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Rassegna stampa di Mario Camerini

Mario Camerini è un regista, scrittore, sceneggiatore, montatore, assistente alla regia, è nato il 6 febbraio 1895 a Roma (Italia) ed è morto il 4 febbraio 1981 all'età di 86 anni a Gardone Riviera (Italia).

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Da una famiglia di magistrati, di origine abruzzese, esce un irregolare che ama la fantasia, trascura gli studi (giuridici), scrive soggetti per il cinema. Siamo nel 1913. Anche il fratello Augusto e il cugino Augusto Genina si occupano di cinema. Tornato dalla guerra, il venticinquenne Camerini entra nella professione. Dirige il primo film nel 1923 (Jolly, clown da circo) e prosegue regolarmente. Nel '25 guida Bartolomeo Pagano in Maciste contro lo sceicco, tre anni dopo ricava un film da un romanzo di Luciano Zuccoli. È ancora uno dei tanti, ma basterà il dolente e amaro Rotaie (1929) per rivelare la presenza di un regista personale.

GIAN PIERO BRUNETTA

Se l'ingresso di Blasetti è come sempre irruente, quello di Camerini è forse meno spettacolare, ma dimostra anche nel maestro della commedia all'italiana una buona tenuta nei confronti dei nuovi ritmi ed esigenze produttive. La sua filmografia degli anni Sessanta consta di ben otto titoli assai eterogenei, ma che dimostrano ancora la disponibilità del regista ad adeguarsi a qualsiasi modello narrativo. Nel 1960 non è tanto interessante Via Margutta, se non per il fatto che mostra la sfasatura e lo spiazzamento culturale degli uomini di cinema rispetto alle tendenze recenti delle arti figurative, quanto Crimen, in cui si realizza un perfetto connubio tra il suo tocco nel costruire e orchestrare i meccanismi della commedia e l'osservazione ravvicinata dei personaggi e la presenza più graffiante della mano di Rodolfo Sonego nella sceneggiatura. Camerini riunisce - a eccezione di Tognazzi - i futuri mattatori della commedia e li fa muovere dentro un intreccio in cui a ogni solista (Gassman, Sordi, Manfredi e Silvana Mangano) è concessa sufficiente autonomia per esibirsi in una girandola di pezzi di bravura.

UGO CASIRAGHI

Dodici film di Mario Camerini, e del suo periodo migliore, hanno costituito una sicura offerta di buon cinema nei pomeriggi domenicali di RaiTre. Si è cominciato, senza preoccupazioni di ordine cronologico che magari sarebbero state consigliabili, da Grandi magazzini del 1939, titolo ripreso da Castellano e Pipolo cinque anni fa, ma solo per dimostrare quanto sia caduta in basso la commedia all'italiana mezzo secolo dopo. Che Camerini non si possa rifare lo prova il recentissimo Il conte Max di Christian De Sica, ultimo remake da Il signor Max dei 1937 con Vittorio De Sica che si è regolarmente rivisto nel ciclo televisivo. Del resto l'aveva già provato Camerini in persona, eseguendo a più riprese copie dei propri film, costantemente inferiori ai modelli: T'amerò sempre del 1933 con l'omonima versione del 1943, Il cappello a tre punte del 1934 con La bella mugnaia del 1955. La spontanea e inconfondibile grazia degli originali non poteva essere riprodotta neppure dallo stesso autore, e non valevano né i maggiori mezzi tecnici, né i divi di cartello. Vittorio De Sica era diventato un divo grazie a Camerini, ma la cosa più importante è che lavorando con lui imparò a essere un bravo attore e, più tardi, un più grande regista.
Mario Camerini fu un vero signore del cinema italiano sotto il fascismo. Non era fascista come il suo collega Alessandro Blasetti, l'altro dominatore degli anni Trenta, e non era neppure antifascista, almeno dichiarato ed evidente. Era semplicemente uno che badava al cinema come allo scopo della sua vita. I suoi film - salvo uno, Il grande appello - non erano di propaganda diretta ma neppure erano evasivi e menzogneri come altra faccia della medaglia. Scorrevano a lato del regime senza metterlo in discussione ma anche senza assecondarlo. In un'epoca di virilità conclamata e urlata, non alzavano mai la voce, ma erano sempre al fianco della gente comune, di quella folla anonima che non capiva e non protestava e che il regime schiacciava, di quel popolo minuto che praticava l'onestà e il lavoro, inseguiva un'esistenza dignitosa e pacifica, magari sognava un piccolo miglioramento di condizione sociale. E il cui destino era comunque di restare entro i limiti del proprio status di proletariato e di piccola borghesia.
Soltanto nella favola tipo Darò un milione si potevano alla fine varcare tali limiti, che sarebbero stati gli stessi del cinema di Camerini, se il suo favolismo non si fosse sempre sostenuto su quegli scampoli di realismo e di ironico distacco, capaci da soli
di riportare le cose in terra, secondo quel che il regista vedeva ogni giorno attorno a sé. Darò un milione e Miracolo a Milano hanno due nomi in comune, Zavattini e De Sica, ma nei quindici anni che li dividono c'è anche tutto il salto che la favola realistica ha compiuto in fatto di concretezza sociale e di assunzione, pur sempre attraverso l'utopia, dei diritti dei poveri. Insomma i barboni di De Sica, a differenza di quelli di Camerini, proclamano la lotta di classe e la cantano. Ciò era impensabile negli anni del fascismo, anche se bisogna dire che Camerini vi si era avvicinato nel suo film più audace, Il cappello a tre punte, che purtroppo mancava nella rassegna ma che Ricordi ha recentemente editato in videocassetta.

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