Henri-Georges Clouzot. Data di nascita 20 novembre 1907 a Niort (Francia) ed è morto il 12 gennaio 1977 all'età di 69 anni a Parigi (Francia).
Alcuni avvenimenti nella biografia del regista Henri Georges Clouzot mandano una luce rivelatrice. Se a regola, in uno studio serio, si può trascurare il fatto che il padre era «commissaire priseur», qualcosa che corrisponde ai nostri periti nelle aste pubbliche, non può essere senza significato che il nostro si sia diplomato in scienze politiche dopo gli studi di diritto, che abbia trascorso cinque anni in sanatorio; che abbia, per anni undici, convissuto con l’attrice più «sexy» del cinema francese, Suzy Delair, in un edificio del quartiere di Notre-Dame; e che infine sia stato «epurato» nel 1944 per collaborazionismo sino alla «rentrée»di Quai des Orfèvres, cui toccò un premio a Venezia (1947).
Se, ripetiamo, si deve rifiutare la tentazione «balzachiana» di vedere nella professione paterna: oggetti, quadri, mobili, libri, intimità offerti al pubblico incanto, una sorta di prefigurazione, un «avant goût», delle crudeltà del Corbeau e di Manon; non è lecito rifiutarsi alle suggestioni del sanatorio, di Suzy Delair e dell’epurazione. Del resto tutto si lega, come dicono appunto i francesi: il desiderio della «verità effettuale» nella sfera della politica; l’amore per una donna, del tipo di cui si dice che è femmina almeno tre volte; la malattia; dopo anni di sterile attesa, 14 possibilità di esprimersi ma approfittando delle patrie sciagure. Sembra lecita a Clouzot l’affermazione: «Io sono Pierre Fresnay nel Corvo; io sono Jouvet in Quai des Orfèvres; io sono Auclair-Desgrieux in Manon...»
Nell’universo di Clouzot l’idiozia, la vanità, la ferocia, la lussuria fanno facilmente premio sulle cose oneste, umili, limpide e buone; mentre la natura, stelle vivide in un cielo d’agosto, onde del mare nella «palude» mediterranea, terre coltivate, pascoli, greggi, prosegue, indifferente, il proprio arcano cammino. Nelle due grandi linee della cultura francese, Descartes e Pascal, Corneille e Racine, Valéry e Proust, chiarezza di meriggio o tenebra fonda, cieco slancio vitale o chiaro giudizio; personaggio d’un dialogo eterno, «predestinato», Clouzot ha scelto da giovane la sua via: ha scelto Pascal contro Cartesio, il cavaliere francese che camminava di così buon passo, come ha detto Péguy, forse perché Pascal, che ha insegnato «le bon usage des maladies», ha conosciuto le fallacie del corpo; il tenero Racine, cui sarebbe piaciuta Cécile Aubry, invece di Corneille, tipico personaggio della «resistenza», cioè dell’enfasi. Come più tardi, autore cinematografico, rifuggirà dai maestri autoctoni, dal cartesiano René Clair, dal corneliano Renoir, inclinando verso i maestri dell’introspezione psicologica, E.A. Dupont, l’israelita tedesco che ha firmato Variété e Il fortunale sulla scogliera (le cui eroine, Lya De Putti e Tala Bireil, risultano caratteristici anticipi delle «vamp» clouzotiane: Lya, dell’Aubry di Manon; Tala, della Delair di Quai des Orf~vres), e Erich von Stroheim, il terribile austriaco di Sinfonia nuziale. A questa stregua, e dietro tali insegnamenti, Clouzot non ha potuto meravigliarsi né della malattia, Cassandra della morte fisica, né dell’epurazione, simbolo della morte sociale. Dovendo scegliere tra «onestà»patriottica e «onestà» personale, Clouzot, eroe moderno, che ha almeno sentito parlare del relativismo delle concezioni etiche e della «morale di classe», ha preferito correre il rischio di passare quasi per traditore che rinunziare ad esprimersi. E paradossalmente, forse per una di quelle «astuzie della ragione» di cui parla Hegel, egli ha trovato più liberalità nel curioso personaggio Otto Abetz, Reichfiihrer della Francia, che nei «democratici» produttori degli anni di pace. Ma ora sembra giunto il momento di parlare del primo importante film di Clouzot, Il corvo.
È chiaro che in nessun regime borghese il soggetto del Corvo avrebbe avuto l’approvazione della censura. Non c’è bisogno d’esser passato, come il nostro Clouzot, per le «Sciences Po» per sapere che, per ragioni «morali», cinema e teatro sono ancora soggetti a censura in tutti i paesi del mondo. In parole povere si ammette nei paesi retti a democrazia che i due tabù principali, politica e sesso, vengano trascinati nel fango nei libri e, dentro certi limiti, nei giornali, in quadri e in statue; ma non si ammette assolutamente che l’immaginazione di un autore trovi, sempre per travolgere i due tabù, sulla scena di prosa o nel cinematografo, l’ausilio di interpreti. In parole povere, sarà lecito a Miller o all’Aretino, al Lawrence di «Lady Chatterley» e al Sartre del «Muro», di scrivere e soprattutto di far stampare le -cose che hanno scritto, e a Francisco Goya di mostrarci l’invereconda «Maya desnuda» e al Canova i vezzi di Paolina Borghese; ma al cinema e al teatro mai ci accadrà di veder rappresentare certe verità spirituali e non spirituali, o di ascoltare certe invettive supreme. Potrà accaderci a teatro di sfiorare i tabù sessuali con certe scene dei «Parents terribles» di Cocteau o con, le «femmes nues», provviste tuttavia di un esile perizoma, del «Casino de Paris». Nel cinema, mai; non per nulla un tiranno dei nostri tempi lo ha definito «l’arma più forte». Una piccola audacia è bastata a render famoso Estasi, il mediocre film di Machaty; a render ancor più famosa la «donna nuda» del film, la bella boema Hedy Kiesler, che, chiamata d’urgenza a Hollywood, si fa chiamare Hedy Lamarr e, sempre bella e sempre cattiva attrice, finirà protagonista del Sansone e Dalila di De Mille. State pur certi tuttavia che non vedrete mai sullo schermo la scena, nel lawrenciano «Amante di Lady Chatterley», nella quale la eletta dama intreccia serti di violette sugli attributi più intimi del guardacaccia innamorato. È vero che per consolarci possiamo immaginare per giuoco chi potrebbe essere l’interprete di Lady Chatterley: Vivien Leigh, Deborah Kerr, Gree Garson? (L’autore dice che Lady Chatterley aveva colori naturali; di giorno, alla luce del sole, splendida, scadeva in abito da sera).
Ciò che i regimi «borghesi» non concedono, ecco che qualche volta, per ragioni che non han nulla da spartire con l’arte, vien permesso dai regimi illiberali. Essendo ancor caldo il mosto della rivoluzione, fu dato al grande Eisenstein di girare La Corazzata Potemkin; in speciali circostanze dello spirito pubblico, Frank Capra poté darci La donna del miracolo e Mervyn Le Roy Io sono un evaso e Vendetta. Mentre ancora è proibita in Italia la visione del Diable au corps, tanto meno sovversivo del libro, e la spiritosa Ronde di Max Ophüls. Indifferenti, - et pour cause! -, al prestigio sociale della Francia, i «nazi» della Continental lasciarono passare senza batter ciglio lo scabroso soggetto del Corvo. D’altra parte essi, della propensione latina e francese all’invio di lettere anonime, avevano diretta esperienza...
Nel Corvo si narra il caso di un paese terrorizzato da un misterioso autore di lettere: informato dei fatti d’ognuno come la polizia non l’è mai stata, lo sconosciuto turba la pace familiare, spinge la gente al crimine o al suicidio. Pare che il soggetto, caratteristico del resto del miglior Simenon, Clouzot l’abbia preso dalla cronaca. Ad ogni modo esso gli è servito mirabilmente per la rappresentazione, al vetriolo, della provincia francese. Da perfetto moralista, nello spirito d’un La Rochefoucauld o d’un Chamfort, e secondo l’esempio, vicino, fornito da «Vieille France» di Roger Martin Du Gard, Clouzot s’è impadronito dell’aneddoto per prepararci, aspro, caldo e forte, il piatto d’una «tranche de vie» provinciale. È chiaro che gli occupanti non potevano eccepir nulla contro quel bel tipo di francese che sembrava servirli così bene: lettere anonime non ne venivano inviate nella Germania «virtuosa»; nella quale del resto, non c’erano più da tempo i vice-prefetti imbelli e poco scrupolosi, i politici corrotti, i preti retori satireggiati da Clouzot. Come è chiaro che il Corvo doveva suscitare tempeste di indignazione patriottica alla sua riapparizione, nella Francia liberata dai carri armati USA ma che esaltava il piccolo esercito di Leclerc e i «maquisards». Clouzot, «epurato» col suo eccellente interprete, Pierre Fresnay, alzava le spalle disdegnoso; ma si guardava attorno con attenzione. Non bisognava perder nulla del tragicomico spettacolo che si svolgeva attorno: -«resistenti» che si davano al mercato nero; ragazze che si consolavano della partenza dei loro amanti della Wehrmacht tra le braccia degli americani; pétainisti che passavano al gollismo; speculatori, ruffiani, sgualdrine, che credevano giunta l’età dell’oro. Clouzot metteva da parte materiale stupendo: che gli sarebbe servito per la vendetta di Manon.
Pur essendo una pellicola originale e, a certi punti, profonda, Il corvo deve tuttavia la sua grande fama più alle passioni che a un reale valore d’arte. I difetti sono evidenti: l’eccessiva schematicità del racconto, che porta a certe inverosimiglianze (la cittadina dove l’azione si svolge sembra posta, non nella civilissima Francia, ma in qualche landa selvaggia, lontana dal telegrafo e dalla ferrovia...; accadono fatti enormi, ma non si vede spuntare nessun ispettore di polizia; tutto si svolge in famiglia). Anche il personaggio, così importante, della ragazza zoppa, innamorata del medico calunniato, ha trovato in Ginette Leclerc un’interprete inadeguata. La Leclerc, che in Prisons sans barreaux aveva fatto una comparsa eccezionale, invecchiata e imbruttita, non corrisponde fisicamente alla parte. Il cinema non è il teatro, che può illuderci, giocando sulla distanza e sugli orpelli, circa lo «charme» delle attrici. È spiacevole, ma è così. C’è tutto un lato, importantissimo, perché risulta il più immediato, dell’arte cinematografica che riguarda l’espressione «figurativa»; gli americani l’hanno capito benissimo. Essi hanno messo da parte la Garbo «divina» perché le pretese divistiche, da prima donna, dell’ottima interprete, non collimavano più con il suo fascino fisico; e corrivi, per tante ragioni, sui «soggetti», essi non transigono sugli attori: ciascuno di essi corrisponde all’idea che se n’è fatta lo spettatore: e i caratteristi sono mirabili anche nel film più scassato.
Questi i punti deboli del Corvo, pochi rispetto ai pregi. Giustamente Clouzot ha dichiarato di amare certi momenti più intensamente espressivi: il funerale, il dialogo lancinante tra il medico pazzo e il collega da lui perseguitato. Riassumendo in un’immagine la propria idea della vita, l’alienista dà un colpo alla lampada che illumina l’aula della
scuola dov’è avvenuta la prova di scrittura. La luce, proiettata dalla lampadina impazzita, corre qua e là. Qual è la linea che divide la ragione dalla follia? Qual è il punto, incalza l’alienista, in cui la luce cessa d’essere tale per diventar tenebra? Voi credete che la gente sia tutta buona o tutta cattiva. Dov’è la frontiera tra bene e male? Sa, lei, se è dalla parte buona o da quella cattiva?
In Quai des Orfèvres, che per noi rappresenta il risultato più cospicuo raggiunto sino ad oggi da Clouzot cineasta, il vetriolo del Corvo è scomparso. Per ritornare in circolazione, Clouzot dovette promettere al produttore un film savio, non troppo pessimista, privo di allusioni politiche e di ambizioni etiche. Clouzot, apparentemente, fornì una pellicola poliziesca a successo; in verità gli ambienti, paralleli, del varietà e della polizia, erano evocati, forse per la prima volta nel cinematografo, da un ,occhio comprensivo, da un’intelligenza lucida e nello stesso tempo pietosa. Mentre nel Corvo non c’era il personaggio «simpatico», in Quai des Orfèvres il nostro ha imbroccato uno dei caratteri più vivi ed originali della storia del cinema. È il commissario di polizia incaricato dell’inchiesta sull’assassinio del gobbo vizioso.
È anche, si capisce, una grande interpretazione di Jouvet, in una pellicola in cui tutti gli interpreti sono eccellenti. Mettendo in opera, per la prima volta nel cinema europeo, i principi enunciati da Frank Capra, il quale ha dimostrato che si possono far rendere al massimo gli attori non eccezionali, solo che si abbia l’accortezza di affidare ad essi parti vicine a ciò che effettivamente essi sono nella vita; Clouzot superò il buon risultato nel Corvo, per il quale aveva giocato uno scenario prestigioso, più originale e geniale.
Il commissario di Quai des Orfèvres non è infatti che una brava persona che non ha perso, nella sua dura professione, certe doti di gentilezza e di umana comprensione; ha a casa un bambino mulatto, che ama con tutto il cuore; l’unica volta che perde la pazienza e alza la voce, è quando la volgare, animalesca Suzy Delair ha parole sprezzanti per la polizia. È un film, Quai des Orfèvres, dove tutto è imbroccato: la trama, ripresa vagamente da un autore belga di libri gialli, Steeman, ma tutta rielaborata da Clouzot con l’aiuto di Jean Ferry; gli ambienti: la polizia giudiziaria rifatta con scrupolo estremo; gli attori: vicino a Jouvet, come s’è detto in stato di grazia, l’ex-allievo di Jouvet, Bernard Blier, uno di quei tipi di poveri diavoli, «lombrichi innamorati d’una stella», che vivono umilmente all’ombra della donna che adorano, pronti a sopportarne i capricci, ma estremamente pericolosi quando si tratta del possesso fisico, e pronti allora ad uccidere; e Suzy Delair, la grande trovata del film. Dopo l’apparizione di Quai des Orfèvres, per mesi, tutta la Francia canterà la canzone «canaille» di Suzy, «Avec son tra-la-la».
Avendo vissuto con la sua interprete, «more uxorio», tredici anni sani, Clouzot andava a colpo sicuro. La Delair aveva il fisico e l’animo della parte: la sua volgarità, il fondo facile e canagliesco, la metallica voce, furono elementi capitali del successo. Lucido e spregiudicato come sempre, forse un po’ invelenito dalla stolta persecuzione, Clouzot scelse con intelligente piacere le canzoni stupide ma efficienti, s’immerse voluttuosamente nella banalità del musichall di sobborgo, e con indagatrice crudeltà negli ingranaggi della macchina poliziesca. Per il proprio piacere, un po’ come gli antichi pittori mettevano l’immagine di un nemico nel fondo del quadro, tra il coro o i tipi minori, Clouzot introdusse nel racconto l’ambiguo personaggio della bella fotografa. Scelse poi malignamente, a raffigurare la lesbica, anch’essa innamorata dell’appetitosa Suzy, l’attrice a quegli anni più avvenente di Parigi, un’elegante immagine muliebre, una presenza bionda e rosa, Simone Renant. Così il povero Blier non doveva esser geloso soltanto degli spettatori anonimi, del gobbo bramoso incarnato da Dullin, ma di un rivale ben più insidioso. Un rivale che aveva le più tenere forme femminili, e che si insinuava con naturalezza sin nei segreti del talamo coniugale.
Al Festival di Venezia, nel 1947, dove Quai des Orfèvres ottenne il premio per il miglior film, abbiamo conosciuto
Clouzot di persona. Durando ancora le conseguenze della guerra, il Festival non si teneva quell’anno nel brutto palazzo del Lido, in una squallida cornice assolata, ma nel cuore della stupenda città. Fu, quella del ‘47, una mostra indimenticabile. C’erano degli ottimi film: Dies irae di Dreyer e Une partie de campagne di Renoir; al pomeriggio o al mattino venivano offerti film classici o d’avanguardia; il cinema appariva pieno di promesse: Le diable au corps aveva entusiasmato; e Venezia ci si offriva con tutta la sua lan-guida, incomparabile grazia. Clouzot lo conoscemmo un pomeriggio, a uno dei soliti ricevimenti; se ne stava in un angolo, come imbronciato. Di media statura, chiuso in un anonimo doppio petto grigio, con quel volto dal colorito olivastro, gli occhi intelligenti e vivaci sormontati dai folti sopraccigli a spazzola. Appariva molto lontano, nel fisico e nel morale, dal tipo di intellettuale francese quale se lo può figurare uno straniero colto, formatosi sui libri editi dalla «Nouvelle Revue Française». Rispondeva con distratta cortesia alle nostre domande. Sì, aveva fatto studi di matematica da giovane...; voleva fare il marinaio, ma l’avevano rifiutato per un difetto all’occhio sinistro; gli piaceva la letteratura, Proust tra i moderni; aveva scritto qualche commedia...; s’era occupato di cinema a Berlino, prima della guerra; ammirava Stroheim... Quanto a noi allora non sapevamo quasi nulla di lui; adesso gli avremmo fatto domande diverse.
Finalmente, la vendetta, Manon; cioè lo schiaffo in piena faccia agli ipocriti, ai falsi amici, ai piccoli mascalzoni che, quattro anni prima, avevano fatto di tutto per sbarazzarsi di lui e che oggi, dopo il successo di Quai des Orfèvres, gli si dimostravano di nuovo amici. Ma Clouzot oltre tutto ha una memoria di ferro. Che cosa è Manon? È soprattutto un giudizio sulla Francia «liberata». Il Corvo, che aveva fatto scorrere tanto inutile inchiostro,, non era che un’ipotesi, una possibile verità, portata intellettualmente, cioè fuori della realtà, alle estreme conseguenze. Un frutto, tipicamente francese, di una mente lucida e conseguente; ma Manon non è più un’ipotesi, è una esperienza vissuta, una testimonianza, corretta solo dallo stile. L’aneddoto è quello immaginato dal tenero abate Prévost, che non per niente è finito nei belati dei melodrammi popolari; ma la lezione è presa da un altro testo settecentesco, ben altrimenti crudele e veridico, Les liaisons dangereuses di Laclos. Des Grieux è la «resistenza» che fucila Brasillach, costringe al suicidio Drieu La Rochelle e alla «morte civile», per quattro lunghi anni, Clouzot, mentre la puttanella Manon trova facili assoluzioni. La Francia, attendista sino a ieri, come era filo-boche sino all’altro ieri, e come è oggi gollista, fa finta, mettendo al muro ingenui capri espiatori o criminali volgari, di essere ancora la Francia di Péguy o di AlainFournier. Intanto i cinici, che hanno capito tutto, fanno quattrini all’ombra delle bandiere e dei rifornimenti alleati. Essi hanno ai loro piedi la Parigi «insouciante» delle belle donne, delle «maisons de passe», dei locali di lusso. Fanatici dai lunghi capelli sono occupati a perseguitare i loro connazionali; le prigioni straripano; i furbi sguazzano nel disordine.
Sono stati mesi e giorni e anni di febbre. Forse era una febbre di convalescenza; ma chi in quei giorni aveva avuto paura, chi in quei giorni s’era dovuto nascondere, non s’è dimenticato né un episodio, né un gesto. Soprattutto gli s’è incollato addosso, e ne sentirà il livido afrore per sempre, il ghiaccio sudore della bestia braccata. Questi i puri? i salvatori? gli arcangeli? questi gli eroi? Andatelo a raccontare ad altri! È povera, vile umanità, non dissimile dall’altra, che ora è perseguitata dopo aver tanto perseguitato. La Francia è sempre quella del Corvo. Non tutta buona e non tutta cattiva: moralmente debole; soprattutto, incerta sulla via da seguire; nervosa, da tempo non più padrona del proprio destino. E, al solito, i migliori, da una parte e dall’altra, sono morti nelle battaglie di quella lunga, crudele guerra civile nella quale, da almeno dieci anni, si dibatte l’Europa.
Nel mondo della produzione cinematografica, che è il mondo dell’ignoranza e dell’accidia, il regno beato del bestione trionfante, il ricorso a un’opera letteraria illustre non è in genere un buon segno: significa, se mai, che il peccato del cinismo ha fatto alleanza con gli altri due. L’unica volta che alla Garbo hollywoodiana riuscì di fare qualcosa di decente fu con due romanzi di scarsa importanza: la Sapho di Daudet e Il cappello verde di Arlen; mentre le due Karenine, la muta e quella parlata, son semplicemente due orrori. Ma il caso della Manon clouzotiana è del tutto diverso: non c’è ombra di speculazione o cinismo. Dopo la trionfale «rentrée» di Quai des Orfèvres i produttori lasciarono mano libera all’artefice: il quale scelse la parte famosa, vero capolavoro del caso e della scelta dei posteri, nei «Mémoires d’un homme de qualité» perché con quella intelligenza sottile e indagatrice che è troppo facile riconoscergli, Clouzot aveva capito che il trepido, intellettuale, estenuato Settecento era capace di dargli quell’essenza crudele di cui aveva disperato bisogno. Mai come nel caso di Manon apparve vero quel detto che afferma essere la vendetta un piatto che si mangia freddo. A cinque anni dall’occupazione di Parigi e dalla persecuzione, Clouzot dà un ragguaglio sereno e impassibile degli anni terribili. Manon è un’opera d’arte; ma è anche un «j’accuse»; è una lirica evocazione; ma è anche un giudizio sulla Francia della falsa vittoria e del mercato nero. Il regista, in questa opera irritante e incantevole, difettosa e fortissima, ha mancato solo nella parte finale.
Un distratto mestiere l’ha sostenuto nel deserto, dove ha girato scene non prive di cattivo gusto e di enfasi. Ma chi vorrà sapere, nel cinema, qualcosa sulla Francia di De Gaulle e di Thorez, saprà d’ora in avanti dove mettere le mani; avrà una rappresentazione visiva che trova un .solo precedente nel «servizio» reso alla vecchia Austria, con Sinfonia nuziale, dal grande Stroheim. Nel deserto delle anime, nello spregio di ogni gentile sentimento, della carità cristiana e dell’umana pietà, la miserabile coppia celebra i trionfi della passione amorosa. Un sentimento che sa di sangue e di limo è un valore ancora limpido, che trova la sua purificazione nella morte. Le scene di Normandia; quelle di Parigi, con l’incontro nella «maison de passe», non scadono in nessun paragone. Clouzot ha riscosso tutti i suoi crediti, con gli interessi attivi e passivi.
Poi c’è stato Miquette et sa mère: un divertimento, una vacanza, e forse una distensione di nervi. È vero che non son, mancati i soliti entusiasti a scoprire in Miquette non si sa che, la «crudeltà», e il resto. In certe avventure si ritrovan sempre, puntuali, i tipi che vedono la luna a mezzogiorno. È vero invece che dopo Manon l’artista si trovò come svuotato. Gli era accaduto di vivere insieme con un nemico, e di trovarsi nella curiosa situazione di rimpiangerne la mancanza. Ora, sbrigate le cure più urgenti, come il mondo appariva piccolo! Gli avversari di ieri facevano sorrisi da comunicandi; il paese era precipitato nell’inerzia e nel benessere di sempre; Suzy, dopo undici anni, se n’era andata sbattendo la porta. Henri-Georges allora scoperse il Brasile. Finiti i guai s’accorse (ma si sbagliava...) che aveva fatto male a prendersela per quelle faccenduole francesi; mentre bastava passare un Oceano per dimenticare tutto. Così ha sposato la signora Vera Lapara, divorziata da un oscuro commediografo, e figlia del delegato brasiliano all’Onu. Ha cercato di fare un film sul Brasile ma, per certe difficoltà ambientali, non ha concluso nulla. Poi ha pubblicato un romanzo. Nel frattempo ha cercato di seppellire gli anni di prima, gli anni della dissipazione, del fervore romantico, della malattia e del bisogno. Per fortuna un genietto familiare, sfrontato, irridente e patetico, gli sta sempre alle costole.
Regista controverso, «scandaloso» e impertinente, giudicato in maniere opposte dai critici, accanito costruttore di marchingegni angosciosi a carattere ora giallo ora grand guignol, professionista impeccabile e duro «seviziatore» di attori e di maestranze, H.-G. Clouzot non ha mai nascosto di essere un uomo di destra e secondo atteggiamenti di destra ha sempre impostato le sue storie pessimistiche, feroci, talvolta sinistre. Voleva fare l'ufficiale di Marina, non poté per un difetto alla vista. Voleva essere diplomatico al servizio di un deputato conservatore, ma la salute lo tradì, costringendolo a trascorrere quattro anni in sanatorio e impedendogli in futuro un'attività regolare nel cinema. Esordisce come sceneggiatore e nel 1942 passa alla regia con un giallo di buona fattura (L'assassino abita al 21), nel quale Piene Fresnay, nei panni di un commissario, scopre una serie impressionante di delitti. Negativo e aspro è il giudizio sulla natura umana che ne emerge, e più ancora lo sarà in Il corvo (1943) che il regista gira durante l'occupazione per una società tedesca: una storia cupa che si svolge in una cittadina di provincia, sconvolta da uno stillicidio di lettere anonime. Per questo film Clouzot sarà, dopo la liberazione, radiato per sei mesi dall'industria. Non si arrenderà. Anzi, accentuerà l'umor nero e la sfiducia nell'umanità con quello che molti ritengono il suo capolavoro, Legittima difesa (1947), una storia poliziesca in cui si muove, con sardonica precisione; un vecchio ispettore (Louis Jouvet, eccellente) che vive solo, in compagnia di un orfanello.
Più amari e risentiti, al limite del cinismo, sono i successivi Vite vendute (1952), atroce avventura di due camionisti che in Guatemala trasportano un carico di esplosivi, e I diabolici (1954), una terribile macchinazione ordita da due amanti contro la moglie dell'uomo. Il meccanismo narrativo ha l'implacabilità di un congegno a orologeria, come sempre. Meno efficaci, più stanchi, appaiono gli altri film, e in particolare La verità (1960), con Brigitte Bardot, che frutta a Clouzot l'Oscar per il miglior film straniero. A lui si deve anche uno splendido documentario d'arte, Le Mistère Picasso.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995