
Torna al cinema il 2 febbraio il film dei Daniels vincitore di 2 Golden Globe e candidato a 11 premi Oscar. Con l’occasione, approfondiamo il significato di alphaverse e multiverso, partendo da alcuni punti di vista insoliti.
di Luigi Coluccio
Torna nelle sale Everything Everywhere All at Once, successo arraffa premi e incassi dei The Daniels (al secolo Daniel Kwan e Daniel Scheinert), fresco dell’investitura di undici nomination agli Oscar del prossimo 12 marzo.
Prodotto dai fratelli Russo, il film è un continuo andirivieni tra gli universi paralleli delle infinite vite di Evelyn Quan (Michelle Yeoh), che da proprietaria di una lavanderia a gettoni si ritrova a dover difendere il Multiverso da una minaccia oscura e terribile che presto potrebbe divorarlo.
Approfittiamo della riproposizione nei cinema per mettere mano agli appunti sulla vita, l’universo e tutto quanto presi a margine di Everything Everywhere All at Once. Si comincia.
Parte 1: Everything
Nella tavoletta VAT 6505 del Museo del Vicino Oriente di Berlino c’è scritto questo: “Il numero è 4;10. Qual è il suo inverso? Procedi come segue”. E, alla fine di una breve lista di operazioni, “Questo è il modo di procedere”. Già, questo era il modo di procedere delle civiltà mesopotamiche, che a partire dal 2.000 a.C. circa già tentavano di addomesticare i terreni trapezoidali, le eredità multiple e la costruzione di clessidre con una forma inconsapevole ma efficace di algoritmi. E cosa è un algoritmo? Una sequenza di calcoli precisi ed eseguibili, possibilmente con una fine, questo è un algoritmo.
Chissà quando hanno iniziato a buttare giù la lista di operazioni trans-universali gli abitanti dell’Alphaverse, l’universo che per primo ha scoperto l’esistenza dei suoi infiniti gemelli paralleli. È da qui che proviene Alpha Waymond (Jonathan Ke Quan), la versione homo superior di quel Waymond Wang (Jonathan Ke Quan, sempre lui) sempliciotto e dal cuore grande che da tanti anni è sposato con Evelyn.
Alpha Waymond e tutti gli altri Alpha del suo universo non sono la versione definitiva di noi stessi, ma il risultato di quel tentativo di canalizzare il senso del Multiverso – qualunque esso sia, anche soltanto la storia d’amore fra due persone – all’interno di una formula che tutti possono leggere, seguire ed eseguire. Questo è il modo di procedere per, a volte, non avere paura.
Parte 2: Everywhere
C’era una volta un uomo che credeva nel Multiverso, e quell’uomo era Hugh Everett III. Iniziatore dell’Interpretazione a Molti Mondi della meccanica quantistica, una lettura vertiginosa del classico paradosso di Schrödinger, quello dove il gatto è sia morto che vivo nella scatola, Everett III pensava che il gatto è sia vivo che morto perché l’universo, nel momento di scegliere, si divide in due, esplorando contemporaneamente la diade di possibilità. Da qui alla formulazione dell’immortalità quantistica il passo è perversamente breve, perché ogni cosa, la scatola, il gatto, noi stessi, non siamo altro che il riflesso della totalità di tutte le scatole, i gatti e noi stessi presenti nello sterminato e affollato Multiverso.
Lo ha capito Joy (Stephanie Hsu), la figlia di Evelyn e Waymond, o meglio lo hanno capito tutte le Joy possibili fuse in un unico essere, ora alle prese con l’infinito peso filosofico del che fare una volta raggiunta la conoscenza assoluta. Perché è questo che significa essere ovunque – aver visto, vissuto e pesato ogni singola esperienza possibile. E quindi non hai più bisogno di nessun algoritmo, perché non hai più paura.
Parte 3: All at Once
Nella vecchia casa di Carlos Argentino Daneri, in via Garay a Buenos Aires, se ti sdrai sul pavimento di mattonelle della cantina e fissi il diciannovesimo gradino della scala che ti ha portato lì, vedrai un Aleph – un punto che contiene tutti i punti del mondo, visti da tutti gli angoli. Lo riporta Borges nel racconto L’Aleph, e lo spiega così: “Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credetti ruotasse; poi compresi che quel movimento era un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse”.
L’Aleph è tutto quello che vedono Evelyn e Joy, l’Aleph è il cinema dei The Daniels. Fondo del pozzo dove si specchiano tutte le lune possibili e spioncino che nell’incredibilmente piccolo rivela l’infinitamente grande, Everything Everywhere All at Once diventa un simulacro che rimanda solo ad altri simulacri: costruito su rifrazioni e riflessioni di specchi, CCTV, sguardi in macchina, formati cinematografici, questo labirinto di sfolgorii ad ogni angolo ti fa incontrare tutto il cinema che c’è, c’è stato e ci sarà mai, dalle arti marziali all’horror, dall’avventura alla fantascienza, dal dramma familiare alla critica sociale, passando per Wong Kar-wai, la Marvel, Grosso guaio a Chinatown, Bollywood, Alan Yang e tutti i bambini interpretati da Jonathan Ke Quan. Il Multiverso e l’Aleph sono il cinema e il cinema è tutto, ovunque e allo stesso momento.