Mario Camerini è un regista, scrittore, sceneggiatore, montatore, assistente alla regia, è nato il 6 febbraio 1895 a Roma (Italia) ed è morto il 4 febbraio 1981 all'età di 86 anni a Gardone Riviera (Italia).
Da una famiglia di magistrati, di origine abruzzese, esce un irregolare che ama la fantasia, trascura gli studi (giuridici), scrive soggetti per il cinema. Siamo nel 1913. Anche il fratello Augusto e il cugino Augusto Genina si occupano di cinema. Tornato dalla guerra, il venticinquenne Camerini entra nella professione. Dirige il primo film nel 1923 (Jolly, clown da circo) e prosegue regolarmente. Nel '25 guida Bartolomeo Pagano in Maciste contro lo sceicco, tre anni dopo ricava un film da un romanzo di Luciano Zuccoli. È ancora uno dei tanti, ma basterà il dolente e amaro Rotaie (1929) per rivelare la presenza di un regista personale.
Dal dramma Camerini passa all'ironia bonaria e lucida, di stile Frank Capra piuttosto che (come si disse) Lubitsch. Dopo Figaro e la sua gran giornata
(1931) arrivano i suoi bozzetti borghesi che si raccoglieranno gradualmente in una collana di costume quanto mai significativa, e di grande successo popolare: da Gli uomini che mascalzoni... (1932) a Darò un milione (1935), da Ma non è una cosa seria (1936) a Il signor Max (1937), da Grandi magazzini (1939) a Batticuore (1939) si assiste alla affettuosa messa in scena - quasi sempre con Vittorio De Sica, soffice giovanotto sorridente - della piccola gente tranquilla e apparentemente soddisfatta del fascismo. Non si limita a questo, il regista (nel 1934 diresse una satira storico-politica che fece inviperire Mussolini e che fu sottoposta a varie mutilazioni: Il cappello a tre punte, da Alarcón), ma è qui che s'impone, accanto al Blasetti focoso, nel cinema italiano.
Il dopoguerra, dominato dal neorealismo, mette Camerini fuori gioco. Avvezzo ai ritmi convenzionali della commedia borghese, inadatto alle pratiche della improvvisazione, tenta varie scappatoie - una anche in direzione neorealistica, come Molti sogni per le strade (1948) - ma senza troppo successo. Si rifà, professionalmente, con il kolossal sgargiante di Ulisse (1954), con un giallo-comico come Crimen (1960), con un ennesimo don Camillo (Don Camillo e i giovani d'oggi, 1972), ma la sua stagione di «artista di regime», al regime antipatico, è trascorsa da parecchio. È stato un autore di valore indubbio, di fine, garbata intelligenza.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Se l'ingresso di Blasetti è come sempre irruente, quello di Camerini è forse meno spettacolare, ma dimostra anche nel maestro della commedia all'italiana una buona tenuta nei confronti dei nuovi ritmi ed esigenze produttive. La sua filmografia degli anni Sessanta consta di ben otto titoli assai eterogenei, ma che dimostrano ancora la disponibilità del regista ad adeguarsi a qualsiasi modello narrativo. Nel 1960 non è tanto interessante Via Margutta, se non per il fatto che mostra la sfasatura e lo spiazzamento culturale degli uomini di cinema rispetto alle tendenze recenti delle arti figurative, quanto Crimen, in cui si realizza un perfetto connubio tra il suo tocco nel costruire e orchestrare i meccanismi della commedia e l'osservazione ravvicinata dei personaggi e la presenza più graffiante della mano di Rodolfo Sonego nella sceneggiatura. Camerini riunisce - a eccezione di Tognazzi - i futuri mattatori della commedia e li fa muovere dentro un intreccio in cui a ogni solista (Gassman, Sordi, Manfredi e Silvana Mangano) è concessa sufficiente autonomia per esibirsi in una girandola di pezzi di bravura.
I briganti italiani del 1961 è un'opera di notevole respiro spettacolare e forte impegno, che si pone quasi agli antipodi ideologici del film rosselliniano sullo stesso argomento. Il punto di vista è apertamente contrario e tutto spostato a favore delle ragioni antiunitarie delle popolazioni del Sud.
Dal Risorgimento italiano Camerini passa con disinvoltura all'Ottocento indiano, con due episodi di uno stesso film, Kali Yug, la dea della vendetta e Il mistero del tempio indiano del 1963.
Nella seconda metà degli anni Sessanta gira ancora alcuni film che passano pressoché inosservati, nonostante il regista non intenda abbandonare il livello medio della produzione: Delitto quasi perfetto (1966), Io non vedo, tu non parli, lui non sente (1971) e il quinto titolo della serie di Don Camillo, Don Camillo e i giovani d'oggi. Poi sente giunto il momento, a quasi ottant'anni, di ritirarsi. Lo fa con molta discrezione e senza rimpianti, felice di incontrare, per tutti gli anni seguenti, studiosi, critici e soprattutto giovani laureandi che iniziano ad accostarsi alla sua opera e a cui con pazienza offre straordinari materiali di storia orale, scusandosi quasi che nessuno abbia ancora scritto una monografia sulla sua attività.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
Dodici film di Mario Camerini, e del suo periodo migliore, hanno costituito una sicura offerta di buon cinema nei pomeriggi domenicali di RaiTre. Si è cominciato, senza preoccupazioni di ordine cronologico che magari sarebbero state consigliabili, da Grandi magazzini del 1939, titolo ripreso da Castellano e Pipolo cinque anni fa, ma solo per dimostrare quanto sia caduta in basso la commedia all'italiana mezzo secolo dopo. Che Camerini non si possa rifare lo prova il recentissimo Il conte Max di Christian De Sica, ultimo remake da Il signor Max dei 1937 con Vittorio De Sica che si è regolarmente rivisto nel ciclo televisivo. Del resto l'aveva già provato Camerini in persona, eseguendo a più riprese copie dei propri film, costantemente inferiori ai modelli: T'amerò sempre del 1933 con l'omonima versione del 1943, Il cappello a tre punte del 1934 con La bella mugnaia del 1955. La spontanea e inconfondibile grazia degli originali non poteva essere riprodotta neppure dallo stesso autore, e non valevano né i maggiori mezzi tecnici, né i divi di cartello. Vittorio De Sica era diventato un divo grazie a Camerini, ma la cosa più importante è che lavorando con lui imparò a essere un bravo attore e, più tardi, un più grande regista.
Mario Camerini fu un vero signore del cinema italiano sotto il fascismo. Non era fascista come il suo collega Alessandro Blasetti, l'altro dominatore degli anni Trenta, e non era neppure antifascista, almeno dichiarato ed evidente. Era semplicemente uno che badava al cinema come allo scopo della sua vita. I suoi film - salvo uno, Il grande appello - non erano di propaganda diretta ma neppure erano evasivi e menzogneri come altra faccia della medaglia. Scorrevano a lato del regime senza metterlo in discussione ma anche senza assecondarlo. In un'epoca di virilità conclamata e urlata, non alzavano mai la voce, ma erano sempre al fianco della gente comune, di quella folla anonima che non capiva e non protestava e che il regime schiacciava, di quel popolo minuto che praticava l'onestà e il lavoro, inseguiva un'esistenza dignitosa e pacifica, magari sognava un piccolo miglioramento di condizione sociale. E il cui destino era comunque di restare entro i limiti del proprio status di proletariato e di piccola borghesia.
Soltanto nella favola tipo Darò un milione si potevano alla fine varcare tali limiti, che sarebbero stati gli stessi del cinema di Camerini, se il suo favolismo non si fosse sempre sostenuto su quegli scampoli di realismo e di ironico distacco, capaci da soli
di riportare le cose in terra, secondo quel che il regista vedeva ogni giorno attorno a sé. Darò un milione e Miracolo a Milano hanno due nomi in comune, Zavattini e De Sica, ma nei quindici anni che li dividono c'è anche tutto il salto che la favola realistica ha compiuto in fatto di concretezza sociale e di assunzione, pur sempre attraverso l'utopia, dei diritti dei poveri. Insomma i barboni di De Sica, a differenza di quelli di Camerini, proclamano la lotta di classe e la cantano. Ciò era impensabile negli anni del fascismo, anche se bisogna dire che Camerini vi si era avvicinato nel suo film più audace, Il cappello a tre punte, che purtroppo mancava nella rassegna ma che Ricordi ha recentemente editato in videocassetta.
Il risultato fu la più grande incazzatura cui Mussolini si sia abbandonato nelle sue visioni private a Villa Torlonia. Già il fatto che i protagonisti fossero Eduardo e Peppino De Filippo non doveva essergli gradito, data la campagna contro l'arte dialettale che nel 1934 era già all'ordine del giorno. Ma quando vide il popolo napoletano - sia pure del Seicento, come del resto quello milanese del Manzoni - incitare alla ribellione contro il governo per via delle nuove gabelle e del fisco sempre più esoso, la furia del duce esplose con violenza. Lo testimonia dal vivo l'imminente direttore generale della cinematografia fascista Luigi Freddi. Mussolini, dopo essersi placato e lamentato della scarsa riconoscenza della gente, se ne andò senza voler più vedere come il film continuava, ma in compenso aveva visto quella fulminea sequenza, che la censura avrebbe proibito al pubblico.
«Tanto, il cinematografo mica si può fare». Al dire di Emilio Cecchi, questo era il martellante e ossessivo ritornello del povero Camerini, che smetteva perfino di balbettare quando lo pronunziava. Era il suo leit-motiv pessimista, la sua funebre convinzione sacramentale. Ma per conto suo egli fece davvero tutto il Possibile per smentirsi nei suoi film. Nessun direttore ai tempi suoi, almeno in Italia, aveva la cura rigorosa per il prodotto ch'egli rivelava in ogni fase della lavorazione, dal soggetto al montaggio. Quest'ultima era l'operazione che più gli era cara, perché solo attraverso il montaggio egli riusciva a dare al racconto quella fluidità e quel ritmo che nessun altro otteneva come lui.
Aveva cominciato a scrivere soggetti nel 1913. Nel 1920 già collaborava col fratello Augusto Camerini e col cugino Augusto Genina. Al 1923 risale la sua prima regia, al 1972 (Don Camillo e i giovani d'oggi) l'ultima. Nato a Roma il 6 febbraio 1895 da
famiglia abruzzese, è morto a Gardone Riviera il 4 febbraio 1981, con cinquanta film e cinquant'anni di servizio alle spalle. Nel dopoguerra svolse un'attività quasi pari a quella del ventennio, ma sembrava un sopravvissuto, senza nulla di nuovo da dire. Quel che poteva dire, l'aveva detto tutto prima. E sempre con quel suo sorvegliato, ineguagliabile, personalissimo stile.
Girato ancora muto nel 1929, poi parcamente sonorizzato nel 1931, il celebre Rotaie già indica la sua predilezione per i treni e svela i suoi debiti verso l'espressionismo tedesco (Blasetti invece li aveva, anche se li smentiva, per i classici rivoluzionari sovietici), ma soprattutto la sua sensibilità per il reale quotidiano, tanto più eloquente dell'astrazione retorica di regime. Con Gli uomini, che mascalzoni... Camerini scopre De Sica e la Milano industriosa della Fiera Campionaria, riflessa in una delicata vicenda d'amore che permette al film di non sfigurare alla prima Mostra di Venezia del 1932, dove convergono i maggiori prodotti internazionali.
Il reparto maternità di un ospedale romano, che apre il sorprendente T'amerò sempre, accentua una delle più felici virtù cameriniane: quella di saper portare la commedia in ambienti insoliti, persino inquietanti, di ricamarne il tessuto con risvolti amari. Invece in commedie come Giallo (1933) o il più raffinato Batticuore (1939) il gioco è volutamente parodistico e artificiale: si rivaleggia con i modelli cosmopoliti di "genere" e lo si fa con disinvolta eleganza e senza complessi. La presenza di Assia Noris, con la sua intonazione straniera, illumina il versante per così dire esotico. Ma nel contempo la stessa attrice, che Camerini predilige e ha perfino sposato, forma con De Sica la coppia naturale della commedia sentimentale all'italiana (Darò un milione, Il signor Max, Grandi magazzini). Nel 1940, in Una romantica avventura in cui sostiene tre ruoli, le verrà riservato un omaggio in costume. E dalla novella di Thomas Hardy cui si è ispirato, già il regista si appresta a un romanzo nazionale ben più rognoso: I promessi sposi.
Nei dodici titoli della rassegna televisiva mancavano, oltre a Il cappello a tre punte, altri contributi variamente significativi: Figaro e la sua gran giornata, Come le foglie, vMa non è una cosa seria. Mentre oltre al pur simpatico Giallo era presente un film anche più trascurabile come Centomila dollari (sempre del 1940, e sempre con Assia Noris), buono tutt'al più a documentare che anche un regista così avvertito poteva cascare nel cinema dei telefoni bianchi, di cui il suo era esattamente agli antipodi. Si è avuto poi l'inserimento dell'unica sfasatura propagandistica: Il grande appello che nel 1936 entusiasmò Freddi (gli è dedicato un iutern capitolo delle sue sgangherate ma preziose memorie), eppure non poté sfuggire, come in precedenza Vecchia guardia di Blasetti, alla reprimenda dei fascisti più accesi, che lo attaccarono sul quotidiano razzista "Il Tevere" perché il protagonista della vicenda era tutt'altro che un eroe raccomandabile. Le riprese nella taverna di Gibuti dove il traditore, poi pentito e redento, esibiva il suo cinismo di contrabbandiere di armi, erano, neanche a farlo apposta, le più cinematograficamente azzeccate di questo primissimo polpettone africano.
Il titolo più tardo della rassegna è stato I promessi sposi girato nel 1941. Non era la prima incursione manzoniana del cinema (semmai la prima in kolossal) e la televisione l'avrebbe resa inevitabile altre due volte (Bolchi e Nocita). Camerini aveva voluto accanto a sé troppi letterati nella sua carriera, per non conoscere la differenza tra i due linguaggi e l'inanità di prendere un tale testo a canovaccio per un film. Anzi se ne rendeva così conto, che alla dizione "un film di Mario Camerini" ampiamente meritata, sostituì la più modesta e consueta formula "regia di". E gli parve perfin troppo, per un'impresa così anomala nel suo cinema di allora, e tutto sommato così estranea al suo esigente, adorabile buon gusto.
Non solo film - Come eravamo - Mario Camerini e gli Anni '30: tre titoli per un solo programma, condotto da Giancarlo Santalmassi ogni domenica per dodici domeniche, rigorosamente dalle 16.40 alle 18.40, e naturalmente su RaiTre. L'ultima puntata è andata in onda il 12 gennaio 1992 e il film proiettato era il più vecchio, Rotaie. È stato un bel programma, e merita che se ne riparli.
La formula era quella di mostrare i dodici film di Camerini inserendoli nell'epoca in cui furono fatti (gli anni Trenta, appunto) e corredandoli delle necessarie informazioni visive e parlate. Attraverso spezzoni di pellicola talvolta inediti - come la canzone Blue Moon che forniva la sigla d'apertura, eseguita da De Sica nel suo incerto inglese, o come il documentario dell'architetto Piero Bottoni sull'urbanistica popolare - attraverso interviste in studio, o registrate, oppure d'epoca, si è per così dire investigato il decennio che per l'Italia fu una jattura, mentre per il regista fu il periodo di grazia artistica, o per lo meno artigianale. Questo per capire se il cinema lo aveva espresso fedelmente e fino a qual punto, ma anche per cogliere il destro di confrontarlo all'oggi e trarne qualche elemento di riflessione.
In certi casi ogni commento era pleonastico, data l'eloquenza dello stesso film. Prendiamo ad esempio Gli uomini, che mascalzoni...: la Milano del 1932, con De Sica che la percorre in bicicletta inseguendo il tram della ragazza, con la strada per il Lago Maggiore solcata da un'auto solitaria. con la Fiera Campionaria che esibiva lì meraviglie della tecnica pur restando una sagra paesana, era una città ancora pienamente vivibile. Camerini la fotografava dal vero, ma non stava negli esterni e nelle riprese quasi documentarie il segreto del successo, bensì nella schiettezza e nel calore con cui il regista, i suoi sceneggiatori e il suo assistente Ivo Perilli (uno dei protagonisti sopravvissuti) penetravano nella quotidianità dei modesti eroi. Tant'è che in Grandi magazzini, che nel 1939 ricostruiva una sorta di Rinascente negli studi romani di Cinecittà, l'atmosfera "milanese" è quasi egualmente plausibile e fresca.
Era il momento in cui si cominciava a vendere "all'americana", e gli esperti in marketing ci hanno assicurato che le cose stavano proprio così e che il film è anche un documento sociologico. C'è sempre, infatti, una forte immagine di realtà nel cinema cameriniano dell'intero periodo, anche se la sua commedia rinunciava per principio (e anche per prudenza) a entrare in dialettica col regime. Lo ignorava, e questo silenzio significava pure qualcosa, anzi significava parecchio.
Per spiegare che cos'era il regime si è fatto dunque ricorso agli interventi degli storici (come Settembrini) e degli studiosi del costume (come Miriam Mafai), oppure meglio ancora ai "cinegiornali Luce", la cui affettata retorica forniva ogni volta il contrasto più palese con i film di un cineasta che parlava sempre e soltanto sottovoce.
Quando si reca in Africa, all'indomani della proclamazione dell'impero, per girarvi Il grande appello, Camerini sembra assumere l'atteggiamento di chi decide di "togliersi il dente" per non pensarci più. E il primo film di guerra ma anche l'unico suo. In seguito, a differenza di altri colleghi, vorrà e saprà defilarsi. Invece che un colosso di propaganda, affronterà piuttosto I promessi sposi.
Sul video appare l'allora ministro delle colonie, Alessandro Lessona, oggi centenario, a commentare causticamente l'entrata in Addis Abeba, che fu annunciata al duce, il quale si premurò di C0rnunicarla solennemente al popolo italiano, prima che fosse avvenuta. Il grande appello è piuttosto indifendibile come film, eppure Camerini ha cercato egualmente di fare certe cose alla sua maniera: per esempio lasciando parlare i soldati nei vari dialetti, come aveva appena fatto Blasetti in 1860, però nel contesto risorgimentale.
Assia Noris, alla cui sorridente "ingenuità" le fortune dei film erano spesso affidate, ha illustrato le sue antiche prestazioni con un entusiasmo del tutto legittimo. Da una commedia casalinga come Giallo, che rappresentò il suo esordio, al film in costume ottocentesco Cina romantica avventura che fu il regalo di nozze del regista (essa vi incarnava - tre personaggi: Annetta moglie matura rassegnata di Gino Cervi, Annetta giovane innamorata del "principe azzurro" Leonardo Cortese, e la figlia di Annetta che va sposa a Massimo Girotti), l'attrice è sempre innegabilmente "in parte"'. Oggi si diverte a raccontare come Batticuore dovesse per forza essere ambientato in Francia, in quanto per il fascismo non avvenivano furti in Italia, mentre nel film c'era addirittura una "scuola di ladri" in azione; e che nel 1940, a guerra mondiale già in corso, non si poteva invece ambientare in Inghilterra Una romantica avventura, conformemente al racconto di Thomas Hardy, ma si dovette ripiegare sull'epoca della Carboneria italiana.
Va da sé che il merito delle sue riuscite la Noris lo attribuisce al suo pigmalione e marito, esattamente come De Sica (in una vecchia intervista ripresa dal programma e ribadita oggi dalla testimonianza in studio del figlio Christian) lo riconosceva al "maestro" per le proprie. Ma Camerini rifiutava l'appellativo, così come la qualifica di "René Clair italiano". Ed entrambe le ragioni da lui portate erano spiritose e danno benissimo l'idea dell'uomo. Quella per il maestro: «Andai a Parigi dopo Gli uomini, che mascalzoni. Nei bar tutti cantavano Parlami d'amore, Mariù. Si passano la voce ch'è arrivato il regista. Cher maître di qua, cher maitre di là, perché lì il cher maître lo dicono a tutti». Quella per il "Clair": «Hanno detto gli altri che io ero il Clair italiano, ma io non ho mai pensato di fare Clair. Non ci ho pensato per delle ragioni, così, fisiche. Io mi dimentico tutto, vado a teatro certe volte e uscendo non ricordo quel che ho visto. Se lei mi domanda la storia di un film mio, non mi ricordo qual è. Quindi anche la mia cultura è molto bassa, per una ragione proprio di smemoratezza... Sono molto fiero che la gente possa pensare che sono il René Clair italiano, ma non riuscirei a ricordare René Clair per cercar di rifarlo».
Per Camerini la regola fondamentale era la «chiarezza di racconto» e il «modo più sicuro per attuarla, le facce degli attori, per cavarne qualcosa di più significativo, e di più chiaro, delle parole stesse». E il suo magistero (gli chiediamo scusa) quale direttore d'attori non si esaurì certo nella "coppia ideale" Noris-De Sica. Per limitarsi ai film del ciclo televisivo, come trascurare il timido e dignitoso contabile Nino Besozzi di T'amerò sempre, il barbone Luigi Almirante di Darò un milione (che è anche il professore in rapine di Batticuore), il caratterista Virgilio Riento del Signor Max e specialmente di Grandi magazzini? E si potrebbe perfino ricordare il cardinal Federigo di Ruggero Ruggeri, magari a paragone dello scialbo Burt Lancaster degli ultimi Promessi sposi televisivi.
Quanto alle donne, la sensibilità di Camerini non era meno acuta. Ecco Lia Franca, la tenera tosa di Gli uomini, che mascalzoni...; Elsa De Giorgi (anche lei tra i testimoni del programma) che, nonostante il fisico signorile, strappa la commozione come ragazza-madre in T'amerò sempre; Rubi Dalma, che impersona con ironia il sogno aristocratico del Signor Max, dove il giornalaio è così "fesso" (come suona la battuta di congedo) da voler frequentare il bel mondo. All'indirizzo del quale le frecciate dell'autore sono magari facili ma puntuali, non tanto in osservanza dei dettami ideologici del regime, quanto per la stima ch'egli ha della gente che lavora. Si osservi come il "bravo ragazzo" De Sica mantenga sempre, anche nelle sue "sbandate", una nota di indipendenza e di fierezza: sa fare di tutto e tenta di farsi valere per le sue qualità, ma anche negli inganni rimane onesto secondo la dirittura del suo ceto. Lo stesso vale per le figure femminili che, protagoniste di pur semplici vicende d'amore, lasciano un'impronta di spontaneità e di riservatezza, un rispetto di sé che non si allineava né alla politica fascista sulla massaia casalinga, né al bigottismo cattolico imperante.
Lilia Silvi, che più tardi diventò tanto popolare quanto indigesta, e che nel Signor Max era la sorellina pestifera di Rubi Dalma, ha confessato che per contratto, e per volere del marito, non poteva accettare nemmeno un bacio sullo schermo. Mancando totalmente il sesso nel cinema del tempo, anche l'amore si configurava come una strana entità platonica, e da questo punto di vista Una romantica avventura rientrava nella norma. Attenzione però: in Camerini non c'è ipocrisia e non c'è provincialismo, non ci
sono cioè gli elementi che dominavano allora la vita ufficiale. Il regista si rifugia nel piccolo mondo dei sentimenti, ma questi sono autentici, espressi con misura ma con fermezza; e scorrono, sotto la superficie di quell'universo in divisa, come un'epopea minore, laica e incontrollabile.
A chiusura d'ogni puntata, due preziosi minuti girati da sconosciuti cinematori degli anni Trenta, ritrovati e raccolti nei loro "Archivi Italiani" da Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. È la coppia di ricercatori e di cineasti, cui avevamo dedicato su questa rivista (nel n. 18 dell'ottobre 1987) l'articolo I pionieri del passato. Insomma, davvero un bel programma domenicale.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006