Anno | 2011 |
Genere | Drammatico |
Produzione | Giappone |
Regia di | Hitoshi Kitagawa |
Attori | Keita Kasatsugu, Keiko Sugawara, Shintaro Yonemoto, Takahiro Ono, Tetsuro Takei . |
MYmonetro | 2,00 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
|
Ultimo aggiornamento mercoledì 3 aprile 2013
CONSIGLIATO NÌ
|
A seguito di un drammatico trauma infantile - l'annegamento del fratello durante una discola nuotata nel fiume -, il giovane operaio Kotani segue ormai ciecamente l'ordine impartitogli dalla madre: "Fai sempre quel che ti vien detto". Una consegna che Kotani segue alla lettera, rendendosi umile e mesto oggetto di scherno e umiliazioni da parte dei colleghi. L'ubbidienza di Kotani raggiunge però una pericolosa svolta allorché un collega lo implora di ucciderlo.
Opera prima a bassissimo costo del giapponese Kitagawa Hiroshi, Damn Life parte da uno spunto provocatorio e decisamente sovversivo, soprattutto in un contesto sociale improntato all'omologazione e al rispetto delle regole come quello nipponico. Cosa succederebbe, infatti, se un individuo davvero ubbidisse - quasi come un automa - a tutti gli ordini che gli vengono impartiti? Dapprima, lo script di Kitagawa esplora le possibilità dell'equivoco linguistico ("Kotani, dai un'occhiata agli attrezzi!", e Kotani si pianta per interminabili minuti ad osservare gli strumenti di lavoro; "Kotani, il tè" e Kotani procede a scolarsi il tè direttamente dalla caraffa, anziché passarlo al collega), poi innesca una meccanica di dominazione che costeggia il sadomasochismo (con culmine nella vestizione di Kotani in mutande di cemento). Nonostante gli evidenti limiti di una produzione poverissima e qualche svarione tecnico che sa di cinema amatoriale, la prima metà del film incita a seguirne lo sviluppo, se non altro per la curiosità di scoprire come una situazione limite possa essere portata avanti.
Quando, però, Kotani scopre che non solo fare quel che gli è detto lo fa star bene, ma anche che uccidere lo fa sentire bene e che vuole farlo ancora e ancora, l'impianto formale e concettuale del film crolla sotto il peso di un palese deficit di realizzazione. Se nella prima metà taluni svarioni di tono potevano essere giustificati da un'esplorazione del lato oscuro del ludico (come conferma il reiterato uso straniante di musiche briose in circostanze disturbanti o violente), nella seconda parte la dissonanza di registri e l'utilizzo di effetti digitali purtroppo non propriamente soddisfacenti pregiudicano goffamente una premessa che avrebbe potuto condurre a ben altri risultati. Purtroppo, Kitagawa, per il finale, sceglie una prevedibile catarsi che si ricollega al prologo, inscrivendo quindi una vicenda in cui assurdo e immotivato avrebbero potuto innescare un teorema dissacrante in una cornice narrativa di elementare psicologismo.