Il teatro classico che guarisce dai dolori della vita. E risolve i problemi della società educando i cittadini. Oggi come allora. In Italia per il Leone d’Oro alla carriera, l’attrice racconta la passione per Sofocle. E l’odio per chi la profana
In oltrecinquant'anni di carriera, Irene Papas ha girato più di settanta film. Ma, in Italia, la ricordano soprattutto per la sua Penelope televisiva e per Z-L’orgia del potere di Costantin Costa-Gavras o per Zorba ïl greco di Michael Cacoyannis.
Ma la sua passione profonda è Il teatro, per Il quale negli ultimi anni è divenuta regista. E in questa veste ha portato nel 2005 una splendida Antigone a Siracusa. Ora è in Italia -dove ha a casa, a Rama per ritirare il Leone d'Oro alla carriera. Le sarà consegnato dalla Biennale dì Venezia i120 febbraio, in coincidenza con l'inaugurazione del 40o Festival Internazionale del Teatro. L'esilità della figura, affondata nel velluto del divano, contrasta con la potenza dello sguardo, che passa continuamente dà dramma all'ironia, e con E forza delle parola Che cominciano col raccontare l'amore. «L'amore? È una sconfitta in partenza», dice. Ha un sorriso di sfida. «Lo ha capito o no che sto citando Sofocle? E il coro dell'Antigone: Amore invincibile che chi ti ha dentro è pazzo. In Grecia diciamo che solo due no ci rendono veri: l'amore e la follia. Se vediamo un pazzo per strada diciamo: è innamorato».
Anche i greci dicevano che l'amore è una patologia psichica, una mania.
«Che sia bello o brutto, vince sempre. Specialmente quello brutto».
L'amore più forte della vita, forte come la morte secondo il Cantico dei Cantici.
«Quanto mi piace. L'ho anche cantato, sulla musica di Vangelis. Racconta la forza enorme dell'amore, più dolorosa per la donna».
Perché? M crede che uomini e donne siano uguali e sentano allo stesso modo?
«Ovviamente. In greco abbiamo un'ottima parola, anthropos, che significa uomo, ma che posso riferire a lei o a me perché designa la specie, non il genere. Che l'amore faccia soffrire di più le donne non è un dato naturale ma - come posso dire? - sociale. Noi non siamo trattate bene. Mai. E l'amore, che già disarma tutti, ci porta vita più difese. L'unica è resistere, perché non ci porti via la vita».
E lei crome ha fatto a sopravvivere all'amore?
«Con la tragedia. Se non avessi avuto le tragedie greche, da recitare, dirigere, mettere in scena, non avrei retto alla tragedia dell'amore, o della vita, che è lo stesso».
Una cura omeopatica: curare la tragedia con la tragedia.
«È il principio della catarsi: la spiegazione che dà Aristotele delle proprietà guaritrici della tragedia. Rivivendo il dolore sulla scena si arriva a sopportarlo nella vita».
È anche la forza del mito, dell'archetipo. <br/ >
«Diciamo dell'origine. Edipo e il primo che si domanda: "Perché sono qui? Chi sono io?"».
«Conosci te stesso»: è inciso sul tempio di Apollo a Delfi. «Sii, ma il punto non è il dio che te lo dice, il punto è l'Io, il punto sei tu: al centro del meccanismo tragico sta il fatto che c'è un momento in cui devi sapere chi sei. Metti Prometeo. L'uomo è più grande del dio, non "di Dio," o di "un" dio, ma della stessa essenza divina. Tutti ì protagonisti delle tragedie sono messi davanti a questa realtà: tu puoi, tu sei, tu capisci, tu devi essere qui, presente a te stesso. Le tragedie greche sono testi per le persone, perché diventino persone qui ed ora. Non testi teologici, non costruzioni ideologiche, non promesse, non favolette per una vita futura. Sono congegni di trasformazione individuale nella vita attraverso la catarsi».
Principio poi applicato in generale all'arte.
«È vero, ma è rischioso. Le tragedie greche sono garantite: funzionano. Sono testi magici che curano. Ma perché questo accada non bisogna alterarli. Sono architetture precisissime, ma fragili. "~ Oggi la presunta creatività dei registi teatrali le contamina e le rende inefficaci».
Come?
«Quando le si modernizza, per esempio. Quest'anno in Grecia hanno messo in scena un Agamennone in cui il coro era composto di cani che abbaiano. Ma è mai possibile? Dobbiamo avere fiducia in ogni virgola di quei testi meravigliosi. Agamennone non può essere un burino che fuma. I registi di oggi usano là tragedia per fare lezioni di teatro. Quelli dell'antica Grecia invece si domanda vano: "Cosa possiamo imparare dal testo?". E a quel tempo lo Stato non solo finanziava la messa in scena delle tragedie, ma pagava gli spettatori perché andassero a vederle».
Altri tempi. Oggi anche il pubblico è cambiato.
«Non è vero, lo posso testimoniare. Tutte le volte che ho messo in scena una tragedia, anche di recente, il pubblico si è presentato in massa. Quando ho fatto la regia dell'Antigone, per esempio. Alla fine glì spettatori piangevano, e venivano a stringerci le mani, e ringraziavano. Il pubblico non è stupido. Sono stupidi quelli che cercano di abbindolarlo».
Chi sono?<br/ >
«Sono, come dicevo, i presunti attualizzatori del teatro antico. E lo Stato moderno, che sottovaluta la sua attualità ancestrale e non fa nulla per la sua tutela. Ma io ho invertito le parti. Do i miei soldi allo Stato. Per una scuola di teatro, di cui sono fondatrice, ma che vivrà dopo di me. Una piccola università della verità e della libertà».
Suona bene. Dov'è?
«È sulla strada che porta da Atene al Pireo, dov'erano un tempo le Grandi Mura di Pericle. So no li le mie mura interiori, la struttura, la forza che voglio comunicare. È lì che morirò, insegnando ai miei allievi a costruirle dentro se stessi».
Da Il venerdì di repubblica, 13 febbraio 2009