Eroe a tutto tondo, colto e pistolero, medico e dotato dello spirito d’avventura tipico dei romanzi d’appendice, Karl Sternau potrebbe essere l’antagonista buono di uno qualunque degli antieroi del western all’italiana. I violenti di Rio Bravo è un esempio tra i più significativi di quella serie di coproduzioni italo tedesche nate nei primi anni Sessanta che per analogia con “spaghetti western” qualche buontempone avrebbe negli anni successivi ribattezzato “kraut western”. In gran parte vengono girati a basso costo in set costruiti velocemente nelle foreste e a piedi delle montagne che circondano la zona dei laghi di Plitvice, una delle meraviglie naturali tutelate dall’Unesco, a quei tempi in Jugoslavia e oggi in Croazia. Questi lungometraggi fanno parte a pieno titolo della grande famiglia del western all’italiana, anche se si muovono su una strada diversa ma parallela a quella percorsa da Leone, Corbucci, Sollima e da tutti i registi che hanno contribuito a definire i codici di genere predominanti. Con loro hanno in comune la struttura delle storie raccontate, tesa, ricca di colpi di scena, con ripetuti cambi di ruolo e un richiamo esplicito alla tradizione dei romanzi d’appendice. Li accomuna anche la riscrittura della ragione sociale del western americano con la cancellazione delle tematica della frontiera, del tutto estranea alle tradizioni culturali e dei romanzi d’avventura italiani ed europei in genere. A differenza della strada percorsa da Leone e soci, però, nei cosiddetti “kraut western” c’è un maggiore rispetto formale dell’impostazione classica hollywoodiana come dimostrano gli abiti di scena (decisamente più curati rispetto ai classici dei film ispirati al successo di Per un pugno di dollari) e la presenza degli indiani, in ruoli antagonisti o di contorno rispetto alla struttura primaria della narrazione filmica.
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