Massimo Troisi è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 19 febbraio 1953 a Napoli (Italia) ed è morto il 4 giugno 1994 all'età di 41 anni ad Ostia (Italia).
Viene subito in mente una battuta, tra lamentosa e buffa: “Perché siete tutti così sinceri con me? Cosa vi ho fatto di male?”. E un'altra: “Non emigrante, però, non emigrante”, ripetuta con l'insistenza di chi vuole smentire un destino storico o un luogo comune appiccicoso. Oppure lo rivedi quando, appoggiato a una porta, desolato, furente e insieme coraggiosamente conciliante, in Ricomincio da tre provava il suono del nome d'un futuro figlio, magari neanche suo: “Ugo. Ugo. Ugo.”. Tra i nuovi comici italiani di gran successo popolare, milanesi, romani, toscani, emiliani, era il solo napoletano, il solo erede d'una tradizione meravigliosa (però più vicino a Eduardo De Filippo che a Totò) e uno dei pochi capaci di raccontare la confusione, l'incertezza, la precarietà contemporanee nella vita delle persone giovani senza svenderla, senza incanaglire la realtà, senza involgarirsi nel turpiloquio, senza incarognirsi nella facilità. Tra i comici divenuti registi di se stessi e d'altri, era il meno disposto a ostentare vanagloria, sicumera, invidie, onnipotenza, disprezzo concorrenziale verso i propri simili; tra i comici più amati dagli spettatori italiani era fisicamente il più bello, il più riuscito come interprete anche di film altrui. Ed era bravo: i suoi dubbi, borbottii, inciampi, interrogativi, esitazioni, sospensioni, riuscivano più eloquenti delle battute brillanti, scattanti, pulite, spietate. Dopo il primo Ricomincio da tre, diretto a ventotto anni nel 1981, Troisi ha fatto pochi film, soltanto quattro, e spiegava bene perché: “Dipende essenzialmente da due motivi, la pigrizia e il pudore. Meglio, una pigrizia inquinata dalla paura della banalità e della superficialità: tutte le storie che invento mi sembrano sempre modeste, un po' inutili...”. All'inizio alla regia neppure pensava, progettava al massimo d'essere attore, ha scritto per I nuovissimi, il libro di Franco Montini; a un certo punto del suo lavoro televisivo e teatrale gli era venuta voglia di scrivere qualcosa di più che brevi monologhi o piccoli atti unici; Ricomincio da tre l'aveva immaginato come spettacolo da palcoscenico, lo convinsero a farne una sceneggiatura; per il film non si trovava il regista giusto (“la produzione non si fidava di un esordiente e io avevo paura di uno famoso”), finì per dirigerlo lui, “con spirito quasi donchisciottesco, con l'assoluta consapevolezza che c'erano molte buone probabilità che potesse andare male, con il conforto di pensare che, comunque, sarei potuto tornare al mio amato teatro”. Ricomincio da tre e Scusate il ritardo (1983) hanno per protagonista lui, ragazzo napoletano senza lavoro, ansiosamente imbranato nelle cose d'amore e spaventato dalle ragazze razionali e decise, impazientemente riottoso verso la famiglia d'origine eppure incapace di separarsene del tutto e di non rinnovarne i tic, straccamente trascinantesi con gli amici nel tempo della vita vuota. Non ci resta che piangere (1984), diretto e interpretato insieme con Roberto Benigni, ambientato per magia anche alla fine del Quattrocento, è uno scherzo mezzo riuscito e mezzo no. Le vie del Signore sono finite (1987) resta il più singolare tra i film di Troisi, una vicenda italiana sotto il fascismo, la storia di uno immobilizzato da una paralisi psicosomatica che riesce per amore a rimettersi in piedi: da molti venne giudicato incongruo, inesplicabile, ma non lo era poi tanto dato che il suo tema centrale risultava la malattia, quella malattia contro cui Troisi combatteva già da tempo andando a farsi operare al cuore negli Stati Uniti, tentando vanamente di avere cautela, di risparmiarsi. Pensavo fosse amore invece era un calesse, 1991, l'ultimo suo film, era una commedia antinuziale intelligente, ricca di grazia ironica e di sincerità sentimentale, un'analisi giustissima e divertente dell'impossibilità amorosa nella generazione trentenne: “Io non è che sono contrario al matrimonio, ma mi pare che un uomo e una donna siano le persone meno adatte a sposarsi”. Troisi attore è stato molto bravo soprattutto nei film di Ettore Scola, che ha il merito di averlo capito e valorizzato come interprete. In Hotel Colonial di Cinzia Torrini era bello, con la sua abbronzatura e la sua canottiera da italiano emigrato nel rischioso esotismo latinoamericano, ostinato a insegnare il calcio ai ragazzi locali. Ma in Che ora é di Scola formava con Marcello Mastroianni una coppia padre-figlio finissima, malinconica e conflittuale: recitando molto bene l'aggressività sotterranea e ricattatoria del figlio insicuro, anticonsumista, anticarrierista, vittimista e tuttavia molto simpatico, mentre Mastroianni irrideva e riduceva con la propria recitazione masochista il personaggio del padre ricco, invadente, carrierista, consumista, maschilista e pure lui simpatico. La coppia, simile con varianti di emozioni e di ruolo (proprietario di cinema-proiezionista) era la stessa in Splendor, ma Massimo Troisi appariva soprattutto memorabile in un altro film di Scola del 1989, Il viaggio di Capitan Fracassa, come narratore dell'esistenza vagabonda dei comici, come Pulcinella sentimentale, divertente, saggio. E un poco triste: “Il teatro procura gioia a tutti, tranne a chi lo fa”.
Da La Stampa, 5 Giugno 1994
Viene subito in mente una battuta, tra lamentosa e buffa: “Perché siete tutti così sinceri con me? Cosa vi ho fatto di male?”. E un'altra: “Non emigrante, però, non emigrante”, ripetuta con l'insistenza di chi vuole smentire un destino storico o un luogo comune appiccicoso. Oppure lo rivedi quando, appoggiato a una porta, desolato, furente e insieme coraggiosamente conciliante, in Ricomincio da tre provava il suono del nome d'un futuro figlio, magari neanche suo: “Ugo. Ugo. Ugo.”. Tra i nuovi comici italiani di gran successo popolare, milanesi, romani, toscani, emiliani, era il solo napoletano, il solo erede d'una tradizione meravigliosa (però più vicino a Eduardo De Filippo che a Totò) e uno dei pochi capaci di raccontare la confusione, l'incertezza, la precarietà contemporanee nella vita delle persone giovani senza svenderla, senza incanaglire la realtà, senza involgarirsi nel turpiloquio, senza incarognirsi nella facilità. Tra i comici divenuti registi di se stessi e d'altri, era il meno disposto a ostentare vanagloria, sicumera, invidie, onnipotenza, disprezzo concorrenziale verso i propri simili; tra i comici più amati dagli spettatori italiani era fisicamente il più bello, il più riuscito come interprete anche di film altrui. Ed era bravo: i suoi dubbi, borbottii, inciampi, interrogativi, esitazioni, sospensioni, riuscivano più eloquenti delle battute brillanti, scattanti, pulite, spietate. Dopo il primo Ricomincio da tre, diretto a ventotto anni nel 1981, Troisi ha fatto pochi film, soltanto quattro, e spiegava bene perché: “Dipende essenzialmente da due motivi, la pigrizia e il pudore. Meglio, una pigrizia inquinata dalla paura della banalità e della superficialità: tutte le storie che invento mi sembrano sempre modeste, un po' inutili...”. All'inizio alla regia neppure pensava, progettava al massimo d'essere attore, ha scritto per I nuovissimi, il libro di Franco Montini; a un certo punto del suo lavoro televisivo e teatrale gli era venuta voglia di scrivere qualcosa di più che brevi monologhi o piccoli atti unici; Ricomincio da tre l'aveva immaginato come spettacolo da palcoscenico, lo convinsero a farne una sceneggiatura; per il film non si trovava il regista giusto (“la produzione non si fidava di un esordiente e io avevo paura di uno famoso”), finì per dirigerlo lui, “con spirito quasi donchisciottesco, con l'assoluta consapevolezza che c'erano molte buone probabilità che potesse andare male, con il conforto di pensare che, comunque, sarei potuto tornare al mio amato teatro”. Ricomincio da tre e Scusate il ritardo (1983) hanno per protagonista lui, ragazzo napoletano senza lavoro, ansiosamente imbranato nelle cose d'amore e spaventato dalle ragazze razionali e decise, impazientemente riottoso verso la famiglia d'origine eppure incapace di separarsene del tutto e di non rinnovarne i tic, straccamente trascinantesi con gli amici nel tempo della vita vuota. Non ci resta che piangere (1984), diretto e interpretato insieme con Roberto Benigni, ambientato per magia anche alla fine del Quattrocento, è uno scherzo mezzo riuscito e mezzo no. Le vie del Signore sono finite (1987) resta il più singolare tra i film di Troisi, una vicenda italiana sotto il fascismo, la storia di uno immobilizzato da una paralisi psicosomatica che riesce per amore a rimettersi in piedi: da molti venne giudicato incongruo, inesplicabile, ma non lo era poi tanto dato che il suo tema centrale risultava la malattia, quella malattia contro cui Troisi combatteva già da tempo andando a farsi operare al cuore negli Stati Uniti, tentando vanamente di avere cautela, di risparmiarsi. Pensavo fosse amore invece era un calesse, 1991, l'ultimo suo film, era una commedia antinuziale intelligente, ricca di grazia ironica e di sincerità sentimentale, un'analisi giustissima e divertente dell'impossibilità amorosa nella generazione trentenne: “Io non è che sono contrario al matrimonio, ma mi pare che un uomo e una donna siano le persone meno adatte a sposarsi”. Troisi attore è stato molto bravo soprattutto nei film di Ettore Scola, che ha il merito di averlo capito e valorizzato come interprete. In Hotel Colonial di Cinzia Torrini era bello, con la sua abbronzatura e la sua canottiera da italiano emigrato nel rischioso esotismo latinoamericano, ostinato a insegnare il calcio ai ragazzi locali. Ma in Che ora é di Scola formava con Marcello Mastroianni una coppia padre-figlio finissima, malinconica e conflittuale: recitando molto bene l'aggressività sotterranea e ricattatoria del figlio insicuro, anticonsumista, anticarrierista, vittimista e tuttavia molto simpatico, mentre Mastroianni irrideva e riduceva con la propria recitazione masochista il personaggio del padre ricco, invadente, carrierista, consumista, maschilista e pure lui simpatico. La coppia, simile con varianti di emozioni e di ruolo (proprietario di cinema-proiezionista) era la stessa in Splendor, ma Massimo Troisi appariva soprattutto memorabile in un altro film di Scola del 1989, Il viaggio di Capitan Fracassa, come narratore dell'esistenza vagabonda dei comici, come Pulcinella sentimentale, divertente, saggio. E un poco triste: “Il teatro procura gioia a tutti, tranne a chi lo fa”.
Da La Stampa, 5 Giugno 1994
Quel senso malinconico della vita, quel modo stanco di prendere in giro se stesso, quella fatica di adattarsi ai disagi della giovinezza, ai problemi con l’universo femminile, con gli amici ossessivi, con gli stereotipi rifiutati della napoletanità. Guardate dopo sembrano tutte cose legate strettamente alla fine. Arrivata un giorno dopo la conclusione delle riprese dell’ultimo film Il postino, diretto da Michael Radford e interpretato dall’attore-regista al fianco di Philippe Noiret, Maria Grazia Cucinotta, Anna Bonaiuto. Portabandiera di una comicità in linea con l’esempio di Eduardo De Filippo, Troisi aveva fatto ridere, e moltissimo, fin dalle prime apparizioni nel Centro Teatro Spazio del suo paese, San Giorgio a Cremano, poi nella «Smorfia», il gruppo fondato con Lello Arena e Enzo Decaro, poi in tv, nel programma di Enzo Trapani «No stop». L’esordio folgorante sul grande schermo risale al 1981 e si chiama Ricomincio da tre. Anche lì le risate del pubblico scorrevano a fiumi, ma non derivavano mai dagli eccessi dei gesti, dagli sberleffi, dai travestimenti. Troisi faceva ridere quando ragionava pacato alla sua maniera, quando si scontrava con la realtà scontata per cui un napoletano in viaggio verso il Nord dev’essere per forza un emigrante. Quando all’amore con la fidanzata preferiva la cronaca della partita di calcio. Le celebrazioni, in questi giorni tanto copiose, non erano certo la sua passione. Si divertiva con gli amici, con le donne, con i colleghi di lavoro a cui lo legava particolare sintonia, come Carlo Verdone, o come Roberto Benigni, protagonista, al suo fianco, dell’esilarante Non ci resta che piangere. «Massimo era una persona vera, normale, umile - dice oggi la sorella Rosaria -. Non si è mai comportato da divo, tutt’altro. Gli piaceva stare in mezzo alla persone, sentirsi parte di loro. Ed è per questo che la gente, ancora oggi, a dieci anni dalla morte, continua ad amarlo». Un amore vero, documentato, di cui resterà traccia concreta nel libro intitolato Come un cesto di viole, raccolta di «pensieri, poesie e ricordi lasciati in questi anni sulla sua tomba». Rosaria ha conservato tutto per fare un volume che vuol essere «un omaggio floreale a mio fratello, come si fa nelle grandi occasioni». I proventi andranno all’Associazione italiana per le adozioni a distanza. Dice ancora Rosaria: «Mi manca Massimo, anche se il suo ricordo è ancora molto vivo in me. E mi manca non solo come uomo, ma come artista. Ogni tanto mi chiedo quante cose avrebbe ancora potuto fare in questi anni». Come lei se lo chiedono di certo i vecchi amici e i compagni di strada, quelli che decidono di celebrarlo con il silenzio, come Lello Arena, e quelli che, invece, preferiscono elencarne le qualità oppure si divertono a ricordare gli scherzi subiti o magari organizzati insieme. La sua città, San Giorgio Cremano, è già da giorni mobilitata per le manifestazioni legate al decennale della morte, prima fra tutte la mostra su «Massimo Troisi attore». Nelle sale della settecentesca Villa Bruno, la villa vesuviana sede del Premio Troisi, è possibile osservare i copioni originali della «Smorfia», le scenografie di celebri sketch come quello sull’arca di Noè, l’abito dell’animale fantastico «Minollo», la giacca indossata dal protagonista nel film d’esordio Ricomincio da tre e perfino la bicicletta dell’ultima opera, Il postino. E’ in preparazione anche un secondo libro, firmato dall’amico Alfredo Cozzolino, apparso in molti dei film di Troisi e oggi autista di professione: «Massimo era un genio, fin da quando eravamo bambini avevamo capito che lui, con la sua intelligenza, con la sua furbizia, aveva una marcia in più rispetto a ognuno di noi. Mi piacerebbe che anche gli altri, quelli che continuano ad amarlo, potessero conoscere chi era davvero Massimo». Ci sono anche dei programmi televisivi annunciati, e degli altri già pronti, rispettivamente di Vittorio Cecchi Gori e di Gianni Minà, dedicati all’attore e divenuti, negli ultimi giorni, oggetto di polemiche e dichiarazioni incrociate. Un gran fervore, insomma, anche affettuoso, anche appassionato, eppure in contrasto stridente con la figura dell’artista. Schivo, riservato, estraneo a qualunque tipo di volgarità, perfetto interprete dell’understatement alla partenopea. Uno che si ritrovava a pennello nella battuta chiave di Ricomincio da tre: «Voglio ricominciare da tre, pecchè due o tre cose ‘bbuone le ho fatte». Due o tre, niente di più.
Da La Stampa, 31 maggio 2004
Mi sembra impossibile che siano già trascorsi dieci anni dalla morte di Massimo Troisi, come la sua morte mi è sempre sembrata assurda. Agli artisti è spontaneo continuare sempre a fare domande, perché fanno ormai parte della nostra immaginazione, del nostro io più interno. Aspetto le risposte dal suo prossimo film, anche se so che non potrà più arrivare.
Ho incontrato, durante la sua vita, cinque volte Massimo Troisi, ogni volta in modo molto diverso dalle altre. Non sono stati i soli incontri, ma la memoria ne è stata assorbita da quelli che, per me, hanno finito per assumere un valore simbolico.
La prima volta è stato l’incontro di un giovane spettatore cinematografico, laureato da non molto ma già oltre la soglia dei trent’anni, ricercatore universitario, segretario della sezione Trevi Campo Marzio del Pci, con la passione del cinema e con l’intermittente sensazione, non troppo gradevole, di non conoscere affatto la propria strada e di stare perdendo tempo, con un film. Ricomincio da tre mi è sembrato scritto da un fratello, perché narrava una storia tutta diversa dalla mia (l’emigrante di famiglia era stato mio nonno Giovanni, ma era ancora l’Ottocento), ma con questo nucleo intimo, di incertezza, resistenza e insieme disponibilità prevalente al cambiamento, in comune. E mentre tutto mutava, il figlio si sarebbe sempre chiamato, se non Ciro, almeno Ugo. Ho tanto amato quel film, che il titolo Scusate il ritardo del successivo mi sembrava fatto su misura per me.
La seconda volta l’ho incontrato di persona. Era il 1981, l’anno del pieno fulgore dell’Estate Romana e di Massenzio al Colosseo. Che non fu solo la proiezione del Napoleone d’Abel Gance di fronte ad ottomila spettatori, rimasti al loro posto anche sotto una lieve pioggia, ma anche una serie di esperimenti sulla catena che lega tra loro i diversi settori dello spettacolo ed i diversi aspetti della vita urbana. Uno di questi furono gli autobus dei comici, dove potevamo salire solo i fortunati possessori di biglietti di Massenzio sorteggiati, che percorrevano linee d’autore. Rimase memorabile la visita di Victor Cavallo alla Garbatella. Assieme a Roberta Carraro, che era responsabile dell’iniziativa, avevamo pensato soprattutto a Massimo Troisi, che ci sembrava la persona ideale per dare di Roma una visione inedita, in evidente fuori sincrono rispetto ai conformismi che spesso l’imprigionano. Roma come può apparire a chi la conosce per lavoro, la Roma di Cinecittà ma anche la Roma dei produttori, dei finanziatori, dell’industria e della passione del cinema. Ma anche la Roma delle sere e delle notti senza scopo, dove è facile sentirsi soli. Ci incontrammo al tavolo di un ristorante di Piazza Campitelli, in una bella giornata che mi pare fosse proprio ai primi di giugno. Massimo mangiò poco e non bevve vino, a mia differenza. Ascoltò con attenzione le nostre proposte, fece qualche osservazione non banale, ma non si fece coinvolgere. Mi dette l’impressione di una persona (Roberta mi aveva informato di un suo stato di salute già allora non buono) che si sforzava di non mostrare stanchezza, ma come era attento a non sprecare energie, giustamente concentrato sui suoi progetti. Questi seguivano una strada diversa da quella del mio effimero. Quegli autobus avrebbero potuto (in un futuro che puntualmente è arrivato) avere a bordo le telecamere della televisione o ispirare una sequenza di film. Troisi si concentrava invece, senza dettare proclami, sul cinema.
Ed è con il Troisi regista di film straordinari, dai titoli lunghissimi e dissonanti come Sembrava amore e invece era un calesse, dalle sceneggiature che debordavano, si smarrivano e si ritrovavano, che però parlavano finalmente, nel mondo delle macchiette, dei ruoli e delle sceneggiature obbligate, ma sempre a tutto tondo (in questo vagamente disneyane), della tarda commedia all’italiana, il linguaggio del frammento e della contraddizione, che ho avuto il terzo incontro della mia vita. Di fronte a quei film mi comportavo come quell’omino che, comparendo come logo dell’eccellenza per le segnalazioni cinematografiche del manifesto, si fa letteralmente uscire gli occhi dalle orbite mentre applaude freneticamente.
Suggerirei di rivederli tutti di seguito, essendo la disponibilità di cassette e di DVD una delle opportunità positive dei mondo globale: e spero che ci lo farà condividerà il mio giudizio di un Troisi che, in quella fase della sua opera, ci dà uno straordinario ritratto dell’Italia dei ‘900. Dissonante ed acido, dove la sconfitta e la malinconia non frenano la vitalità, non dissuadono da nuovi tentativi. Sono piuttosto consapevolezza del fatto che le idee giuste non si proclamano perché siano vittoriose, ma più semplicemente perché sono giuste. E proclamarlo non è tanto una scelta quanto una necessità.
Di fronte alle critiche di quelli che mettono l’ordine al primo posto rispetto all’inventiva, Troisi avvertiva che la bellezza dei suoi film non era un impedimento perché questi potessero essere ancora migliori; e che, per poter dimenticare il cinema di chi ci ha preceduto, bisogna pur conoscerlo bene. Credo che questa fosse una delle molte ragioni del sodalizio artistico con Ettore Scola, che lo ha diretto più di una volta, in film anche questi piuttosto malinconici (penso a volte che la malinconia sia la caratteristica dominante della fine degli Anni Duemila in Italia), che parlavano della solitudine, della pioggia, del tempo che non trascorre mai, del servizio militare, dei difficili rapporti tra le generazioni; o trasferivano indietro nel tempo quest’atmosfera, come ne Il viaggio di Capiton Fracassa. Il set del capitan Fracassa è stato il luogo del nostro quarto incontro. Ettore mi aveva affidato un piccolo ruolo, quello di un aristocratico nero d’animo, di cuore e di vestiti. Massimo al contrario vestiva il bianco costume di Pulcinella, introdotto a forza nella storia dei Conte di Sigognac; ed era, più di questi, il vero protagonista, il centro nascosto, dei film. Facendo irrompere un’altra tradizione, quella del Sud, della maschera napoletana, della materialità della vita, tra le ombre ottocentesche di Teophile Gautier. Sul set lo ricordo attento, concentrato, desideroso di imparare in tutta modestia e con quella squisita cortesia di chi, anche in una situazione impegnativa, è naturalmente portato a non ignorare gli altri, cui offre un’allegra cordialità.
L’ultimo incontro l’ho avuto quando Massimo ormai ci aveva lasciato. Napoli (dove ero stato chiamato da Bassolino) era ferita dalla sua morte avvenuta solo pochi mesi prima, e reagiva sentendolo come una presenza sempre viva. È stato allora, attraverso i luoghi dov’era nato e vissuto, che ho capito (o forse ho soltanto creduto di capire), la sua anima. che vedo come una città disposta spettacolarmente a guisa di palcoscenico, affacciata su una natura di commovente bellezza, ma che insieme si nasconde ed invita al segreto.
Da L’Unità, 4 giugno 2004
Mi sembra impossibile che siano già trascorsi dieci anni dalla morte di Massimo Troisi, come la sua morte mi è sempre sembrata assurda. Agli artisti è spontaneo continuare sempre a fare domande, perché fanno ormai parte della nostra immaginazione, del nostro io più interno. Aspetto le risposte dal suo prossimo film, anche se so che non potrà più arrivare.
Ho incontrato, durante la sua vita, cinque volte Massimo Troisi, ogni volta in modo molto diverso dalle altre. Non sono stati i soli incontri, ma la memoria ne è stata assorbita da quelli che, per me, hanno finito per assumere un valore simbolico.
La prima volta è stato l’incontro di un giovane spettatore cinematografico, laureato da non molto ma già oltre la soglia dei trent’anni, ricercatore universitario, segretario della sezione Trevi Campo Marzio del Pci, con la passione del cinema e con l’intermittente sensazione, non troppo gradevole, di non conoscere affatto la propria strada e di stare perdendo tempo, con un film. Ricomincio da tre mi è sembrato scritto da un fratello, perché narrava una storia tutta diversa dalla mia (l’emigrante di famiglia era stato mio nonno Giovanni, ma era ancora l’Ottocento), ma con questo nucleo intimo, di incertezza, resistenza e insieme disponibilità prevalente al cambiamento, in comune. E mentre tutto mutava, il figlio si sarebbe sempre chiamato, se non Ciro, almeno Ugo. Ho tanto amato quel film, che il titolo Scusate il ritardo del successivo mi sembrava fatto su misura per me.
La seconda volta l’ho incontrato di persona. Era il 1981, l’anno del pieno fulgore dell’Estate Romana e di Massenzio al Colosseo. Che non fu solo la proiezione del Napoleone d’Abel Gance di fronte ad ottomila spettatori, rimasti al loro posto anche sotto una lieve pioggia, ma anche una serie di esperimenti sulla catena che lega tra loro i diversi settori dello spettacolo ed i diversi aspetti della vita urbana. Uno di questi furono gli autobus dei comici, dove potevamo salire solo i fortunati possessori di biglietti di Massenzio sorteggiati, che percorrevano linee d’autore. Rimase memorabile la visita di Victor Cavallo alla Garbatella. Assieme a Roberta Carraro, che era responsabile dell’iniziativa, avevamo pensato soprattutto a Massimo Troisi, che ci sembrava la persona ideale per dare di Roma una visione inedita, in evidente fuori sincrono rispetto ai conformismi che spesso l’imprigionano. Roma come può apparire a chi la conosce per lavoro, la Roma di Cinecittà ma anche la Roma dei produttori, dei finanziatori, dell’industria e della passione del cinema. Ma anche la Roma delle sere e delle notti senza scopo, dove è facile sentirsi soli. Ci incontrammo al tavolo di un ristorante di Piazza Campitelli, in una bella giornata che mi pare fosse proprio ai primi di giugno. Massimo mangiò poco e non bevve vino, a mia differenza. Ascoltò con attenzione le nostre proposte, fece qualche osservazione non banale, ma non si fece coinvolgere. Mi dette l’impressione di una persona (Roberta mi aveva informato di un suo stato di salute già allora non buono) che si sforzava di non mostrare stanchezza, ma come era attento a non sprecare energie, giustamente concentrato sui suoi progetti. Questi seguivano una strada diversa da quella del mio effimero. Quegli autobus avrebbero potuto (in un futuro che puntualmente è arrivato) avere a bordo le telecamere della televisione o ispirare una sequenza di film. Troisi si concentrava invece, senza dettare proclami, sul cinema.
Ed è con il Troisi regista di film straordinari, dai titoli lunghissimi e dissonanti come Sembrava amore e invece era un calesse, dalle sceneggiature che debordavano, si smarrivano e si ritrovavano, che però parlavano finalmente, nel mondo delle macchiette, dei ruoli e delle sceneggiature obbligate, ma sempre a tutto tondo (in questo vagamente disneyane), della tarda commedia all’italiana, il linguaggio del frammento e della contraddizione, che ho avuto il terzo incontro della mia vita. Di fronte a quei film mi comportavo come quell’omino che, comparendo come logo dell’eccellenza per le segnalazioni cinematografiche del manifesto, si fa letteralmente uscire gli occhi dalle orbite mentre applaude freneticamente.
Suggerirei di rivederli tutti di seguito, essendo la disponibilità di cassette e di DVD una delle opportunità positive dei mondo globale: e spero che ci lo farà condividerà il mio giudizio di un Troisi che, in quella fase della sua opera, ci dà uno straordinario ritratto dell’Italia dei ‘900. Dissonante ed acido, dove la sconfitta e la malinconia non frenano la vitalità, non dissuadono da nuovi tentativi. Sono piuttosto consapevolezza del fatto che le idee giuste non si proclamano perché siano vittoriose, ma più semplicemente perché sono giuste. E proclamarlo non è tanto una scelta quanto una necessità.
Di fronte alle critiche di quelli che mettono l’ordine al primo posto rispetto all’inventiva, Troisi avvertiva che la bellezza dei suoi film non era un impedimento perché questi potessero essere ancora migliori; e che, per poter dimenticare il cinema di chi ci ha preceduto, bisogna pur conoscerlo bene. Credo che questa fosse una delle molte ragioni del sodalizio artistico con Ettore Scola, che lo ha diretto più di una volta, in film anche questi piuttosto malinconici (penso a volte che la malinconia sia la caratteristica dominante della fine degli Anni Duemila in Italia), che parlavano della solitudine, della pioggia, del tempo che non trascorre mai, del servizio militare, dei difficili rapporti tra le generazioni; o trasferivano indietro nel tempo quest’atmosfera, come ne Il viaggio di Capiton Fracassa. Il set del capitan Fracassa è stato il luogo del nostro quarto incontro. Ettore mi aveva affidato un piccolo ruolo, quello di un aristocratico nero d’animo, di cuore e di vestiti. Massimo al contrario vestiva il bianco costume di Pulcinella, introdotto a forza nella storia dei Conte di Sigognac; ed era, più di questi, il vero protagonista, il centro nascosto, dei film. Facendo irrompere un’altra tradizione, quella del Sud, della maschera napoletana, della materialità della vita, tra le ombre ottocentesche di Teophile Gautier. Sul set lo ricordo attento, concentrato, desideroso di imparare in tutta modestia e con quella squisita cortesia di chi, anche in una situazione impegnativa, è naturalmente portato a non ignorare gli altri, cui offre un’allegra cordialità.
L’ultimo incontro l’ho avuto quando Massimo ormai ci aveva lasciato. Napoli (dove ero stato chiamato da Bassolino) era ferita dalla sua morte avvenuta solo pochi mesi prima, e reagiva sentendolo come una presenza sempre viva. È stato allora, attraverso i luoghi dov’era nato e vissuto, che ho capito (o forse ho soltanto creduto di capire), la sua anima. che vedo come una città disposta spettacolarmente a guisa di palcoscenico, affacciata su una natura di commovente bellezza, ma che insieme si nasconde ed invita al segreto.
Da L’Unità, 4 giugno 2004
L’understatement è una qualità anglosassone. Sta a indicare la minimizzazione, la non esaltazione, il non prendersi troppo sul serio, il saper valutare nel giusto rapporto ciò che si fa e ciò che se ne riceve. Nel decennale della morte di Massimo Troisi, fra un coro di elogi in stile latino - sentimentalismo, lacrime e retorica - si può solo dire che in quanto comico napoletano l’unico vero inglese era lui. Come si fa a non rimpiangerlo?
Quando era al culmine della popolarità gli chiesero se avesse sempre voluto fare l’attore, se si trattasse, insomma, di una vocazione o, magari, di una missione. Rispose così: «Come aggio accuminciato? Ecco... io ero ‘nu guaglione... ero andato a vedere un grande film. Si trattava di Roma città aperta, chillo grande lavoro di Rossellini. Me n’ero uscito da o’cinema con tutte quelle immagini dint’a capa e tutte quante le emozioni dentro. Mi sono fermato ‘nu mumento e m’aggio ditto... “Massimo, da grande tu devi fa’“o geometra”».
Il «geometra» Troisi era uno che della vita aveva capito quanto bastava per non prenderla troppo sul serio. Era stato operato al cuore da ragazzo, sapeva che quegli interventi aggiustano ma non risolvono, si vedeva come un ospite di passaggio che scaramanticamente faceva finta di esserci, comunque, per caso, non fosse mai per nécessità... In un decennio fece una media di un film all’anno, ne troppi né troppo pochi: «Il cinema è il quaranta per cento della vita mia. Non è tanto ma è giusto che sia così».
Se uno li va a rivedere a mente fredda scopre un buon attore, dotato di una mimica straordinaria e di una accattivante simpatia, un discreto regista, ma nessun capolavoro cinematografico. I migliori restano i primi, Ricomincio da tre e Scusate il ritardo, dove l’inconsistenza delle trame, ovvero l’assoluta normalità di vicende di trentenni fra amori, dolori, amicizie e scoperte, era messa al servizio di un perfetta macchina di risate. I meno riusciti quelli di mezzo, da Le vie del Signore sono finite a Pensavo fosse amore e invece era un calesse, velleitari e non risolti nella storia, riflessioni sulla malattia e sull’amore. Di Non ci resta che piangere con Benigni rimane l’impressione di un’occasione perduta. Del Postino di Neruda bisognerà pur dire che quella è stata l’unica volta in cui, avendo un inglese per regista, Massimo si è distratto e ha fatto il napoletano. La sua morte nelle manifestazioni di piazza in un’Italia da cartolina propagandistica degli anni 50 grida ancora vendetta. Purtroppo poi morì lui veramente, ma questa è un’altra storia.
Anche dall’accoppiata con Scola e con Mastroianni, Splendor, Che ora è, si esce perplessi, pur se il difetto è come dire più nel manico stanco della regia e della sceneggiatura. E tuttavia pur se come attori Marcello e Massimo avevano alcuni tratti in comune in grado di esaltarne l’omogeneità, non si ha mai l’impressione di un affiatamento completo o di una reale complicità.
Per certi versi, e paradossalmente, il Troisi migliore è altrove. Ai tempi della «Smorfia» sicuramente, e in certe incursioni televisive, una per tutte nell’indietro tutta di arboriana memoria dove come pura e semplice presenza radiofonica era un concentrato irresistibile di tormentoni, non sense, pura assurdità, con una lingua franta e bizzarra che spesso diveniva assoluta sonorità.
Cresciuto professionalmente fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta Troisi aveva miracolosamente evitato le secche del comico di regime, ovvero del far ridere a sinistra e da sinistra. Lo aveva salvato la provincia prima, il successo televisivo poi, il venir meno nel contempo delle chiese partitiche e una certa qual vergogna fra i suoi adepti per tutte le fesserie ideologiche dette, pensate e/o praticate. Soprattutto, però, lo aveva salvato il suo modo d’essere: troppo ironico per prenderle comunque sul serio, troppo ironico per prendersi comunque sul serio. «Io nun saccio niente ‘e niente. Adesso invece vengono i giornalisti e mi chiedono: “Troisi, come si possono risolvere i problemi di Napoli?“. “Troisi come si può esprimere la creatività giovanile?“. Ma che è? Pare che invece ca’nu film io ho tatto i dieci comandamenti. Pare che so’l’unico intelligente in Italia».
Non era qualunquismo. Era understatement. Come comico napoletano, lo abbiamo già detto, Troisi era inglese. Lo era anche nei sentimenti. Ha avuto donne molto belle, ha fatto sempre finta di esserne sorpreso, come se lui non c’entrasse niente. «Io credo che alle donne non basta un uomo solamente… senza essere frainteso credo che una donna per fare un uomo ne ha bisogno di quattro… non perché è eccessiva nelle richieste, ma perché per fare un uomo normale secondo me ce vogliono quattro… Il contrario no, perché anzi una donna è troppo per un uomo. Io la penso così perché ritengo che noi uomini dovremo avere cento donne per non averne nessuna, perché tanto non riusciamo a tenerla… Penso che non ce la fa, quindi meglio metterci in quattro e stiamo tranquilli sia le donne che gli uomini». Uno che ragiona così, come si fa a non rimpiangerlo.
Da Il Giornale, 4 giugno 2004
L’understatement è una qualità anglosassone. Sta a indicare la minimizzazione, la non esaltazione, il non prendersi troppo sul serio, il saper valutare nel giusto rapporto ciò che si fa e ciò che se ne riceve. Nel decennale della morte di Massimo Troisi, fra un coro di elogi in stile latino - sentimentalismo, lacrime e retorica - si può solo dire che in quanto comico napoletano l’unico vero inglese era lui. Come si fa a non rimpiangerlo?
Quando era al culmine della popolarità gli chiesero se avesse sempre voluto fare l’attore, se si trattasse, insomma, di una vocazione o, magari, di una missione. Rispose così: «Come aggio accuminciato? Ecco... io ero ‘nu guaglione... ero andato a vedere un grande film. Si trattava di Roma città aperta, chillo grande lavoro di Rossellini. Me n’ero uscito da o’cinema con tutte quelle immagini dint’a capa e tutte quante le emozioni dentro. Mi sono fermato ‘nu mumento e m’aggio ditto... “Massimo, da grande tu devi fa’“o geometra”».
Il «geometra» Troisi era uno che della vita aveva capito quanto bastava per non prenderla troppo sul serio. Era stato operato al cuore da ragazzo, sapeva che quegli interventi aggiustano ma non risolvono, si vedeva come un ospite di passaggio che scaramanticamente faceva finta di esserci, comunque, per caso, non fosse mai per nécessità... In un decennio fece una media di un film all’anno, ne troppi né troppo pochi: «Il cinema è il quaranta per cento della vita mia. Non è tanto ma è giusto che sia così».
Se uno li va a rivedere a mente fredda scopre un buon attore, dotato di una mimica straordinaria e di una accattivante simpatia, un discreto regista, ma nessun capolavoro cinematografico. I migliori restano i primi, Ricomincio da tre e Scusate il ritardo, dove l’inconsistenza delle trame, ovvero l’assoluta normalità di vicende di trentenni fra amori, dolori, amicizie e scoperte, era messa al servizio di un perfetta macchina di risate. I meno riusciti quelli di mezzo, da Le vie del Signore sono finite a Pensavo fosse amore e invece era un calesse, velleitari e non risolti nella storia, riflessioni sulla malattia e sull’amore. Di Non ci resta che piangere con Benigni rimane l’impressione di un’occasione perduta. Del Postino di Neruda bisognerà pur dire che quella è stata l’unica volta in cui, avendo un inglese per regista, Massimo si è distratto e ha fatto il napoletano. La sua morte nelle manifestazioni di piazza in un’Italia da cartolina propagandistica degli anni 50 grida ancora vendetta. Purtroppo poi morì lui veramente, ma questa è un’altra storia.
Anche dall’accoppiata con Scola e con Mastroianni, Splendor, Che ora è, si esce perplessi, pur se il difetto è come dire più nel manico stanco della regia e della sceneggiatura. E tuttavia pur se come attori Marcello e Massimo avevano alcuni tratti in comune in grado di esaltarne l’omogeneità, non si ha mai l’impressione di un affiatamento completo o di una reale complicità.
Per certi versi, e paradossalmente, il Troisi migliore è altrove. Ai tempi della «Smorfia» sicuramente, e in certe incursioni televisive, una per tutte nell’indietro tutta di arboriana memoria dove come pura e semplice presenza radiofonica era un concentrato irresistibile di tormentoni, non sense, pura assurdità, con una lingua franta e bizzarra che spesso diveniva assoluta sonorità.
Cresciuto professionalmente fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta Troisi aveva miracolosamente evitato le secche del comico di regime, ovvero del far ridere a sinistra e da sinistra. Lo aveva salvato la provincia prima, il successo televisivo poi, il venir meno nel contempo delle chiese partitiche e una certa qual vergogna fra i suoi adepti per tutte le fesserie ideologiche dette, pensate e/o praticate. Soprattutto, però, lo aveva salvato il suo modo d’essere: troppo ironico per prenderle comunque sul serio, troppo ironico per prendersi comunque sul serio. «Io nun saccio niente ‘e niente. Adesso invece vengono i giornalisti e mi chiedono: “Troisi, come si possono risolvere i problemi di Napoli?“. “Troisi come si può esprimere la creatività giovanile?“. Ma che è? Pare che invece ca’nu film io ho tatto i dieci comandamenti. Pare che so’l’unico intelligente in Italia».
Non era qualunquismo. Era understatement. Come comico napoletano, lo abbiamo già detto, Troisi era inglese. Lo era anche nei sentimenti. Ha avuto donne molto belle, ha fatto sempre finta di esserne sorpreso, come se lui non c’entrasse niente. «Io credo che alle donne non basta un uomo solamente… senza essere frainteso credo che una donna per fare un uomo ne ha bisogno di quattro… non perché è eccessiva nelle richieste, ma perché per fare un uomo normale secondo me ce vogliono quattro… Il contrario no, perché anzi una donna è troppo per un uomo. Io la penso così perché ritengo che noi uomini dovremo avere cento donne per non averne nessuna, perché tanto non riusciamo a tenerla… Penso che non ce la fa, quindi meglio metterci in quattro e stiamo tranquilli sia le donne che gli uomini». Uno che ragiona così, come si fa a non rimpiangerlo.
Da Il Giornale, 4 giugno 2004