Alessandro Blasetti è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, montatore, è nato il 3 luglio 1900 a Roma (Italia) ed è morto il 1 febbraio 1987 all'età di 86 anni a Roma (Italia).
Alessandro Blasetti, che aveva dato al cinema italiano alcune tra le sue opere più vive (persino in quell'epoca smorta che veniva definita con ironia dei « telefoni bianchi ») ha continuato anche in questi anni a realizzare dei film in cui, quando non prevaleva l'impegno morale ed umano da cui spesso era stato sostenuto, prevaleva almeno quell'impegno stilistico che, anche in pieno neorealismo gli aveva consentito di conservare alle sue immagini una ineccepibile perfezione formale.
Dopo essere stato così, il colorito inventore di alcuni tra i « generi » più fortunati del nostro cinema, eccolo scoprire un tipo abbastanza insolito di racconto cinematografico, quello ispirato a testi letterari piuttosto brevi, sì da formare dei film a episodi tutti costruiti su opere di gusto sicuro. Altri tempi - il primo della serie - si rifà ai racconti dei più noti scrittori italiani dell'Ottocento e del primo Novecento, e, pur non avendo ovviamente un'unità narrativa esteriore data la voluta differenza dei temi e degli argomenti, raggiunge quasi sempre una sua unità estetica per merito del fervore figurativo, del brio e della fantasia non di rado satirica con cui il regista ha saputo condurre ed equilibrare la danza dei suoi personaggi.
Nello stesso clima Tempi nostri, un secondo « zibaldone » dedicato questa volta non più ai tempi dei nonni, ma a quelli attuali e animato, perciò, da quelle intenzioni polemiche che sempre Blasetti rivela quando tratta di cose contemporanee: la faccia della nostra epoca, egli dice, è ancora segnata dalla guerra; le sue conseguenze le possiamo trovare dovunque, ma il dolore, sua prima conseguenza, non deve assolutamente portarci alla disperazione perché in ognuno di noi - insiste Blasetti ci sono ancora i motivi profondi per far fronte alla vita. Osserviamo perciò, la protagonista del primo episodio (Mara, di Pratolini) : è una brava ragazza di paese venuta in città per fame. Non ha trovato un lavoro onesto e si è messa a battere il marciapiede. Ma incontra un bravo uomo che si innamora di lei e la aiuterà a rifarsi una vita. E i personaggi del Pupo (liberamente ridotto da un racconto di Moravia) non sono forse una coppia di sposi che, spinti dalla miseria, abbandonano il loro bambino alla carità pubblica? Ma hanno appena compiuto il gesto che tutti e due se ne pentono e di corsa vi pongono riparo. Così in Casa d'altri (da una novella di d'Arzo) non c'è una misera vecchia che vorrebbe uccidersi perché troppo povera e stanca e ritrova, invece, fiducia quando il suo parroco riesce quasi praticamente a dimostrarle che tutti possono essere utili agli altri? E così via via, con gli altri episodi, sorretti sempre da un cordiale ottimismo. Certo il film può sembrare abbastanza ineguale, ma alcune sue pagine respirano un sincero ardore drammatico; e son quelle che rimarranno.
Rimarranno di meno, invece, quelle affidate soltanto alla più scherzosa giocondità, sul piano della commedia all'italiana, in Peccato che sia una canaglia, o quelle, complicate da significati polemici, in Io amo, tu ami, in cui Blasetti, tornando ancora una volta al film a episodi, contaminato da una sorta di inchiesta su e giù per il mondo, non è approdato del tutto a quei risultati anche umani e sociali che si proponeva.
La sua, però, resta una vena ancora vivace e frizzante che, sia quando esprime temi leggeri, sia quando affronta problemi particolarmente impegnati, approda il più delle volte a risultati positivi,
Da Cinema italiano 1952-1965, oggi, Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, Roma 1966
A Roma, dove si laurea in giurisprudenza, come si conviene a un figlio della piccola borghesia, non esercita l'avvocatura, ma, appena possibile, la critica cinematografica. Giovanissimo, dirige tre riviste e, a 29 anni, fonda una cooperativa per girare un film sperimentale, Sole. L'anno successivo, con il sonoro, guida Ettore Petrolini in una autocelebrazione intitolata, dalla più nota macchietta dell'attore, Nerone (1930). Eclettico come gli piace essere, e come sempre sarà, passa dal drammatico Terra madre (1931) allo storico e ingenuo 1860 (1934), rievocazione dell'epopea garibaldina in Sicilia narrata attraverso le Noterelle di G.C. Abba, all'appassionato e goffo osanna al fascismo di Vecchia guardia (1935), a due scapigliate divagazioni fra storia, romanzo e pittura, Ettore Fieramosca (1938) e Un'avventura di Salvator Rosa (1940). Amando il fasto, s'inventa un personale, farraginoso Medioevo per il kolossal La corona di ferro (1941) ma presta anche orecchio, con una sensibilità sorprendente, alla sirena zavattiniana per una graziosa storiella di piccola gente, fra città e campagna, che, al modo di Frank Capra, si traduce in una elegia non priva di significati sociali (Quattro passi fra le nuvole, 1942) e sarà inclusa fra gli antesignani del neorealismo.
Blasetti è, in questi anni d'anteguerra e di guerra, il regista più interessante del cinema italiano (solo Mario Camerini gli può contendere, accentuando i toni derivanti dal Capra più intimista, il primato). Nel dopoguerra, sopravanzato dall'ondata neorealista, si difende sia alzando la voce, al modo di La corona di ferro, per pasticciare nella romanità di Fabiola (1949), sia riscoprendo i piaceri della commedia, ora in compagnia del folletto Zavattini (l'affettuoso e divertente Prima comunione, 1950), ora in quella di Susi Cecchi d'Amico (per due acute commedie interpretate da una baldanzosa Sophia Loren: Peccato che sia una canaglia, 1955, e La fortuna di essere donna, 1965). Sperimentale come è sempre stato, si cimenta positivamente nel film a episodi (Altri tempi, 1952 Tempi nostri, 1954) e in un curioso genere di documentario che avrà molta fortuna (suo è il prototipo, Europa di notte, 1958). Professionista collaudato, accetta gli incarichi che l'industria gli affida, e si disimpegna sempre con pulizia.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
È probabile che per capire una persona - anche se la conosciamo benissimo e da moltissimo tempo e soprattutto in questo caso perché i ricordi sovrapponendosi e moltiplicandosi finiscono per confonderne l'immagine - è probabile che per capire una persona il metodo più sicuro sia quello di riuscire a ricordare l'impressione che ci ha fatto la prima volta che l'abbiamo vista.
Blasetti? Il mio caro, il mio dolce, il mio assurdo, il mio impossibile, il mio irritante, il mio aggressivo, il mio disarmato Blasetti!
Oh, per riuscire a ricordare l'impressione che mi ha fatto la prima volta che l'ho visto, non è necessario che io ci pensi molto. Già questa è una grande fortuna. Già questo è un segno... «Un segno di che cosa?» mi domanda Blasetti a bruciapelo, magicamente entrato in comunicazione con me. È proprio la sua voce, romana ma non molle. «Un segno di che cosa?» ripete diffidente, dura. E insiste: «Un segno di che cosa?».
«Il segno dell'essenziale, caro Sandro!» ti rispondo. Perché tu sei una persona che, appena vista, non la si può dimenticare.
Ricordo con assoluta precisione la prima volta che ti ho visto. Fu una mattina dell'estate del 1931, una mattina per modo di dire, una mattina tra l'una e le due del pomeriggio quando, appunto verso quell'ora - si fosse in lavorazione, si fosse in sceneggiatura, in proiezione, in preparazione, in montaggio - si usciva dagli stabilimenti della Cines di via Veio e si andava a colazione fuori, in qualche vicina trattoria. Tu, per la verità, quando lavoravi alla Cines di via Veio, preferivi fare colazione nel ristorante interno, da Giulio Mostocotto. Diciamo che la prima volta che ti ho visto è stato così: una mattina dell'estate del 1931, tra l'una e le due del pomeriggio, io uscivo dalla Cines per andare a colazione da Bragalone: e tu, proprio in quel momento, tornavi da una ricerca di esterni e entravi nello stabilimento per fare colazione.
Ti ho visto nella portineria, al cospetto del gran portiere Pappalardo. Io ero già stato in America due anni, ma ero arrivato alla Cines e lavoravo nel cinema da pochissimi giorni. Tu avevi già fatto Sole. Berretto da ciclista, cintura con borchie, mirini esposimetri fischietti che ti prendevano intorno al collo da varie collane, alti gambali neri di cuoio... Non potevo non vederti. E non tanto per il tuo abbigliamento quanto per il modo con cui entravi al tuo solito en coup de vent e, frattanto, parlando con voce tonante a tre o quattro che ti seguivano, amici o aiutanti. Il tuo ingresso nella portineria mi obbligò, per potere passare io e uscire in strada, a fermarmi e a aspettare che tu col tuo seguito foste passati. C'era qualcuno con me, anche se non ancora dietro a me. Gli domandai chi fosse quel tipo. E mi fu detto il tuo nome, che naturalmente, appena ero arrivato a Roma per lavorare nel cinema come terzo assistente di Camerini, avevo imparato, subito dopo quello di Camerini, a conoscere.
E quale fu, dunque, l'impressione che ebbi di te quella prima volta che ti vidi?
Rispondo indirettamente. Stamane, qui nel mio studio di Tellaro, prima che tu entrassi brutalmente in comunicazione quasi telepatica con me e mentre stavo raccogliendo le idee e cercavo gli aggettivi per definire appunto quella impressione, ho urtato in uno scoglio, in un dato di fatto, in una sorprendente scoperta filologica: se eravamo nel 1931, se tu sei nato nel 1900, se festeggi oggi i tuoi ottanta, vuoi dire che ne avevi, allora, già trentuno. Enorme! Enorme perché, intimamente connessa con l'apparizione della tua figura in stivaloni nella portineria di via Veio - avevi anche, ora li vedo, pantaloni da cavallerizzo di color nocciola, e la tua figura bronzata entrava nella relativa semioscurità della portineria stagliandosi sullo sfondo di una luce accecante, accecante come soltanto il sole di Roma in via Veio in quell'ora in luglio e nel 1931 poteva accecare - intimamente connessa con l'apparizione della tua figura, colpiva l'impressione che tu eri giovanissimo, eri ancora un adolescente malgrado il tuo successo e la tua notorietà, eri soltanto un ragazzo che giocava a fare il cinema terribilmente sul serio.
Può anche darsi che questa impressione della tua estrema giovinezza, io la avessi perché istintivamente ti confrontavo a Camerini. Camerini era la persona alla quale ero stato presentato, pochi giorni prima, per lavorare come suo terzo assistente. Camerini aveva allora trentasei anni ma, di fronte a te, mi sembrava addirittura appartenere a un'altra epoca: aveva fatto, nei bersaglieri, tutta la guerra 1915-18, dieci attacchi alla baionetta. Può anche darsi che il paragone con Camerini influisse ma, indipendentemente da Camerini e da tutti gli altri personaggi del cinema, tu mi sei apparso nella portineria di via Veio come un esplosivo e addirittura intollerabile adolescent prodige. Adolescente, quindi più giovane di me che avevo venticinque anni.
Che cos'è che caratterizza un'adolescenza eccezionale come la tua? Che cos'è che caratterizza quella manifestazione fulminea, sommaria, riassuntiva-in-precedenza, di tutti i fenomeni della gioventù?
L'ingenuità; la buona fede; l'incapacità di vivere senza entusiasmo; la facilità di accettare tutte le ideologie in cui una dopo l'altra ci si imbatte; l'abbandono, uno dopo l'altro, a tutti i miti e di tutti i miti.
Siamo poi diventati molto amici e sono stato, sei anni dopo, anche tuo assistente, primo assistente o, come si suoi dire, aiuto. Ma purtroppo non mi hai mai raccontato nulla di te e della tua vita privata. Ho qualche vago ricordo, qualcuno a suo tempo mi disse che avevi fatto studi di ragioneria e che in principio eri impiegato di banca... Mi sembra impossibile, e probabilmente sbaglio. In ogni caso, non so nulla dei tuoi genitori, delle famiglie da cui vieni, della tua fanciullezza. Una cosa è certa: che sei nato per il cinema; che tra te e il cinema esiste una specie di identità: anche il cinema, come te, era adolescente. E ancor oggi il cinema è giovane, e per la sua stessa costituzione culturale ha bisogno di abbandonarsi via via a tutte le fedi e a tutti i miti, come te.
Se scorro l'elenco dei tuoi film vedo, con sbalordimento, che hai fatto tutto, che hai diretto film di tutti i possibili generi: il comico, il tragico, il politico, l'intimista, il corale, il nostalgico, l'avventuroso, il farsesco, il film a episodi, l'acrobazia in due metri quadrati come Prima comunione, il grande affresco storico-fantastico come La corona di ferro, un vaudeville meraviglioso senza couplets musicali come il Salvator Rosa, la malinconica vicenda cechoviana dei Quattro passi tra le nuvole, la disperata meditazione di Casa d'altri, eccetera, eccetera.
Frattanto, tutte le diverse ideologie, tutte le fedi diverse che hai sposato, sono crollate una dopo l'altra anche loro, per conto loro, mio caro Alessandro. Ma stranamente le tue opere non hanno sofferto di quel crollo. Stanno in piedi. Resistono e resisteranno. Non è necessario alle tue opere, alla loro vitalità, che si creda nel loro significato. Non è lì il loro segreto né il tuo segreto. Non è lì il loro vero significato. Che cosa importavano gli oggetti successivi della tua fede? Importava invece enormemente che tu avessi fede. Perché, in altre parole e in generale, non importa mai in che cosa uno creda. Ma bisogna assolutamente che uno creda. E tu, mio caro Alessandro... non ho mai conosciuto una persona più credente di te. Credente fino ad essere credulone, si ca-
pisce. Ma quando si vuole saltare un fosso - e credere significa appunto saltare un fosso - non si può prendere le misure: si salta al di là, e qualche volta ahimè anche troppo al di là. Tu insomma, eterno adolescente, hai sempre creduto nella vita: anche durante le epoche di più grave e di più giustificato sconforto. E chi volesse definire in qualche modo e misura il soffio ispiratore di tutti i tuoi film, chi volesse cercare di scoprire un'origine comune, unica, della loro strana energia, troverebbe alla fine che i tuoi film sono l'immagine di una adolescenza perenne fiduciosa e entusiasta.
Il giorno 3 di questo mese di luglio, tuo ottantesimo compleanno, sei stato onorato e festeggiato da tutti: e tutti, per l'occasione, ti hanno chiamato il decano della nostra cinematografia. Mi sono unito al coro tato corde, ma con una riserva. Con una riserva che non è una restrizione ma, al contrario, un ampliamento. Tu non sei il decano della nostra cinematografia. Il decano è Mario Camerini, nato nel 1895, cinque anni prima di te: Camerini, l'antico tenente dei bersaglieri che ha combattuto e visto la morte sulla Bainsizza. Tu sei tutto meno che il decano. Tu sei, semmai, l'incorreggibile, l'incorruttibile, sorprendente novizio, tu sei la cinetica fenice che risorge sempre dalle ceneri di qualunque pellicola.
Figurati che cosa mi è successo oggi, mettendomi a scrivere queste poche righe per te: ho trovato una nuova, estrema prova della tua energia! Come?
Ecco. Credo che tu sappia che ho avuto, tra le fortune della mia vita, quella di essere amico di Giacomo Noventa. Noventa è un poeta difficile, molte volte oscuro, che non si finisce mai di meditare e di scoprire. E oggi, pensando ai caratteri della tua eterna adolescenza, sono andato a rileggere una poesia di Noventa, la prima del suo volume Versi e poesie, quella che, imitando Goethe (Faust, il Prologo in teatro) invoca il ritorno della propria giovinezza. Stupendo il brano di Goethe: So gib mir auch die Zeiten wieder, Da ich noch selbst im Werden war... stupendo quello di Noventa: ... Ah, déme, alora, de novo i tempi!, Che mi nò gèro rivolto in mi...
Figurati dunque che in quella poesia di Noventa, l'ultimo verso non ero mai riuscito a capirlo!
Ebbene, oggi ho ripreso il volume di Noventa cercandovi, caro Sandro, la spiegazione della tua eterna, miracolosa adolescenza. E il bello, invece, è che ho capito finalmente quell'ultimo verso, e che sei stato proprio tu, tu per primo, a spiegarmelo!
Come dice Noventa? Ecco i tre ultimi versi: Ah, déme, alora, de novo i tempi!, Che gèro zòvene e no' fercavo Nei altri altro ch'el me valor.
Non cercare negli altri se non il proprio valore? Che cosa significa? Mi rompevo la testa.
Ma per Dio! Sei tu, caro Alessandro, tu che - al contrario degli uomini saggi e degli uomini maturi sempre curvi a coltivare il proprio giardino - tu che ti slanci verso l'altro, tu che ti protendi verso l'alto per mettere alla prova te stesso e il tuo valore del quale dubiti. Tutti i veri adolescenti e tutti gli eterni adolescenti dubitano del valore della propria giovinezza e cercano negli altri una continua conferma: come sei tu e come sempre hai fatto tu.
Ti abbraccio, e ti ringrazio della visita. Vieni anche in carne e ossa, ormai. Vieni a trovarmi a Tellaro, festeggeremo anche qui il tuo ottantesimo compleanno.
Luglio 1980
Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 2006
Il decano il padre, il maestro: tre appellativi che si addicevano tutti ad Alessandro Blasetti, il più vecchio e popolare dei registi cinematografici italiani, mancato la notte del 2 febbraio 1987 a Roma, dov'era nato nel remoto 1900. Difese a spada tratta il cinema nazionale, sempre e comunque. Ne salvò la disfatta, insieme con Mario Camerini, durante il periodo fascista. Insegnò il mestiere a tre generazioni di cineasti. Anche nel dopoguerra e fin quasi agli ultimi anni, mantenne una posizione di rilievo sul grande e sul piccolo schermo. Era titolare di un numero infinito di primati, tecnici e artistici.
Accostarsi globalmente alla sua figura è un compito insieme semplice e complicato. Semplice perché, nel bene e nel male, la sua personalità esuberante e aggressiva, ma straordinariamente generosa e onesta, si offre senza segreti, non nasconde misteri. Ma anche complicato, date le diverse esperienze e le non poche contraddizioni attraversate nella lunga attività. Blasetti, è vero, le abbracciava tutte con la medesima carica di sincerità, e tutte le padroneggiava con un mestiere sempre più robusto. Per lui il cinema era sì arte, ma soprattutto artigianato: difficile rintracciare sempre nei suoi trentacinque film, in mezzo secolo di carriera, il timbro costante e inconfondibile dell'autore. Più che un autore nel senso attuale del termine, egli è rimasto fino in fondo quel direttore - direttore di uomini e di strumenti - ch'era stato dal tempo della giovinezza.
Visceralmente preso dalla «settima arte», ne aveva perorato su giornali e riviste la rinascita in casa nostra, prima di tentarla di persona sul finire del 1928, col suo primo film Sole dedicato alla bonifica delle paludi Pontine. Il cinema italiano era allora a pezzi, e faticosamente cercava di uscire dal decennio più nero della sua storia.
Il baldanzoso esordiente aveva negli occhi i classici dell'espressionismo tedesco e forse anche quelli del grande «muto» rivoluzionario sovietico. Blasetti smentiva di aver visto i sovietici prima di Sole, assicurava di averli visti dopo e di essersi innamorato soprattutto del Cammino verso la vita di Nikolaj Ekk, giunto alla prima Mostra di Venezia nel 1932. Fatto sta, però, che nel frammento iniziale di Sole, l'unico sopravvissuto, la lezione russa sembra presente: nell'illuminazione, nell'uso di ambienti reali e di attori non professionisti, nel montaggio cui il regista cominciava ad accudire personalmente.
Ad ogni modo tali pratiche sono poi continuate nelle opere successive e particolarmente in Terra madre che nel 1930 riproponeva il tema rurale di Sole, in 1860 girato nel 1933 e che può considerarsi il risultato più alto di Blasetti e della «Cives» di Emilio Cecchi, in Vecchia guardia uscito nel 1935 come l'unico schietto film fascista del ventennio e che ai gerarchi fascisti non piacque. Anzi Luigi Freddi, il direttore generale del cinema di regime, pensò addirittura di proibirlo.
Blasetti credeva nel fascismo ed era un mussoliniano convinto, tanto da adombrare il «duce» nel Garibaldi di 1860, che tuttavia sullo schermo appariva soltanto di scorcio, e da concludere il suo film più bello con una incongrua sfilata di camicie nere (ovviamente soppressa nell'edizione che circola oggi) quali eredi delle camicie rosse garibaldine. Ci credette almeno fino a quando le polemiche suscitate da Vecchia guardia, che voleva essere un elogio dello squadrismo della prima ora, si aggiunsero alla guerra d'Africa che feriva i suoi sentimenti di pacifista. Del resto alcuni dei suoi amici e collaboratori erano antifascisti, come Umberto Barbaro che gli fece conoscere i film sovietici e come Aldo Vergano soggettista e cosceneggiatore di Sole, e che nell'immediato dopoguerra avrebbe diretto il primo modello di film di sinistra: il resistenziale e antiborghese Il sole sorge ancora.
Sole si guadagnò il calore della critica ma fu respinto dal pubblico. Già all'inizio, dunque, Blasetti si avvolgeva nella contraddizione. Col suo cinema mirava alle masse e raccoglieva gli applausi degli intellettuali. Più tardi sarebbe accaduto l'inverso: avrebbe fatto film molto spettacolari e con interpreti popolari, e la critica sarebbe rimasta più fredda o comunque esitante e divisa. Per la verità s'era rivolto a grandi attori anche nei primi tempi: a Ettore Petrolini per Nerone (1930), a Raffaele Viviani per La tavola dei poveri (1932). Ma lo aveva fatto ponendosi al loro servizio, così da perpetuarne la memoria sullo schermo. E oggi non si può rivedere il Nerone senza pensare che contenesse elementi di satira antidittatoriale, anche se ciò non era nelle intenzioni del regista nè del protagonista. Si può segnalare anche una curiosità filologica: Petrolini «diceva» i titoli di testa, precedendo d'una dozzina d'anni Orson Welles, che nell'Orgoglio degli Amberson reciterà quelli di coda. Quanto a La tavola dei poveri, il film offre uno spaccato di miseria napoletana che da un lato si ricollega al formidabile squarcio sul pasto dei poveri in È piccerella (1922) di Elvira Notari, e dall'altro prelude, nella dignitosa povertà del nobiluomo, a quella di Umberto D. (1951) di Vittorio De Sica. «Il povero che muore di fame, conservando la sua aria signorile», come spiegava Raffaele Viviani.
Ma la contraddizione più acuta si produceva tra il linguaggio d'avanguardia che Blasetti brandiva, e i contenuti di retroguardia ai quali troppo spesso si piegava. Egli aderiva alla politica «ruralista» del fascismo: se ne troverà qualche traccia perfino nel tardo Quattro passi tra le nuvole (1942), dove la campagna è ancora idilliaca rispetto alla città. Nei suoi film la lotta di classe era ammazzata in germe: vi trionfava l'interclassismo voluto dal regime, salvo che nelle «noterelle» di 1860, dove la plebe siciliana era la vera protagonista, anche se col caos di patiti e chiacchiere nel Risorgimento il regista intendeva alludere al dopoguerra prefascista. Inoltre il cinema di Blasetti era indubbiamente «virile» e molto spesso nel senso deteriore: l'autorità del padre padrone non veniva mai messa in dubbio e contestata. Ciò sarebbe avvenuto soltanto nei film del periodo bellico quali La corona di ferro (1941) in cui il tiranno usurpatore e fratricida impazzisce, o il già citato Quattro passi fra le nuvole dove il buon commesso viaggiatore difende la povera ragazza «disonorata» di fronte all'arcaica concezione dell'onore che ha il padre contadino. Nel 1943 il regista sì congederà dal ventennio facendosi perdonare l'eccesso di virilismo con un film di tutte donne: Nessuno torna indietro, tratto dal romanzo di Alba De Céspedes uscito nel 1938 e del quale ci dà ora una riedizione cinematografica il fine regista triestino Franco Giraldi.
Uomo, s'è detto, dai moltissimi primati, Blasetti è stato praticamente all'avanguardia in diversi generi e settori e in parecchie soluzioni tecniche e di linguaggio. Eppure, per via del suo bisogno di rivolgersi ad ampie platee che cominciò a soddisfare nel 1938 con lo spettacolare Ettore Fieramosca, egli si e sempre dichiarato contrario all'«avanguardia storica» fiorita in Europa negli anni Venti e arrivata al culmine nel momento di trapasso dal muto al sonoro. Per lui era viziata di intellettualismo. Ed è vero che quei film di rottura nascevano «per pochi» anche se poi magari, nel corso del tempo, si rivelarono indispensabili proprio alla crescita di quell'arte, per cui il nostro «regista con gli stivali» (aveva imparato a portarli nelle paludi Pontine e ne aveva conservato l'abitudine) si batteva dalla sua trincea. Pesò sempre su di lui, e ne limitò l'apporto creativo che dal suo talento era più che lecito aspettarsi, la sottovalutazione dell'esperienza «sperimentale», la stessa che aveva contribuito in modo decisivo alla fioritura del cinema davvero rivoluzionario in Urss, del quale pure egli fu il primo in Italia a cogliere i frutti maturi (esattamente come fu
l'anticipatore, con le sue lezioni di regia e di recitazione, del Centro che si chiamerà appunto Sperimentale!). E il paradosso è che, per il fascismo, proprio quel cinema che voleva servirlo e magari pungolarlo, si rivelava estraneo o pericoloso. Blasetti capi l'antifona e si adeguò alle nuove esigenze, mentre il regime s'interessava più direttamente dell' «arma più forte» (così definita da Mussolini che distorceva il concetto di «arte più importante» espresso da Lenin), fondando Cinecittà per i film d'evasione e di grande spettacolo, ai quali era assegnato il compito di allontanare il pubblico dalla realtà che si faceva sempre più inquietante. Ormai padrone del mestiere e dei suoi ritmi narrativi, il regista si diede al piacere di raccontare storie sempre più libere e fantasiose, raccogliendo per la prima volta un grande successo congiunto di pubblico e di critica con Un'avventura di Salvator Rosa (1939) la cui ariosa pittoricità era assai gradevole e in grado di sostituire i migliori prodotti hollywoodiani che stavano per essere scacciati dai nostri schermi. Ancor più inventivo e fiabesco, sebbene meno scorrevole, risultò La corona di ferro, che indubbiamente pescava nella mitologia tedesca ma che i nazisti furono ben lontani dal gradire. Forse per quel messaggio di non violenza che scaturiva tra le pieghe della saga medioevale. Ormai Blasetti dirigeva gli attori con tale autorevolezza da farne dei divi, sia pure su un piano autarchico e domestico. Tra i più validi si affermò Gino Cervi, protagonista di ben cinque film a partire da Aldebaran (1935) dov'era un ufficiale di Marina. Fu poi Ettore Fieramosca. Salvator Rosa, il crudele re Sademondo, ma anche l'intristito viaggiatore in dolciumi di una favola quotidiana non più «in» costume, ma «di» costume. Con la mediazione di Cesare Zavattini, in Quattro passi fra le nuvole Blasetti si accostava all'intimismo e al delicato bozzettismo sociale dell'altro regista-principe Camerini, e insieme faceva sentire che il neorealismo non sarebbe stato lontano. La televisione ha scelto questo piccolo gioiello per onorare il grande scomparso. Avrebbe anche potuto affidarsi al capolavoro 1860, se la stessa Raidue che ha assunto l'iniziativa non fosse appena reduce dalla presentazione in quattro puntate di un altro Garibaldi tra il 1860 e il 1861: Il Generale di Luigi Magni, che come concezione e come resa spettacolare è comunque agli antipodi del vecchio film garibaldino di Blasetti. Ma a lui, c'è da scommetterci, non sarebbe affatto dispiaciuto.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006
Da tempo ormai Alessandro Blasetti era un fascista largamente pentito. Nel 1942, con Quattro passi fra le nuvole, aveva anticipato il neorealismo, come poco dopo Vittorio De Sica con I bambini ci guardano e Luchino Visconti con Ossessione. Ma quando il vero neorealismo venne, con i capolavori della triade Rossellini - De Sica - Visconti, Blasetti vi partecipò subito, nel 1946, ma soltanto di riflesso (come del resto Camerini) con un film d'ispirazione cattolica, Un giorno nella vita, dove un gruppo di partigiani si rifugia in un collegio di suore. Gli uni e le altre sono attori e attrici di professione, e il racconto dell'olocausto delle religiose all'arrivo dei tedeschi potrebbe svolgersi in qualsiasi altra epoca. Un giorno nella vita ebbe il primo Nastro d'argento istituito dalla critica italiana al pari di Sciuscià di De Sica, ma era molto difficile inserirlo nella tendenza di punta del nostro cinema, né Blasetti stesso mai lo pretese.
Egli era ben conscio del proprio valore come dei propri limiti. Aveva già mostrato dei bambini alle prese con la Storia: il picciotto di 1860, il fanciullo di Vecchia guardia. E la litania religiosa che accompagna il congiunto sacrificio del partigiano (Gillo Pontecorvo) e del sacerdote (Carlo Lizzani) sul finire del film di Vergano Il sole sorge ancora, aveva un precedente sicuro in una sequenza siciliana all'inizio di 1860. Blasetti si sentiva il regista della conciliazione degli animi piuttosto che della denuncia sociale, e il paesaggio della quotidianità gli si era già aperto con una certa asprezza fin dal suo esordio in Sole. D'altra parte i film più forti del neorealismo non erano «popolari», esattamente come non lo erano stati i suoi; e lui, ormai, era un regista votato al successo. Non si può spiegare altrimenti che, in pieno neorealismo (dominante almeno sotto il profilo culturale), nel 1949 egli sia voluto ritornare a un kolossal romano quale Fabiola, e che l'anno successivo abbia preferito impiegare Aldo Fabrizi, il magnifico prete patriota di Roma città aperta, nei panni del commendatore filisteo immaginato da Zavattini per una commedia, d'altronde pungente, quale Prima comunione.
Nessuno, più di Blasetti, poteva cosi raffigurare il tipico regista all'italiana nel momento della caduta del neorealismo e del ritorno al cinema tradizionale. Lo intuì ancora una volta Zavattini e lo capi benissimo Visconti, affidandogli proprio questo personaggio in Bellissima (1951) e accompagnandolo col tema ironico di Dulcamara dall'Elisir d'amore di Donizetti. Nel melodramma satirico che ne deriva, la Magnani è la madre plebea in lotta per il successo della figlioletta e Blasetti il pontefice massimo dell'ambiente di Cinecittà che non può far a meno di irridere al provino della bambina. Con molto fair play il «regista con gli stivali» si presta a una caricatura anche spietata sul piano personale, ben sapendo che gli autori del film colpiscono il cinismo dei cinematografari per giungere al recupero della dignità popolare, minacciata e quasi travolta dalle lusinghe di affermazione che il cinema offre.
Ma il fiero piglio direttoriale esibito sul set di Bellissima è lo stesso che consente all'indomito reduce, di tante battaglie di aprire nuove strade al cinema di intrattenimento. Convinto dell'importanza del testo nella fattura del film, di cui il regista non può essere l'autore unico, Blasetti ricorre in Altri tempi (1952) alla novellistica dell'Ottocento per un'antologia cineletteraria, uno «zibaldone n. 1» che poi proseguirà con scrittori del Novecento nel «n. 2» Tempi nostri (1954). Sono film a episodi uniti da un filo conduttore tuttavia esilissimo: l'obiettivo di fondo è quello di qualificare il prodotto medio, di innalzarlo culturalmente Però col racconto finale di Altri tempi, tratto da Il processo di Frine di Edoardo Scarfoglio, il regista contribuisce piuttosto a ricondurre De Sica, espostosi alla polemica democristiana, oltre che al fallimento commerciale, col puro e severo Umberto D., nell'alveo della parodia e nel ruolo di caratterista, e a lanciare con la Lollobrigida il tipo della «maggiorata fisica» destinato a dominare la cosiddetta «commedia all'italiana».
Sì, Blasetti anticipa, ma stavolta anticipa qualcosa che, in mani meno pulite delle sue, porterà all'evasione più interessata. La commedia «rosa» da lui proposta con la Loren e Mastroianni nei due titoli del 1955, Peccato che sia una canaglia (dove De Sica passa da Ladri di biciclette alla spensierata caricatura del padre-ladro) e La fortuna di essere donna, spianerà la strada ai film più corrivi e talvolta protervi che lo stesso De Sica dirigerà con la medesima coppia. E dopo il ritorno a Zavattini con la parentesi di Amore e chiacchiere nel 1957capiterà di peggio con le due antologie Europa di notte (1958) e Io amo, tu ami... (1961), la prima delle quali aveva già dato il via a una pletora di documentari sul «mondo di notte» falsamente erotici e sicuramente volgari. Del che Blasetti non può certo essere ritenuto responsabile, tanto più che lo spogliarello di Dolly Bell in Europa di notte (rimasto cosi impresso al regista bosniaco Kusturica) s'inseriva in un'inchiesta a largo raggio sugli spettacoli di varietà e non soltanto su quelli sexy, come si cominciò allora a chiamarli con un aggettivo che diventava sostantivo aperto a tutti gli usi e gli abusi.
Anzi, una gagliarda sensualità ha sempre fatto parte del bagaglio artistico blasettiano, mentre non senza qualche malizia spettacolare una certa vena erotica faceva capolino nel suo barocco cinematografico. In questo campo fu un precursore già sotto il fascismo. I fugaci nudi femminili, riservati alle negre in Aldebaran ma estesi alle bianche in Ettore Fieramosca e La corona di ferro, precedettero lo «scandaloso» colpo basso del seno improvvisamente disvelato della diva Clara Calamai nel dramma rinascimentale La cena delle beffe (1941), dove c'era anche la novità, sebbene più prudentemente celata, di una corrente (oggi si direbbe un feeling) omosessuale tra i due maschi, che naturalmente ne metteva in forse quella virilità così esaltata dal regime. Passando all'epoca clericale, i nudi di Fabiola venivano rimproverati sottobanco dal Centro cattolico ma tollerati e anzi consigliati nella pratica, anche in nome del sistema di coproduzione internazionale che proprio allora nasceva (artefice sempre Blasetti) con prospettive mercantili utili all'assestamento di un'industria clamorosamente assente nel momento neorealista. E il prosperoso seno della Lollo in Altri tempi fu un trionfale segno dei tempi nuovi che, superato appunto il pericolo del neorealismo. registravano con soddisfazione l'avvento stabilizzante e benedetto del sesso, in luogo dei mortificanti problemi sociali al centro di tutti i grandi film italiani.
Dopo essersi accostato alla televisione con due programmi di montaggio, La lunga strada del ritorno (1962) in tre puntate sui reduci di guerra e Gli italiani del cinema italiano (1964) in sei puntate sui film degli anni Trenta e Quaranta, il regista si accinge a congedarsi dal cinema con un film-testamento: Io, io, io... e gli altri (1966) che, come il titolo suggerisce, vuoi essere una radiografia dell'egoismo, o meglio dell'egocentrismo, della eccessiva e ridicola considerazione che ognuno ha di sé. Vi si accosta con la sincerità di chi, personalmente, smette di darsi importanza (sono parole sue) Ponendo fine alla propria carriera. Curioso trattato morale sotto forma di autoconfessione e di commedia patetica, che sforna una quantità di esperienze (proprie e altrui, private e pubbliche) in una trama di episodi brevi o brevissimi fino al flash, e che partendo dallo sfogo del piccolo ego sfiora dilemmi anche colossali (come guerra o pace, per dirne uno). Ma l'aspetto più commovente e simpatico è che questo addio auto-critico al cinema proviene da un uomo che ha dato al cinema il meglio di una lunga vita, senza ricavarne altro che una inesausta voglia di lavoro. Un uomo che in questo lavoro ha fatto anche troneggiare il proprio «io», ma che verso gli altri ha sempre dimostrato un altruismo raro, una rara felicità nell'entusiasmarsi dei successi altrui, fossero di suoi allievi o fossero di quelli che egli riconosceva maestri. Sono doti che nel cinema italiano hanno avuto in pochi, e forse nessuno al pari di lui.
Alessandro Blasetti chiudeva dunque ufficialmente col «cinematografo» (così amava chiamarlo, come Bresson, dal nome della sua amata rivista degli anni Venti), per l'ultima volta svelando, in quella che il sottotitolo modestamente definiva una semplice «conferenza con proiezioni», la più intima delle sue contraddizioni: un carattere egocentrico in conflitto con un temperamento generoso. Avrebbe diretto ancora La ragazza del bersagliere nel 1967 e Simon Bolivar nel 1969, ma soltanto da «professionista» e non più da quell'ingegnoso «dilettante» di talento ch'era sempre stato. E lo era stato anche come regista teatrale, anche come polemista e, a modo suo, teorico del film.
Poi, per tutto il corso degli anni Settanta, sentendosi a poco a poco mancare quelle forze che sul set cinematografico ne avevano fatto un gladiatore, tornò al più sedentario lavoro televisivo con una serie di film di repertorio, messi assieme però con l'antica passione. Evocò episodi di storia patria, come la fine dei Borboni nel 1860, spingendosi così dall'altra parte della barricata (cosa che Magni ha fatto congiuntamente all'epopea garibaldina nel suo recentissimo Il Generale). Nel 1972 si occupò di Storie dell'emigrazione in cinque puntate. Nel 1978 affrontò in tre puntate i Racconti di fantascienza come fossero familiari, cioè rapportabili sempre alla coscienza individuale. E in due antologie (1974 e 1980) elogiò L'arte di far ridere come la più ardua e nobile arte dello schermo, e al sommo di essa il suo eterno idolo Charlie Chaplin.
Ha lasciato anche un ricordo del più caro dei suoi molti allievi, prematuramente scomparso (Il mio amico Pietro Germi, 1980). L'ultimo suo titolo è del 1981, Venezia: una Mostra per il cinema. Omaggio a una istituzione ch'egli aveva visto nascere e accompagnato con parecchi dei suoi film, spesso premiati. E dalla quale era stato onorato l'anno prima, in occasione del suo ottantesimo compleanno.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006
Blasetti, in piena forma, inventa addirittura un genere che è una specie di inclusive tour degli spettacoli notturni delle maggiori capitali europee, con tanto di spogliarelli audaci, maghi, prestigiatori, ballerini e cantanti. Europa di notte del 1959 è anche - tra le altre cose - il primo segnale di influenza diretta dello spettacolo di tipo televisivo sul cinema. A un buon livello spettacolare e professionale si collocano anche i successivi Io amo, tu ami del 1963, Eiolà del 1966, lo, io, io... e gli altri del 1966. In particolare quest'ultimo vuole essere da parte dell'autore un discorso autocritico sull'egoismo, sulla disgregazione dei rapporti umani. Blasetti costruisce, da par suo, una struttura narrativa tutta frammentata, riuscendo a condensare, grazie a una girandola di osservazioni rapidissime, una quantità enorme di situazioni e comportamenti tipici dei processi di trasformazione in atto nel costume italiano. Negli anni Settanta il regista continua regolarmente la sua attività, realizzando una serie di trasmissioni televisive gustose e originali, nelle quali ancora una volta non rinuncia a offrire sintesi significative del suo lungo e felice matrimonio con la macchina da presa.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007