Titolo originale | Min stulna revolutions |
Anno | 2013 |
Genere | Documentario |
Produzione | Svezia |
Durata | 75 minuti |
Regia di | Nahid Persson |
MYmonetro | 2,96 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento giovedì 5 dicembre 2013
Un percorso a ritroso nel tempo, sulle tracce di amici e familiari, compagni di lotta.
CONSIGLIATO SÌ
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Nel 1979, la rivoluzione islamica iraniana pose fine alla monarchia persiana dello Shah Mohammad Reza Pahlavi, imponendo la costituzione coranica sotto la figura dell'Ayatollah Khomeini. Il desiderio di democrazia del popolo subì un colpo ancora maggiore: percepita la nuova deriva autoritaria, Nahid Persson Sarvestani, giovane attivista, riuscì all'epoca a fuggire dall'Iran. Ma le recenti proteste, la portano oggi a tornare sulla sua storia, a ricercare le compagne e le tracce del fratello Rostman, giustiziato dal regime dopo sei mesi di prigionia.
My Stolen Revolution, "la mia rivoluzione rubata", è la narrazione di un lunghissimo percorso compiuto per elaborare un senso di colpa, quella di un viaggio per conoscere un passato, atroce, per cui si continua a soffrire ogni giorno. Il lavoro di documentazione - i racconti delle torture subite, dei mesi trascorsi in carcere, degli stupri e delle esecuzioni - è proposto mediante l'idea di rintracciare e incontrare le compagne che, invece, furono imprigionate, dando al ruolo della regista sfumature inaspettate. Alla ricerca disperata di un'esperienza non vissuta, che si vuole comunque far emergere con il fine di superarla, Nahid Persson Sarvestani ascolta come fa lo spettatore, sollecita confessioni, tanto in prima persona quanto con una macchina da presa disancorata da preoccupazioni formali. Sguardi in camera, punti di vista arbitrari e ricostruzioni di momenti drammaturgici salienti per il discorso complessivo, tuttavia, non inficiano la presa di un diario vergato per conoscere e, forse, liberarsi. In questo senso va, soprattutto, la volontà di sapere in che modo morì quel fratello Rostman che mai si piegò alle torture: del resto, dicono le attiviste, l'unica modalità per combattere il dolore della prigionia è quello di rifugiarsi nelle certezze delle proprie convinzioni. È un grido di allarme quello del film, emesso attraverso l'analisi di un passato che non può e non deve coincidere con il presente. Eppure, le immagini di allora hanno una brutale assonanza con quelle recenti, pongono domande cui è difficile o impossibile rispondere, cambiando colore a un incontro tra sopravvissute guidato da un forte sentimento di indignazione e da un'impietosa indagine sulle conseguenze della mancanza di libertà.
Come in altri documentari incentrati su testimonianze così dure affiora, in My Stolen Revolution, la capacità del cinema di assecondare un singolare modello di terapia di gruppo in cui ha poca rilevanza la forma scelta, la sequenza accessoria oppure il montaggio non ispirato. Autentico e riuscito.