochismo delle relazioni matrimoniali, il regista anticipa la tematica di Effi Brest, di cui il film, in un certo senso, costituisce la variante “horror”. Tratto dall’omonimo romanzo di Fontane, quest’ultimo, magistralmente interpretato da Hanna Schygulla, è il più stilizzato e controllato film di Fassbinder e costituisce il suo maggior successo di pubblico prima di Il matrimonio di Maria Braun. Interpretato dallo stesso regista, Il diritto del più forte (1974) porta a compimento la trilogia sull’educazione nella coppia iniziata con Martha: questa volta ad essere “educato” sarà Fox, un giovane proletario omosessuale che dopo aver vinto 500.000 marchi alla lotteria si innamora di Eugen, figlio di un piccolo industriale che vorrebbe riplasmarne modi e mentalità per adeguano alla sua nuova condizione sociale. Il rapporto fra i due arriva fatalmente al punto di rottura: ritrovatosi solo e povero come all’inizio, Fox si suicida. Lucidamente estranea ad ogni utopia omosessuale, l’opera fu contestata dalle associazioni gay tedesche che la interpretarono riduttivamente, come un film sugli omosessuali. Remake di un’opera di Jutzi del 1927, Il viaggio in cielo di Mamma Kusters (1975), si rivela il film politico di un regista estraneo alla politica che ha il difetto/pregio di non ricadere in alcun schema ideologico e di scontentare tutti. Voglio so/o che mi amiate (1976), prodotto dalla televisione e basato su un fatto realmente accaduto, nella sua rappresentazione delle violente conseguenze di una mancanza d’amore, è uno dei più semplici e personali di Fassbinder, mentre Nessuna festa per la morte del cane di Satana sfrenata e provocatoria farsa nichilista sull’intellettuale piccolo-borghese, rappresenta la sua opera più eccentrica. Diverso ma tutto sommato proveniente dalla stessa atmosfera “nera” è Roulette cinese (che assieme al precedente e a Despair forma una trilogia sui generis sul tema della schizofrenia e della falsa coscienza borghesi). Quest’ultimo, girato in inglese con attori di fama internazionale (Bogarde e Ferreol) e tratto da un romanzo di Nabokov, narra la complessa storia della perdita d’identità di un ricco emigrato russo che, nella Germania di Weimar, pensa di realizzare il delitto perfetto uccidendo un suo presunto “sosia”: girato splendidamente e ben interpretato il film apre il cammino, tematico e produttivo, all’ultima fase dell’attività del regista, che si costituisce come un’approfondita riflessione sulla vita tedesca nel periodo che precede e segue il nazismo, cui fanno da contrappunto alcuni splendidi film a basso costo, più sperimentali e maggiormente legati all’attualità. Fra questi segnaliamo il coraggioso episodio di Germania in autunno(1978), convulso tentativo di definire “il politico” attraverso il “privato” durante gli anni di piombo tedeschi e il disperato In un anno con 13 lune, autentico capolavoro, di cui Fassbinder firma sceneggiatura, regia, scenografia, fotografia e montaggio. Realizzato dopo il suicidio dell’amico Armin Meier, il film racconta gli ultimi cinque giorni del transessuale Elvira, ed è forse l’opera più radicale di tutta la filmografia fassbinderiana. Avvicinabile per la sua ispirazione privata a Il diritto del più forte, il film elabora nuove possibilità di uso dell’immagine e del suono, della visione polifonica e della narrazione, schiudendo allo spettatore le porte di un cosmo che poi dovrà egli stesso conquistare. Il matrimonio di Maria Braun, affascinante apologo postbrechtiano sul dopoguerra e la ricostruzione, segna la definitiva consacrazione del regista e della protagonista presso il pubblico internazionale: melodramma raffreddato da una narrazione asciutta e diretta, Il matrimonio è un film insieme intellettuale e popolare, la storia di una donna che è anche metafora di una nazione, Berlin Alexanderplatz (1980) sceneggiato in sole 15 ore, co-prodotto dalla televisione italiana e tratto dal torrenziale romanzo di Doblin, fu accolto con entusiasmo alla Biennale di Venezia del 1980. Questo devastante capolavoro che narra con una infinita varietà di toni e una grandezza solitamente riservata agli eroi, le insignificanti vicende di un ex-detenuto e dei suoi amici nella Germania di Weimar, è soprattutto il tentativo di rendere l’epopea di un’epoca in cui i temi e problemi si riflettono continuamente nell’oggi.
Dopo Berlin,Fassbinder torna al cinema con una galleria di ritratti femminili che si riallacciano a Maria Braun; se il primo, Lili Marleen, si presenta come uno scintillante fotoromanzo al alto costo, tratto dalle memorie di una cantante di successo, durante il regime nazista, e il secondo, Lola, come una balzachiana incursione negli intrecci fra politica, speculazione edilizia e sesso negli anni della ricostruzione adenaueniana, il terzo, Veronica Voss, vincitore al festival di Berlino dell’82, ispirato al suicidio dell’attrice Sybille Schmits (ma anche da qualche atmosfera dei wildeniani Viale del tramonto e Fedora) pone al suo centro la figura di una diva d’anteguerra che si aggira come un fantasma nella Germania del miracolo economico. Segue lo straordinario Querelle. Quest’ultimo, tratto dal romanzo di Genet e presentato postumo alla Biennale dell’82, si offre come un visionario testamento e consacra definitivamente la fama internazionale di Fassbinder come autore “maledetto’.
Brucia la sua vita a 36 anni, per una overdose. Ha sperimentato un cinema politicamente ribelle, narrativamente assurdo, pateticamente compromesso con i lati più disperati della vita e della società tedesca. Figlio di un medico, che divorzia dalla moglie quando lui ha cinque anni, Fassbinder vive con la madre e, durante le sue frequenti assenze per lavoro, si nutre di cinema. Respinto da una scuola di cinema, si dedica al teatro, fondando con alcuni attori (Hanna Schygulla in testa) un gruppo di avanguardia, l'Antitheater. Al cinema giunge per la scorciatoia del cortometraggio, negli anni in cui si va organizzando un (innovamento della cultura e della estetica (sotto la bandiera del “Junger Deutscher Film”). Il primo film s'intitola - basta il titolo per comprendere L'amore è più freddo della morte (1969): un melodramma che esaspera i toni dello sperimentalismo (Straub, Godard, gli americani) calandoli nella realtà degradata di un mondo borghese in espansione e in crisi.
Tutti i film successivi si muovono su questo terreno, con questo stile. Curioso è Attenzione alla puttana santa (1970), film sul cinema. Straziante di verità e di passione è Tutti gli altri lo chiamano Alì (o anche, traducendo approssimativamente, La paura mangia l'anima, 1973). Stranamente compassato e figurativamente bellissimo è Effi Briest (1974), riduzione di un grande piccolo romanzo di Theodor Fontane. Più avanti, costretto a tener d'occhio anche le ragioni del botteghino e ansioso di ricevere un plauso più diffuso, sa tradurre la sua vena ribellistica in forme meno avventurose, più «normali» e spettacolarmente efficaci, come Il matrimonio di Maria Braun (1978), intensa interpretazione di Hanna Schygulla, Lili Marleen (1980), di nuovo la Schygulla, Veronica Voss (1982), storia amara di una diva del cinema che procura al regista, qui attento ad ogni sfumatura psicologica, l'Orso d'oro al festival di Berlino. Con Querelle de Brest (1982), apologia spavalda e barocca della omosessualità, si concludono la filmografia e la vita di un corrucciato, irritante, aggressivo e luminoso regista tedesco.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Il mattino del 10 giugno 1982, nel suo appartamento a Monaco di Baviera, il corpo senza vita di Rainer Werner Fassbinder giaceva davanti al televisore acceso. La morte lo aveva ghermito mentre, al solito, stava facendo troppe cose: guardare un film videoregistrato, fumare una sigaretta dopo l'altra, ingerire liquori, tranquillanti e stupefacenti, riempire di note un copione, uno dei tanti cui stava lavorando e che teneva ancora in mano. Da dieci giorni aveva compiuto 37 anni: tutti scrissero 36 ma non sapevano che se n'era tolto uno per vincere la scommessa di realizzare trenta film entro i trent'anni. Alla fine sarebbero stati quaranta per il cinema e la televisione - più le tredici puntate con epilogo di Berlin Alexanderplatz - in meno di tredici anni: il cineasta più prolifico del mondo.
Dieci anni sono passati da quel triste giorno. Dopo il festival di Berlino '92, che non s'è nemmeno accorto della ricorrenza, e in attesa delle manifestazioni annunciate per il decennale in Germania (che per la verità ha molto da farsi perdonare nei suoi confronti), una rassegna fassbinderiana comprensiva anche del suo teatro ha percorso l'Italia da Milano a Roma, da Urbino a Pesaro. Con Wenders e con Herzog, Fassbinder costituiva la pattuglia di punta del nuovo cinema tedesco, ma con questa differenza: che i primi due lavorarono prevalentemente all'estero mentre lui, nonostante ogni ostilità, rimase abbarbicato alla Repubblica federale. Oggi quel cinema non esiste più: non solo perché non c'è Fassbinder, ma perché Wenders e Herzog non sono più quelli degli anni Settanta. La Germania si è riunificata, ma il suo cinema si è frantumato; e certamente un corpus come quello fassbinderiano, così eccedente e caotico ma anche così fondamentalmente unitario, ha fatto capire anche a chi non amava particolarmente quello smodato e irritante terzo uomo, che con la sua scomparsa si è effettivamente perduto qualcosa di molto vitale.
Da quale impulso nasceva la sua micidiale frenesia di lavoro? Senza dubbio dalla necessità di rispondere all'orrore dell'esistenza, di sentirsi vivo in un mondo avviato all'autodistruzione. Fassbinder era affascinato dalla quantità esattamente come dalla qualità. Del resto non si erano forse attribuite cinquecento commedie a Calderòn e addirittura quasi un migliaio a Lope de Vega? Glielo diceva nel fatale incontro ad Ascona il suo idolo e vecchio maestro Douglas Sirk, colui che in gioventù aveva saputo imporre il melodramma d'amore nella Germania nazista per poi trasferirlo gloriosamente a Hollywood. Gli occhi di R.W. brillavano ma egli sapeva benissimo che non avrebbe avuto a disposizione il tempo di quei classici. Spinto dalla disperazione, lavorò tuttavia sodo «come un normale lavoratore tedesco». Proprio questo modo di vivere e di lavorare, però, lo ha ucciso. Al momento della morte sono andati a ricercare alcol e droga, ma la vera causa è. che aveva già accumulato una tale overdose di attività (perché oltre al cinema c'era la televisione, oltre al teatro la radio, oltre al regista l'attore) da bastare per una vita ben più lunga della sua.
Che cosa significa I film liberano la testa, il titolo scelto per la raccolta dei suoi scritti sul cinema (tradotti nel 1988 da Ubulibri)? Di solito si pensa il contrario: che i film la testa la riempiono. Ma per Fassbinder i film del venerabile Sirk avevano il pregio di risolversi totalmente sullo schermo e quindi di "liberare la testa" dello spettatore dall'incombenza di interpretarli. "Risolversi" come? Attraverso i mezzi del cinema: la sua magia, l'uso espressivo degli oggetti e della luce, le contraddizioni dei personaggi elevate all'ennesima potenza, gli eccessi mai tanto benedetti e funzionali del melodramma. C'è della verità ma anche del paradosso; e del resto chissà se i film di Sirk piacerebbero altrettanto, se Fassbinder non li raccontasse e interpretasse alla sua maniera così accattivante.
Nell'inverno tra il 1970 e il '71, aveva visto a Monaco sei film hollywoodiani di Sirk e gli erano apparsi «i più belli del mondo». Aveva quindi voluto conoscere di persona il loro autore, andandolo a trovare nella Svizzera italiana dove si godeva la pensione. Non fu un padre per lui semplicemente perché, tra padre e figlio, di regola c'è conflittualità. Invece tra lui e Sirk ci fu amore a prima vista. Tra l'anziano signore dolce, tagliente, coltissimo e il debordante guastatore del nuovo cinema tedesco capace anche di sette titoli l'anno, si aprì un dialogo benefico.
Quale fu l'effetto Sirk su Fassbinder? Questo: dal regista di Come le foglie al vento e Lo specchio della vita, due film che più hollywoodiani non si può, l'autore di tanto aggressivo "disordine" a basso costo apprese a modificare qualcosa che nel suo cinema andava modificato. Apprese cioè a migliorarlo comprimendone l'eccesso autobiografico e mimetico, a controllarlo rendendo1o più oggettivo e distanziato. Non tanto in senso brechtiano (anche se Brecht non cessava di influire) quanto proprio nel senso della appetibilità e incisività spettacolare. Nel suo turbine produttivo, Fassbinder mirerà sempre più a un cinema quanto mai tedesco, eppure fatto come Hollywood comanda. Una contraddizione alla Sirk? Ma prima di chiamarsi Douglas Sirk, Detlef Sierck aveva appunto lavorato a melodrammi tedeschi nella Germania di Hitler, senza macchiarsi di compromessi col regime.
Tutto ciò era miele per l'orso Fassbinder, al quale la Germania in cui viveva non risultava affatto più vivibile. Eppure ci rimase. Ci rimase anche dopo il successo internazionale del '78 con Il matrimonio di Maria Braun che gli apriva tutte le strade. Ci rimase anche quando era diventato così bravo e sicuro dei propri mezzi, da poter emigrare a Hollywood. Minacciò di farlo, ma rimase perfino quando lo attaccarono per antisemitismo e razzismo, lui campione e cavaliere di tutti i "diversi". Ci rimase e continuò imperterrito a distribuire i propri film attraverso l'associazione degli autori tedeschi. Anche se I film liberano la testa documenta come la testa di troppi tedeschi restasse piena di pregiudizi.
Il libricino dei suoi scritti si apre col saggio Imitation of life sul cinema del maestro e si chiude con una breve nota a un progetto di film su Rosa Luxemburg, buttata giù il giorno prima di morire. «A Rosa non importava tanto la Polonia - scrive - quanto la totalità dei problemi». Leggendo questi piccoli saggi, si capisce meglio l'uomo e anche il narratore. Il capitolo più lungo è una variante appassionata della trama di Un anno con 13 lune, migliore del film che nel 1978 gli era stato dettato dal suicidio di un suo amante. Una volta promise anche un romanzo, e oggi a tutti dispiace che non l'abbia neanche iniziato. E ci sono altri pezzi interessanti. Il profilo di Hanna Schygulla: com'erano giovani entrambi, quando nel '71 portarono Katzelmacher a Karlovy Yary! La requisitoria contro Claude Chabrol, che crede di essere un entomologo ed è soltanto un cattolico (Chabrol prolifico quasi quanto lui ma, a differenza di lui, senza passione né compassione). Le riflessioni su Döblin e Berlin Alexanderplatz. La difesa dell'omosessualità generosa di Werner Schroeter. Il tentativo altrettanto generoso di dipingere Michael Curtiz, che non fu soltanto il regista di Casablanca, come un anarchico a Hollywood. Tutto ciò è molto personale, salutarmente provocatorio e contraddittorio, e con lampi di genialità, come i suoi film.
Anche prima dell'incontro-rivelazione con Douglas Sirk, Fassbinder aveva previsto da solo la necessità d'una svolta. In questo senso il film chiave è Attenzione alla puttana santa, che non peir niente è un film sul cinema. Siamo ancora in pieno 1970, l'anno dei sette titoli. Quattro anni dopo, in un'intervista, egli spiegava il. suo superlavoro con questa bellissima frase: «Tutto quello che vivo devo poi trasformarlo in qualcosa che mi dia la sensazione d'averlo vissuto realmente». E qui forse è la vera interpretazione del suo cinema, come della sua vita e della sua morte.
Una volta, in un'intervista televisiva romana, a Fassbinder scappò il nome di Balzac; e davvero si può pensare a lui come a un piccolo Balzac bavarese. Ci ha lasciato infatti, film dopo film, la storia o, meglio, la coscienza storica e critica della Germania del dopoguerra e del miracolo economico vista in controluce, ossia vista attraverso i disastri psicologici e morali, lo sfruttamento sociale e razziale che questo benessere è costato. Egli analizza sul piano della persona e dei suoi sentimenti, comportamenti e condizionamenti gli effetti devastanti del mancato esame autocritico dei tedeschi. In qualche caso tornando indietro, nelle sue stilizzazioni, alla vecchia Prussia di Effì Briest, alla repubblica di Weimar e al nazismo. Ma in genere legando il passato al presente e cogliendo l'autoritarismo e il potere nei rapporti interpersonali. Rapporti di dominio che non dividono soltanto le classi, ma lacerano e annientano ogni individuo all'interno di qualsivoglia ceto o sesso; e anzi, proprio il vincolo omosessuale è la spia più feroce del fatto che, anche in amore, esiste sfruttamento e classismo, che c'è sempre un dominatore e un dominato, un carnefice e una vittima. Dal primo film del 1969, che portava il titolo eloquente L'amore è più freddo della morte, all'ultimo e postumo del 1982, Querelle - l'unico nella storia dei festival che provocò la rivolta di un presidente, Marcel Carné, verso la sua giuria che non aveva osato premiarlo a Venezia -, questo leit-motiv segna in modo glaciale e straziante tutto il cinema di Fassbinder.
Quando nel 1978 venne prodotto il film collettivo Germania in autunno, il pezzo autobiografico ed esibizionistico dell'attore-autore che si mostrava nella nudità della sua nevrosi e della sua impotenza, in quel gusto impietoso di ribalderia e di tenerezza, di lucido pessimismo e di rovente cupio dissolvi, poteva apparire incongruo rispetto al quadro "politico" che l'insieme cercava di fornire. In realtà vi apparteneva più degli altri brani "oggettivi". Quella confessione intellettuale e umana a tutto campo era, nonostante il soggettivismo esasperato e l'anarchismo individualistico, il brandello di storia insieme più provocatorio e più autentico. Anche perché in una di quelle stanzette spoglie, senza segnale di "proprietà" e tanto meno di calore, dove anche i libri sono annullati dal televisore e dal telefono, proprio lì dove l'artista si dibatteva come un'anima dannata, lo avrebbero rinvenuto esanime, ma tutto'altro che pacificato, una mattina di quattro anni dopo.
Rammentiamo il primo incontro al festival di Karlovy Vary '71, quando venne presentato Katzelmacher, il suo secondo film girato nel '69. Davvero non fu difficile accorgersi che un nuovo regista tedesco era nato. Katzelmacher, alla lettera "fabbricante di gattini", è sempre stato il termine spregiativo riservato dai tedeschi ai lavoratori stranieri. Lo adoperavano prima della prima guerra mondiale per gli italiani che vendevano gatti di gesso, e dopo la seconda per la presunta facilità con cui gli immigrati - italiani, greci o marocchini - ingravidavano le ragazze locali.
Il "terrone" preso di mira era appunto un greco, impersonato dallo stesso regista ch'era anche l'autore della commedia, mentre in Angst essen Scele auf («Paura mangiare anima») è un marocchino barbuto e nerissimo che parla tedesco in terza persona e coi verbi all'infinito, e che unisce la solitudine propria a quella di una donna ariana che, per età, potrebbe essergli madre. Fu questo film, il suo diciannovesimo, premiato dalla critica internazionale al festival di Cannes '74, a costituire la prima rivelazione europea di Fassbinder. La seconda e decisiva si sarebbe avuta nel '78 con Il matrimonio di Maria Braun e senza bisogno di festival.
Emarginati, emigrati, irregolari, omosessuali: questa la fascia di umanità di cui, con forti accenti autobiografici, Fassbinder è stato il cantore ossessionato e disilluso. Raramente girava in
esterni, perché la natura finisce per essere rassicurante mentre il paesaggio concentrazionario della civiltà metropolitana non offre speranza di evasione. Il suo cinema è claustrofobico, artificiale e spietato; se è politico lo è in modo derisorio, come il terrorismo di Terza generazione (1979), che anche formalmente, è impossibile da rappresentare: cosicché alla maniera di Godard il regista scarica sullo spettatore i comunicati dei telegiornali, non in alternanza ma in concomitanza con i dialoghi tra i personaggi.
Un crudele gioco sadomasochista domina l'universo fassbinderiano e non risparmia alcun ambiente, da quello più vicino alla realtà quotidiana a quello culturalmente più trasfigurato, da quello borghese o piccolo-borghese a quello proletario o sottoproletario. Se nella società non esiste equilibrio dei rapporti affettivi, perché dovrebbe esserci nei film? Fassbinder non può mentire sul proprio mestiere (Attenzione alla puttana santa, 1970) come sulle proprie passioni: da Le lacrime amare di Petra von Kant (1972) che traspone in campo femminile il tema dell'omosessualità, a Il diritto del più forte (1974) di cui è protagonista nella parte del più debole; da Nessuna festa per la morte del cane di Satana (1976) a Un anno con 13 lune (1978), fino a Querelle (1982) che resta il suo testamento. Omosessualità o transessualità, identificazione o sdoppiamento dimostrano implacabilmente la medesima impossibilità d'amare; per nessuna via, neanche la più tortuosa, si sfugge alla comune catastrofe.
Certo, nei suoi melodrammi "distanziati", la distanza è maggiore quando il mondo è borghese e l'autore lo avvolge di cinismo e di disprezzo come in Roulette cinese (1976). Per i semplici e i derelitti scatta invece, nel post-romantico Fassbinder, la molla di una fiammeggiante solidarietà, come nel colossale Berlin Alexanderplatz (1980) e, prima ancora, in Paura mangiare anima e nel Viaggio in cielo di Mamma Küsters (1975), dove la disfatta non è esistenziale ma politica, e l'autore si lascia commuovere dal destino della protagonista al punto di escogitare un doppio finale: in uno la vedova sopravvive, sia pure assolutamente sola.
La formula "unità nella diversità" potrebbe servire a caratterizzare anche l'opera complessiva di questo vulcanico artista, ma senza alcuna pretesa di un cammino lineare e coerente. Anzi la sua strada è lastricata di contraddizioni come quella di Pasolini. Nel giugno 1978 Fassbinder rifiuta il premio statale per Germania in autunno, che vede il suo ritorno all'autobiografismo esibito, ma nel febbraio 1982 accetta l'Orso d'oro del festival di Berlino per Veronika Voss: in entrambi i casi senza dare spiegazioni. Può darsi che in quest'ultima circostanza si sia sentito meno personalmente compromesso, nel senso che la vicenda del film è lontanamente ispirata a quella, emblematica e "storica", dell'attrice Sybille Schmitz, valorizzata da Dreyer in Vampyr ma poi avversata da Goebbels nella sua carriera tedesca. Questa donna aveva lottato e sofferto sotto il nazismo, esaurendo così le proprie capacità di resistenza. Nel dopoguerra, al primo contatto con una realtà non meno dura, si sentì finita, e per questa ragione si tolse la vita.
Bisogna dire che Fassbinder condivide con particolare sensibilità il destino di umiliazione e di sconfitta della donna, tanto spesso protagonista dei suoi film. Questo cineasta che vedeva affondare con sé tutto il paese, ha tuttavia saputo disegnare una serie di ritratti femminili capaci di emergere dall'abisso, se non altro moralmente, con la sincerità del loro carattere e la verità delle loro sofferenze. Non per nulla il volto ricorrente del suo cinema è quello di Hanna Schygulla. E non per nulla, nel peno-do in cui girava un film in un paio di settimane, il regista dedicò un paio d'anni a Effi Briest (1972-'74); trovando nell'eroina dello splendido romanzo di Theodor Fontane, che lo scrisse da vecchio verso la fine del secolo scorso (ed è, in effetti, l'unico film "in costume" di Fassbinder), la prima vittima della società maschilista. Col tempo avrebbe perfino rallentato i suoi ritmi alla catena di montaggio, per riservare maggiore attenzione alla donna. Da Petra von Kant a Mamma Misters, da Maria Braun a Lola e a Veronika Voss - passando per Lili Marleen che però, essendo un film miliardario, è anche il meno convincente di tutta la sua carriera - la scelta di campo è piuttosto precisa. È l'ultimo non trascurabile segno di una predilezione fattasi ormai ineluttabile e sovrana. E non è affatto un caso che l'ultimo personaggio al quale abbia pensato, vergando una serie di appunti il giorno prima della fine, fosse quello di Rosa Luxemburg.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006