The Tree of Life

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troppo di tutto, comprese le banalità Valutazione 2 stelle su cinque

di olgadik


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giovedì 26 maggio 2011

  Il film di Malick, salvo alcune caratteristiche senz’altro particolari nel linguaggio e nella tessitura dei contenuti, a me non è piaciuto poiché l’ho trovato presuntuosa, scucito, fortemente condizionato dall’assunto filosofico. Al centro la storia di una famiglia americana anni ’50, Texas, che assurge a paradigma universale nel rapporto tra Dio e l’Uomo, tra la Natura e la Grazia, la Vita e la Morte. Il tutto condito con effetti speciali quasi da cortometraggio divulgativo. La storia cosmica viene rappresentata servendosi di varie categorie: immagini ottenute da telescopi e sonde spaziali, processi derivati dall’osservazione al microscopio, altri effetti ancora ispirati alla storia naturale. A tutto ciò è affidato il compito di descrivere, tra il visionario e lo scientifico, come si arriva alla nascita e al pullulare della vita ai vari livelli ed è su questo sfondo che si sviluppa la storia della piccola famiglia di riferimento. La prima metà del film è quasi tutta dedicata al cosmo, senza dialoghi, con sottolineature musicali forti, perlopiù efficaci. Qua e là salti temporali e contenutistici introducono flash sulla famiglia di Jack (padre madre e due suoi fratelli), su Jack divenuto un uomo che cerca in una città di grattacieli di vetro e di uffici supertecnologici, un senso alla sua vita passata presente e futura. Il montaggio, che è uno degli aspetti molto personali della regia di Malick, è emotivo, spezzato, pur con nessi non sempre funzionanti o facili da cogliere, ma questo sembra poco importante, perché lo spettatore sta lì quasi narcotizzato da questa orgia di immagini selezionate tra chilometri di pellicola girata con tutte le tecniche che il regista controlla da smaliziato artigiano. Personalissimo è l’uso della luce naturale, i colori smorzati o chiarissimi, i volti frugati senza l’aiuto di lampade messe al posto giusto e quindi esposti in tutta la loro impurità e fisicità. Tra lampi di buon cinema, il resto del racconto (seconda parte) scorre come una specie di Amarcord americano, fortemente segnato dalla  religiosità protestante, da temi teologici, che affiorano nello scarno dialogo tra l’uomo e il Dio della Bibbia e che ricalcano  domande scontatissime,quelle che qualsiasi adolescente si pone e risolve poi a suo modo nella crescita. Come può Dio volere il Male e la Morte? Perché sparge sale nelle ferite invece di sanarle? E via di questo passo. Alcuni tratti poetici fanno tenerezza; altri risultano già visti e abusati, per cui sottrarli a una sostanziale monotonia risulta difficile anche a una personalità come Malick. Attraverso la crescita del protagonista bambino si arriva alla “illuminazione” finale e qui sta a mio parere il peggio del film, cioè il tentativo di rappresentare l’Aldilà all’americana, con una presunzione e una ingenuità maldestre che rendono questa passeggiata onirica quasi risibile. In un tripudio di suoni da chiesa. Ancora una volta, come in Hereafter’ultima opera di Eastwood, non si sfugge alla tentazione di rappresentare in immagini ciò che solo a stento la parola riesce a suggerire. E io non trovo che a un regista famoso vada tutto perdonato, né dimentico che per creare questo piatto mal cucinato, Malick ha avuto a disposizione cifre che altri autori possono solo sognare (si parla di 150 milioni di dollari). Tra gli attori, degni di nota quelli che impersonano i tre figli; gli altri risultano invece monocordi, sovrastati dalle immagini, imbrigliati in personaggi scarsamente sfaccettati.          

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berto0 mercoledì 1 giugno 2011
nessun finale all'americana
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IL finale del film deve essere interpretrato nel modo corretto. Lungi dal volerlo rappresentare in chiave new age, in modo ingenuo e patinato, il suo obiettivo era quello di indicare, come già tentato in tutto il film, che le categorie spazio-temporali (kantiane) non sono altro che il mondo come è rappresentato ed interpretrato dal soggetto uomo. Ma il tempo, così come lo spazio, non esistono in sè; la scienza e la filofofia lo insegnano. Pertanto Malick ha ricreato un luogo non storico, un non-luogo fisico, dove il passato, presente e futuro confluiscono insieme e dove, appunto, le coordinate spazio-temporali che utilizziamo per analizzare il quotidiano non esistono. Per vedere questo film, che non è film narrativo nel senso classico del termine, bisogna strapparsi i vestiti di dosso e vomitare la propria cultura-sovrastruttura.

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