Glauber Rocha. Data di nascita 14 marzo 1939 a Vitória da Conquista (Brasile) ed è morto il 22 agosto 1981 all'età di 42 anni a Rio de Janeiro (Brasile).
1. Son sono passati dieci anni da quando Glauber Rocha poteva ancora affermare «Non c'è un abbandono della lotta, perché il film Terra em transe è mio ma è come se fosse di tutti, e allo stesso modo, per me, quelli degli altri sono anche film miei. C'è una lotta comune e grazie a questa sorta di unità di gruppo è difficile che i mutamenti politici ci travolgano». E invece, per ammissione degli stessi promotori, la dispersione e la diaspora del "cinema nôvo" brasiliano è largamente consumata: prima l'apparato economico-burocratico del potere e la censura, poi, con crescente brutalità, la dittatura militare hanno diviso, incarcerato, costretto all'esilio o al silenzio i protagonisti "storici" e i nuovi adepti dell'esperienza più originale e innovativa del cinema latinoamericano. «Il risultato di sette anni di dittatura militare [...] - osserva Gustavo Dahl - è, per quanto concerne il cinema, la trasformazione di un movimento un tempo articolato in una folla di esperienze individuali, mentre nel quadro culturale d'insieme si è prodotta una regressione che gli ha fatto perdere gran parte della sua funzione».
Parlare, o riparlare, del "cinema nôvo" come "movimento" non significava comunque volerne accreditare una nozione rigida, astrattamente ideologica: non si trattò, infatti, di una tendenza rigorosamente definitiva, men che mai di una "scuola": «ora dire "cinema nôvo - commentava Rocha con una certa impazienza - è diventato uno slogan pubblicitario: esiste il cinema brasiliano, che prima non esisteva, al suo interno vi sono molte differenze, sia teoriche sia pratiche. La base comune è la lotta al sottosviluppo, a livello delle strutture come delle sovrastrutture». Ma queste, e altre, "rettifiche" verso certe infatuazioni europee non implicavano sfiducia o scetticismo nei confronti del futuro: «Penso che il Brasile sia un paese con una necessità vitale di cinema e, soprattutto, che il cinema sarà l'arte brasiliana per eccellenza. Però Roma non è stata costruita in tre giorni, e il "cinema nôvo" è cominciato nel 1962, producendo da allora solo trentadue film». E più recentemente, pur nella consapevolezza della fine di un'esperienza: «Oggi posso affermare con serenità che il "cinema nôvo", per quanto distrutto, costituisce tuttora l'avanguardia culturale del Brasile, intendendo culturale non come "culturalismo" ma come linguaggio che esprime le necessità rivoluzionarie di una civiltà colonizzata». Consapevolezza che si traduce, di fronte a molte banalità correnti in Brasile e soprattutto in Europa, in una lucida riproposta storico-attuale: «Il cinema non sarà una maschera per noi, perché il cinema non fa la rivoluzione. Il cinema è uno degli strumenti rivoluzionari e per questo deve creare un linguaggio latinoamericano, libertario e rivelatore. Deve essere epico, didattico, materialista e magico».
2. Se è giusto riconoscere, secondo una nota conclusione di Marcuse, che, «per un'intera generazione, le idee di "libertà", "socialismo" e "liberazione" sono legate a Fidel, a Che, ai guerriglieri - non già perché la loro lotta rivoluzionaria possa fornire il modello della lotta nei paesi metropolitani, ma perché essi hanno ridato verità a quelle idee, nella lotta quotidiana di uomini e di donne per una vita degna di esseri umani: per una nuova vita», è altrettanto vero che le "avanguardie", politiche e culturali, di quella generazione non hanno sempre saputo rinunciare al feticismo dei "modelli", costringendo un processo culturale liberatorio, e con tutte le contraddizioni proprie di un processo storico in atto, nella misura irrigidita della frase e del gesto esemplari. «Vorrei si comprendesse chiaramente - avvertiva Rocha - che certe teorie politiche sull'America Latina producono spesso gravi malintesi e attitudini assai demagogiche. Fraseologia di sinistra, comportamenti di sinistra, moralismo di sinistra, ecc.: tutto questo determina sovente effetti folkloristici». Qualche anno dopo, un critico avrebbe ricordato giustamente che la comparsa di Léaud, che declama testi e appelli "rivoluzionari" in un sarcastico passaggio di uno dei film più esemplari del "cinema nôvo", Os herdeiros, era «particolarmente rivolta agli europei, per denunciare un certo esotismo politico che si traduce nella "esportazione della rivoluzione"».
La convinzione, ricordata dallo stesso Rocha, che indusse alcuni studenti della Sorbona a proporre una tesi «per dimostrare che Weekend, Prima della rivoluzione e Terra em transe erano stati i film che avevano avuto la maggiore influenza sugli studenti nel movimento del Maggio del '68», si è rivelata col tempo, e soprattutto contro i registi presi a modello, un'arma a doppio taglio. Se quella scelta indicava, nella fase alta della "contestazione", la convergenza di spinte eterogenee ma tutte riconducibili a una matrice dirompente (dalla ritrovata proclamazione surrealista, diversamente ripresa da Benjamin e da Sartre, dell'«intellettuale rivoluzionario» come «traditore della sua classe d'origine» all'identificazione delle potenzialità di un cinema antiautoritario, liberato dalle restrizioni del modello hollywoodiano e delle sue varianti europee), essa comportava poi, nei confronti di un Rocha e dell'intellettuale latinoamericano in genere, un processo di mitizzazione che, continuamente "deluso" (per quanto riguarda il cinema) dallo spessore problematico e dalla "ambiguità" metaforica delle opere, dei film, si sarebbe ben presto rovesciato in una critica astiosa, moralistica, fondamentalmente incomprensiva (una storia che, in contesti diversi, investe anche altri: Godard, i Taviani, Ferreri).
Nella "estetica della fame", opposta da Rocha alle estetiche del dominio, colonialistico e neocolonialistico, l'intellettuale europeo "di sinistra", e il giovane "gauchiste" con particolare asprezza, aveva visto soprattutto la conferma al proprio "orrore" («perché tutto il patrimonio culturale che egli abbraccia con lo sguardo ha immancabilmente un'origine a cui non può pensare senza orrore») e alla consapevolezza che quel "patrimonio" «non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie». Posizione legittima e comprensibile ma, alla lunga, "improduttiva" e acritica quando, ad esempio, non considerava, censurandola moralisticamente, la continuità dell'influsso di certe avanguardie europee, e del surrealismo in particolare, nell'esplosione del "nuovo cinema" latinoamericano, e soprattutto di quello brasiliano, e non coglieva dunque la riqualificazione ideologico-stilistica, politica e "agitatoria" che quegli influssi subivano nel faticoso processo di liberazione dal colonialismo (ma riprendendo e ricaricando certe forme storiche della "sovversione" e della "rivolta" europea).
Eppure si trattava di un processo le cui radici erano antiche e persistenti: tra il 1925 e il 1930, ricorda Angel Rama, coloro che «andavano lottando duramente con i detriti dell'estetica simbolista per instaurare in modo autonomo il genere romanzo, liberato dalla scrittura artistica del '900, potettero credere di assistere a una resurrezione di morti. Gli uomini dell'avanguardia si presentarono loro come i fantasmi di quegli scrittori contro cui avevano combattuto fieramente e che credevano, alla fine, di avere sterminato». E la narrativa latinoamericana fu investita da uno sconvolgimento per cui «il discorso logico [...] risultava sovvertito da un'immaginazione che scardinava gli ordini razionalizzati; lo sviluppo unitario e pianificato del racconto intorno a un aneddoto preciso veniva sostituito da una successione di frammenti, brusche raffiche disordinate, illuminazioni spezzettate e schematiche».
In questo quadro di riferimenti si aggiungeva; per il Brasile, la "tradizione" dello stravolgimento perseguito dalla «esasperazione formale di un barocco di importazione europea», «ingrediente primo e ineliminabile di ogni situazione culturale», per cui «in tutto l'arco della letteratura brasiliana, dall'Arcadia al Romanticismo e al Modernismo, l'indio ha visto le sue fattezze stravolte da una interpretazione barocca». «Noi sappiamo di vivere in un paese barocco - dirà Gustavo Dahl, ancora nel 1969 -, più prossimo all'esagerazione che alla disciplina; dove Orson Welles e Godard fanno più scuola che Rossellini e Bresson»".
A queste "rimozioni" si accompagnava puntualmente, nella lettura "gauchiste" europea, l'esemplarizzazione di una figura di intellettuale rivoluzionario di cui si ipostatizzava il "terzo periodo" (secondo la nota periodizzazione, proposta da Fanon, del processo liberatorio dell'"intellettuale colonizzato"): quello della «letteratura di lotta, letteratura rivoluzionaria, letteratura nazionale», come se la prima fase («periodo assimilazionistico integrale. Si troveranno, in questa letteratura di colonizzati, parnassiani, simbolisti, surrealisti») e la seconda («periodo d'angoscia, di disagio, esperienza della morte, esperienza anche della nausea»), fossero state già consumate e sciolte in una riconquistata identità rivoluzionaria.
3. Il problema dell'identità è invece, più o meno esplicitamente, al centro del "cinema nôvo", ricorre assiduamente con tormentata, nevrotica, frequenza nelle opere di registi di formazione e stile assai diversi. Le risposte non sono mai univoche e definitive e ripropongono, piuttosto, altre domande: non certo (o non soltanto) nell'accezione cara a Barthes della letteratura «che non risponde: è domanda essa stessa, e in lei i secoli interrogano la domanda, non la risposta» Il ma con una intenzionalità meno "universale" ed "eterna", anzi, stretta e sospinta dalla coazione dei "tempi brevi" e, comunque, profondamente intricata nella contraddizione materiale-storica da cui viene e alla quale vuole tornare.
Al "dubbio" affacciato da Otto Maria Carpeaux nel 1967 («L'apparente indipendenza linguistica degli sperimentatori brasiliani odierni è il riflesso di esperienze analoghe fatte in tutto il mondo: Joyce, Michaux, Gadda, Arno Schmidt [...]. Trasposte in Brasile, le loro esperienze mutano di senso: esse significano il neocolonialismo [...]. Il dubbio antiletterario in America latina, in Brasile, ha il significato di una presa di coscienza e, soprattutto, di una presa di coscienza storica»), risponderà, nel 1970, la "revisione critica" aperta da Diegues: «I nostri film hanno sempre proposto una sorta di teoria in azione. All'inizio (Barravento, Porto das caixas, Ganga Zumba, ece, sino a Deus e o Diablo) pensavamo che bastasse stendere sul Brasile uno schema composto di alcuni principi morali e intenzioni politiche. Più tardi (O desafio, Terra em transe, Fame de amor, ecc, sino a Os herdeiros) abbiamo visto che era necessario riflettere sulla nostra situazione in quello stesso contesto. E da questa psicoanalisi dialettica siamo usciti molto più forti, convinti di dover dipendere dall'immaginazione per capire la realtà, e sicuri che più sappiamo essere creatori, più saremo rivoluzionari», Ma la conquista dell'equilibrio tra «verdade» e «imaginaçào» (Rocha) non è, soltanto, tormentata e complessa: implica perdite e scompensi, e il rischio che il "dubbio" antiletterario e antieuropeo si rovesci nel processo riduttivo di cui hanno parlato alcuni studiosi, per cui «l'antropofagismo, punta estrema toccata dalle avanguardie 1922 nel tentativo intellettualistico di riportare il paese a una situazione precolombiana con la riconquista di un "homo americanus" non inquinato dal virus europeo, è tuttora anelito inconfessato e inconfessabile dell'intellettuale brasiliano».
«Da O desafio a Terra em transe, da questo film a O bravo guerreiro, si aggira un personaggio - osservava Gustavo Dahl (nel 1968!) -, l'intellettuale piccolo-borghese pieno di dubbi, la canaglia in crisi. Può essere un giornalista, un poeta, un deputato, ma è sempre un dubbioso e un perplesso, un debole che tragicamente vuole superare la propria condizione».Protagonista, nel 1963, dell'"ingenuo" film di Saraceni (O desafío), che, mentre presumeva di rifarsi attivamente ad Antonioni e Godard, scimmiottava Bardem e il Maselli di I delfini e Gli indifferenti (ma quel film fu anche una prima, approssimativa, risposta al disorientamento prodotto dalla caduta di Goulart), implicitamente al centro dell'inchiesta di Jabôr (A opinido publica, 1966) sui comportamenti e sui modelli ideologici della "classe media", questo "personaggio" acquista, per la prima volta, tutto lo spessore e le potenzialità di cui è carico in Terra em transe (1967) di Glauber Rocha. Dirà ancora Diegues: «film chiave della moderna cultura brasiliana», «Terra em transe articola allo stesso tempo analisi politica e delirio personale, inaugurando il tropicalismo come metodo per affrontare la realtà brasiliana». Sarà anche il manifesto poetico di quel nuovo modo di fare cinema che lo stesso Rocha, sintetizzandone le contraddizioni e le spinte contrastanti, ma anche la potenzialità "agitatoria" e disalienante, definiva «tecnicamente imperfetto, drammaticamente dissonante, poeticamente ribelle, sociologicamente impreciso [...], politicamente aggressivo e insicuro come le stesse avanguardie politiche del Brasile, violento e triste...».
4. Ferito a morte dai poliziotti di Porfirio Diaz, che sta consolidando il proprio potere sulla sconfitta dell'avventura demagogica di Vieira, Paulo Martins, giornalista militante, poeta-agitatore, profeta-martire di una rivoluzione-palingenesi che irrompe da una frustrazione e da un'attesa di secoli, ripercorre la propria esistenza in un monologo sconnesso e vibrante, una fuga tumultuosa di ricordi, intuizioni, brani di vita e frammenti di letteratura, volti deformati di amici e avversari. Monologo che, nella sua molteplicità di registri, ironico-sarcastici, irrazionali e riflessivi, mai contemplativi e indugianti, sembra riproporre un'antica e inattuata (per cause di "forza maggiore") profezia di Ejzenstejn sulle possibilità cinematografiche del "flusso di coscienza". L'ottica della morte, disperata ma non elegiaca, costituisce l'asse della memoria traumatizzata di Paulo e comporta un'apparente deformazione di uomini e cose che ne svela invece, nell'accelerazione parossistica del ricordo in lotta con il buio, la misura autentica: il massimo di deformazione, nel cinema metaforico e rivelativo di Rocha, coincide con il massimo di verità.
Terra em transe ha la struttura di un poemetto tragico-lirico, con tutte le relative stasi e accelerazioni, "emergenze" poetiche e dissonanze espositive. "Cinema di poesia" che si concede, anzi cerca, tutte le licenze e le rotture di un "plurilinguismo" acceso e cangiante: il timbro eloquente della satira e quello stridulo della parodia (il melodramma verdiano, Otello, nella parossistica sequenza dello scontro, sulla scalinata del Palazzo, tra Paulo e Diaz), la freddezza didattica e la trasgressione metaforica. Questa multilateralità di registri critico-poetici tocca il diapason della "inattendibilità" nella già citata sequenza del litigio tra Paulo e Diaz, fondata sulla compresenza dinamica di tre livelli che interagiscono e, nell'urto, si illuminano e modificano reciprocamente: l'autorità degradata del potere, l'amplificazione disvelatrice-derisoria della musica di Verdi che dilata parodisticamente la misura melodrammatica dei personaggi e della situazione, l'irruzione di un'altra" storia nel concerto, sempre più alto, dei fucili della guerriglia, che "sfonda" e travolge il tessuto sonoro e musicale della sequenza.
Nel costruire il "grande" personaggio, Diaz in particolare, Rocha ritrova modi e procedimenti che gli vengono da coloro che più hanno avvertito il peso della individualità d'eccezione nella storia e nella "edificazione" del potere: Ejzenstejn e Welles (a proposito di quest'ultimo: non a caso Paulo, per distruggere la figura pubblica di Diaz, prepara un telefilm che richiama il cinegiornale su Kane; e anche qui assumono grande rilievo, con le date dell'"ascesa" di Diaz, gli interni della sua casa-mausoleo, il busto di Bacco sul quale egli si fa ritrarre, ecc.).
Diaz e Vieira: immagini rovesciate di un potere che, mentre si richiama al popolo nella demagogia e nell'investitura elettorale, lo tradisce e lo aliena agli antichi e ai nuovi padroni: i proprietari terrieri, l'Explint, la chiesa (il senatore e il prete, che ballano grottescamente al seguito del popolo di Vieira, si troveranno tra i pronubi dell'"incoronazione" di Diaz). Diaz, conservatore progressista, aristocratico illuminato, santo laico, tradizionalista innovatore, vorrebbe fondere e risolvere in sé tutte le possibili antinomie: si veda la compostezza ieratica del personaggio che, portato in processione impugnando il crocefisso in una mano e la nera bandiera del popolo nell'altra («non è più possibile! - griderà Paulo nella sua disperata corsa incontro alla morte -. Né questa speranza dorata sulla montagna, né questa festa di bandiere, dove la guerra e Cristo vanno insieme»), riceve l'investitura, nello stesso tempo, dalla croce e dagli indios, addobbati con i paramenti rituali, e dai conquistatori portoghesi. Tutto e niente: questo è Diaz, al di là del rituale del potere (parodisticamente contraffatto nella feroce metafora dell'"incoronazione" officiata da dignitari, senatori, preti e puttane), della declamazione nobile o del cerimoniale mondano. Nel fondo, un miscuglio di isteria e di impotenza (il revolver che impugna e incrocia sul petto), di razzistico livore antipopolare e di paternalistica affettazione. L' unica garanzia reale del suo potere è negli interessi che copre e tutela.
L'altra faccia è la demagogia populistica di Vieira: il vizio dello spettacolo e del folklore, dell'eccitazione epidermica senza nerbo e severità, dell'affermazione immediata senza futuro. La volgarità di cui è impastato non deve offuscarne, a una lettura superficiale, la pregnanza di significati: stretto tra un popolo che teme e una repressione statuale che non può, dunque, fronteggiare, Vieira deve soccombere, avvilirsi, indicare gli amici come "estremisti" da isolare, consegnarsi all'avversario. La dismisura tra l'essere e il dover essere di Vieira, la sua verità e la "rappresentazione" che popolo e seguaci se ne fanno, costantemente sottolineata dalle acclamazioni contadine e dal rullar di tamburi, che accompagnano le sue apparizioni, si rivela anch'essa quale impotenza. Come Manuel, che in Deus e o Diabo passava da Santo Sebastiâo a Corisco per ritrovare in se stesso e nel popolo la strada da seguire, Paulo, prima seguace di Diaz, poi giornalista al servizio del laido e demonico Julio ("demone meschino", sensibile a tutte le lusinghe e corruzioni del dollaro), infine profeta e sostenitore di Vieira, incarna la condizione dell'intellettuale che si vuole rivoluzionario in un contesto "desarrollista": l'allegorica Eldorado, dove gli estremi del sottosviluppo, dello sfruttamento coloniale e della degradazione poliziesca dell'apparato di potere "nazionale" si presentano con una evidenza accecante. Eroe della sproporzione e dell'eccesso, disponibile solo a esperienze estreme, incapace di "moderazione" e fautore della rabbia devastante e purificatrice del popolo, confonde, in uno stesso magma impetuoso é devastatore, politica e poesia, azione e gesto, lotta e sovversione.
Rocha è affascinato, ma senza immedesimazioni sentimentali, da questa figura stravolta, emblematica, anche attraverso lo spessore delle coincidenze e assonanze autobiografiche, di una generazione che, mentre vorrebbe rifiutare il "discorso sugli alberi", ne recupera poi tutta la potenzialità nel proprio modo di schierarsi da una parte contro l'altra. Sconfitto sul duplice versante dell'incontro con il "popolo" e dell'uso tattico delle mediazioni politiche, il rapido passaggio di quest'uomo che, prima ancora che dai fucili dei poliziotti, è ucciso da una divorante vocazione alla morte, che gli brucia dentro e contro la quale ha ingaggiato una sorta di estrema battaglia con il tempo, non è stato senza significato. Nell'ultima inquadratura, oltraggiosamente protratta contro ogni norma e limitazione "estetica", la figura di Paulo, con il mitra imbracciato, si staglia, in campo lunghissimo, sul lato destro dello schermo, mentre intorno a lui risuona, ancora una volta, il concerto sempre più alto della guerriglia. Le due storie non si fondono, in una soluzione ottimistica, ma certo si richiamano e si confrontano: e in effetti, in quell'esplosione di violenza ci sono anche i sogni, gli astratti furori e la sconfitta "necessaria" di Paulo.
Lontanissima dai moduli della rappresentazione "realistica", la struttura dinamica dell'opera rimanda continuamente a quell'universo della trasgressione che è coerentissimo con l'impianto analogico e vibrante del monologo di Paulo: di qui l'uso dell'iterazione (la rivelazione del tradimento di Julio replicata più volte da Alvaro), dell'iperbole (il finale), dell'asincronismo (le parole fuori campo staccate su Diaz che le pronuncia davanti a Julio e Silvia), della citazione esplicita (Sara e gli uomini di Vieira intorno a Paulo, come in Le petit soldat), che straniano la materia in immagini estreme, senza impoverirla, didatticamente, della sua carica di rivelazione. Qui, anche, il nucleo vitale del rapporto dell'autore con le nuove avanguardie brasiliane: «Si tratta di riconquistare il linguaggio ricaricandolo di quella espressività di cui secoli di uso unidirezionale lo hanno depauperato: di riconsegnare agli uomini [...] una lingua-materia, capace di trasmettere non solo un'informazione semantica, ma un'emozione estetica [...]». E ancora: «Si vuole che questo nuovo linguaggio possegga una propria essenza, che non sia più unicamente veicolo di altre realtà, di contenuti morali e filosofici, che insomma esso non "serva" più, ma "sia", esista in sé con una propria carica energetica»". Ma con una connotazione critico-espressiva della "lingua-materia" che consente al regista, non di veicolare strumentalmente, ma di scrivere poeticamente (poesia-agitazione, ripresa delle poetiche dello "choc" e dell'"attrazione") una riflessione che, mentre permette, come è stato detto, di «leggere in filigrana tutta la storia del Brasile moderno», accentua fortemente la necessità di ripensare e cambiare la funzione dell'intellettuale che si vuole rivoluzionario.
5. E questo spiega anche la persistenza di Terra em transe negli sviluppi del "cinema nôvo" e oltre, nelle conseguenze che ne trarranno alcuni dei suoi maggiori protagonisti. La "locura" del maestro in Antonio das Mortes (insegna ai bambini le date della storia rimossa e occultata, irride a padroni e sgherri, è con Antonio contro Mata Vaca e il "coronél", ma la sua verità più "vera" è il delirio erotico-distruttivo sul cadavere di Laura) e il "trasformismo" di Miguel Horta in O bravo guerreiro sono, ancora, due facce di Paulo Martins: le ritroveremo, enormemente dilatate dal registro del melodramma ma ironicamente contrappuntate dall'uso critico-sarcastico della parodia e del grottesco, in Jorge e Joaquim Ramos, il padre e il figlio di Os herdeiros. La conquista dell'identità passa attraverso la più impietosa delle autoflagellazioni, piuttosto che camuffarsi con la maschera dell'"autocritica". Il referente storico-attuale di questi autori non è "il fantasma di Stalin" ma il "populismo" di Vargas («per tutti gli anni '50 le idee di Vargas e persino il suo stile politico rappresentano la strada maestra lungo la quale forzatamente devono muoversi seguaci e avversari») e il "janghismo" di Goulart («noi usciamo da un'esperienza come quella del "janghismo" dove, in mezzo a un mare di discorsi e di previsioni dell'avvenire, siamo stati presi alla sprovvista dalla destra»).
La ricerca dell'identità, esplosa clamorosamente in Terra em transe, dovrà seguire percorsi sempre più accidentati e tortuosi, acuita dall'amarezza di una sconfitta storica che esige ripensamenti radicali e profondi. Tra le altre, due strade sembrano particolarmente esemplari. La prima è quella di Os inconfidentes (La congiura, girato in esilio, apparso fugacemente in una serata televisiva e purtroppo assente dalla rassegna pesarese) di Joaquim Pedro de Andrade (non a caso il regista di Macunaíma). Apologo storico-attuale su una "rivoluzione" mancata: mancata per utopismo generico e febbrile, per enfasi letteraria o viltà o calcolata furbizia. Nella "congiura" ci sono vecchi "democratici" infatuati di amore letterario per la rivoluzione e militari cialtroni, magistrati avidi di potere e preti "anticipatori", nobili progressisti fuori e razzisti in casa. De Ändrade esaspera freddamente le soluzioni della messa in scena e dello spettacolo, le maschere della vanità teatrale e carnevalesca, le pose dell'autocontemplazione distanziata e schernita dall'occhio gelido di una "camera" che non perdona. Pagherà il più giovane, il più sprovveduto e "folle", e la beffa sarà duplice: ché egli viene rinnegato e giustiziato prima (con una dilacerante rottura e proiezione del racconto nel futuro) davanti a un esaltato popolo di oggi, recuperato poi come eroe, e insieme con gli altri congiurati, da quello stesso potere che si regge, tuttora, sulla violenza e la tortura. Ne viene fuori un apologo invelenito, carico di inflessioni brechtiane esasperate da un recitativo eloquente e fastoso che, contrastando, nella "nobiltà" della tessitura verbale e della versificazione, con la volgarità della "materia", ne fa oggetto di riflessione e distacco. Non si va oltre la parodia, indicativa di una frustrazione, personale e no, che si rovescia in volontà di smascheramento, moralistico livore, beffarda, e ancora moralistica, ritorsione, riscattati da un'esposizione in cui anche le esasperazioni e rotture deliranti (il concerto grottesco e pietoso delle imprecazioni e delle suppliche dei prigionieri) vengono obiettivate con gelido, virtuosistico, dominio della materia e aristocratico disprezzo.
L'altra strada, molto più rischiosa e tormentata, è quella che porterà Glauber Rocha dall'apertura sull'Africa di Der Leone Have Sept Cabeças alla straordinaria impresa di A Historia do Brasil (ma senza dimenticare lo stravolto e rutilante apologo di Cabezas cortadas e altre esperienze minori). È noto che questi film (almeno il primo e il terzo, ma, a giudicare dalle accoglienze pesaresi, analogo destino attende il secondo) hanno raccolto, particolarmente in Italia, diffidenze, riserve, e anche drastiche stroncature. Ancora una volta, passata la breve malattia e affettazione "terzomondista", il critico torna a insediarsi dietro la cattedra della propria autorità (si tratti del vecchio e ammuffito "specifico" o delle euforiche incursioni semiologiche o, ancora, del marxismo sospettoso e catastale che da noi è di casa). La lugubre baldanza con cui la turba, variamente "connotata" certo, degli apprendisti-becchini si è accanita sull'ultimo Rocha è forse superata soltanto dall'oscenità delle accoglienze riservate a Godard da Week-end in poi. Non a caso, è proprio Rocha a ricordare, sia pure con una certa enfasi, davvero inopportuna e impopolare agli occhi di chi insegue le conturbanti finezze di Camerini o scopre le voragini dell'inconscio di Blasetti, che «dal 1972 Godard non gira perché è la principale vittima della "cospirazione" di critici e registi, impegnati ad abbattere colui che con la teoria e con la pratica ha contestato l'ipocrisia e l'opportunismo politico e commerciale del cinema mondiale».
Quel che conta notare, attraverso queste reazioni, è, ancora, la persistente svalutazione della ricerca di fronte all'esito, della produttività del percorso rispetto alla riconoscibilità cristallizzata del prodotto. Legittimato, naturalmente, da una nozione sclerotizzata di "realismo": «le discussioni sul cinema rivoluzionario cominciate nel 1960 hanno sviluppato teorie contenutistiche rifiutando la "sovversione strutturale del montaggio" che è la creazione materiale-storica delle idee sovversive. Con l'eccezione dei film di Godard (quelli del periodo anarchico e quelli del periodo marxista), di quelli di Jean-Marie Straub e di quelli di Miklós Jancsó, il discorso cinematografico della sinistra rivoluzionaria è ancora realista-critico, di origine romanzesca prejoyciana o teatrale-psicologista prebrechtiana o ancora documentaristico-formalista (retorica) del fenomeno».
L'intellettuale, che si era già sentito parte di una rivoluzione in atto, non si rifugia nell'elegia delle occasioni perdute ma si trasforma in storico che ripercorre e ripensa, con e per altri, il passato in vista e in funzione del presente. I materiali di questa svolta "didattica" (stampe, quadri, cineattualità, fotografie e ricostruzioni), pazientemente raccolti fuori e lontano dal Brasile, vengono organizzati lungo un asse critico che raccorda, e spesso oppone, dinamicamente, la serie visiva a quella verbale, l'immagine al "commento", la parola al suono. Ma l'aspetto più geniale di Historia do Brasil è il recupero e l'uso del "cinema nóvo", dei film di dos Santos (Vidas sécas), di Hirszman (A felecida), di Diegues (Ganga Zumba), di de Andrade (Os inconfidentes), dei propri (da Barravento a Terra em transe), in rapporto non lineare, ma dialettico e politico, con i nodi storici e le alternative che vengono via via emergendo: fame e sottosviluppo, "sviluppismo" e alienazione, "modernismo" del '22 e frustrazione dell'istanza "tropicalista", colonizzazione e dominio culturale. Se le stampe e i documenti ufficiali fissano e replicano la storia secondo l'ottica dei dominatori, le immagini del "cinema nóvo" la rifanno, a loro modo, secondo il punto di vista degli sfruttati: la disoccultano ma la reinventano, anche. Negli "archivi del popolo" non c'è solo la traccia della storia distorta e cancellata dalle classi dominanti, c'è anche la violenza di una grande potenzialità inespressa.
Il "cinema nóvo" era davvero qualcosa di diverso dal "nuovo cinema" e dalle sue astrazioni indeterminate (l'autore, il linguaggio, il cinema, ecc.), covate all'ombra dell'industria. Finito, non lascia un cimitero di prodotti sulla rivoluzione, ma la produttività tutt'altro che esaurita di una scrittura "materiale-storica" rivoluzionaria. Il «criticare-teorizzare-praticare un cinema rivoluzionario, storico-dialettico, e poetico (l'uomo libero dai suoi fantasmi borghesi)», di cui parla oggi Rocha, non sarà ancora il "terzo periodo" dell'intellettuale colonizzato" di cui parlava Fanon ma sicuramente ne incoraggia e avvicina la maturazione.
Da Recensioni e saggi 1956-1977, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2005
Un animatore, un agitatore, un utopista immerso nell'atmosfera confusa di un Brasile travolto dalle tensioni sociali, oppresso da una dittatura militare, incapace di dare concretezza alle spinte culturali che lo attraversano. Rocha - attore bambino e giornalista adolescente, critico cinematografico, studente di giurisprudenza svogliato, cineasta dilettante - avrebbe potuto essere colui che quella concretezza era in grado di afferrare e comunicare, mediante i suoi film e quelli del movimento che avrebbe preso il nome di «cinema nôvo». Ma è vissuto troppo poco - muore a Rio, quarantatreenne, di una polmonite male curata in Portogallo - per riuscire a farlo.
Due sono le opere di allucinata fantasia e di furente concitazione che Rocha ha consegnato al suo paese e alla storia del cinema, in un gruppo disuguale di nove lungometraggi e di alcuni cortometraggi. Il dio nero e il diavolo biondo , girato nel 1964 dopo l'esordio con Barravento (1961), accozza con fluviale abbondanza le miserie dei contadini del Nordeste più sottosviluppato, le infatuazioni religiose, l'irruzione di un sicario (Antonio das Mortes, che ha l'incarico di uccidere chi, attraverso il misticismo, incita i poveri a ribellarsi), la prepotenza dei latifondisti, l'ipocrisia della Chiesa, il folclore e gli interventi di un cantastorie che commenta la storia di una banda di straccioni guidati dal «beato» Sebastiâo. Lo stile è rotto, il filo del racconto aleatorio, le inquadrature sono come colte al volo, casualmente, dalla macchina a mano. Nel 1967 Rocha affronta un discorso apertamente politico, ambientando in un paese immaginario la vicenda di un intellettuale comunista il quale non ha altra strada che quella del sacrificio supremo per affermare il senso della rivolta (Terra in trance), ma la vera apoteosi dello stile cinematografico, e perciostesso politico nell'ambito del troppo fragile «cinema nôvo», sarà Antonio das Mortes (1969), in cui il sicario di Il dio nero e il diavolo biondo si ribella al potere, si schiera dalla parte del popolo, lo incita a prendere le armi e si allontana solo, verso il suo destino, figura reale e magica insieme. Tutto il cinema convulso di Rocha è in questo film.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995