Valeria Moriconi (Valeria Abbruzzetti) è un'attrice italiana, è nata il 13 novembre 1931 a Jesi (Italia) ed è morta il 14 giugno 2005 all'età di 73 anni a Jesi (Italia).
Esordì nel cinema nel 1953 nell'episodio Gli Italiani si voltano (Alberto Lattuada) di Amore in città, in una breve apparizione. In seguito si è affermata in parti di maggior respiro in parecchi film per lo più comico-sentimentali, senza tuttavia avere occasione di dimostrare le sue buone doti d'attrice drammatica, come si venivano invece rivelando nella sua intensa attività teatrale, e più recentemente, televisiva, che l'hanno imposta al pubblico e alla critica come una delle più interessanti e promettenti giovani attrici italiane di questi ultimi anni. Tra le sue interpretazioni cinematografiche più significative e artisticamente valide va ricordata quella de Le soldatesse (1965, Valerio Zurlini).
Fu l'unica attrice non napoletana che Eduardo ritenne capace d'interpretare il personaggio di Filumena Marturano, «la più cara» delle sue «creature». Quel personaggio, figuriamoci, Eduardo l'aveva rifiutato persino ad Anna Magnani. E lei, Valeria Moriconi, volle ripagare la fiducia - nell'86, e dopo trent'anni di una carriera già strepitosa - affrontando una prova (la definì «una specie di doppio salto mortale senza rete») resa ancor più proibitiva dalla sua decisione di non cambiare neppure una virgola del testo originale, soprattutto per quanto riguardava il dialetto. Più volte, nel corso delle prove, mi telefonò per chiedermi come si pronunciasse esattamente questa o quella parola napoletana. Per Valeria era una vera e propria sfida, con se stessa e, soprattutto, con la pigrizia mentale e i pregiudizi campanilistici di quanti, a Napoli, gridavano allo scandalo in nome degli illustri modelli (da Regina Bianchi a Pupella Maggio) che avevano davanti agli occhi. Ma la Moriconi fu più forte di quella pigrizia e di quei pregiudizi: al Teatro Duse di Bologna (lì ci fu la «prima» nazionale dello spettacolo, il 17 novembre) presentò una «Filumena Marturano» che non aveva più niente del bozzetto naturalistico, ma veniva letta in chiave decisamente strindberghiana. Tra Filumena e Domenico Soriano, insomma, non c'era amore, ma qualcosa di addirittura più terribile e tenace dell'odio: il rancore. Del resto, se nel cinema aveva esordito con Lattuada (nell'episodio «Gli italiani si voltano» di «Amore in città», del '53), proprio con Eduardo De Filippo la Moriconi debuttò in teatro: come protagonista femminile, nel '57, di «De Pretore Vincenzo». E se la sfida accettata con l'interpretazione di «Filumena Marturano» dice del temperamento della donna, altre sue memorabili interpretazioni dicono, invece, di uno straordinario talento d'attrice accoppiato con un'ancor più straordinaria sensibilità umana, di natura e caratura nientemeno che poetiche. Penso, per esempio, a «Le notti bianche», il racconto di Dostoevskij portato in scena, nella stagione '76-'77, con la Compagnia dei Quattro fondata dalla Moriconi insieme con Franco Enriquez, suo regista e suo compagno nella vita: la Nastenka di Valeria diventava addirittura un elemento del paesaggio, giacché le umbratili cadenze sentimentali del personaggio acquistavano, nella sua voce e nei suoi gesti, lo stesso tremore che la gelida luce dei fanali accendeva sull'acqua della Neva. E che dire, sempre a titolo d'esempio, della donna Anna Luna che, fra il '78 e il '79, disegnò ne «La vita che ti diedi» di Pirandello? Giusta la regia in chiave antropologica e simbolica di Castri, la Moriconi faceva di quel personaggio non una madre, ma la Madre, attribuendogli il rango di un archetipo definitivamente separato dal fluire del tempo: e così c'imbattevamo non in un dolore, ma nel Dolore come categoria. In breve, nella donna Anna di Valeria convivevano - come un'alta testimonianza - la passione immedicabile della Maria di Jacopone e l'ossessione ferina di Medea. Non a caso, del resto, di Medea la Moriconi diede nel '96 un'altrettanto memorabile interpretazione nel Teatro Greco di Siracusa. E a riprova della sua versatilità d'attrice, e della conseguente capacità di padroneggiare qualsiasi genere teatrale, e qualsiasi autore, bastino - cito a caso, ovviamente - i ruoli da lei ricoperti in «Trovarsi» ancora di Pirandello (regia di Patroni Griffi), ne «Il teatro comico» di Goldoni (regia di Scaparro), ne «La rosa tatuata» di Tennessee Williams (in cui, per la regia di Vacis, rispondeva da par suo, appunto, alla Magnani del film), in «Diario di Eva» di Mark Twain (regia di Tonino Conte), ne «Il gabbiano» di Cechov (regia di Scaparro), in «Elegia per una signora» di Miller (regia di Muzii) e - per concludere l'assai sommario elenco - in «Gin Game» di Coburn L. Donald (regia di Maccarinelli) e ne «La nemica» di Niccodemi (regia di Missiroli). Interpretazioni, queste, che spesso parlarono di scelte raffinate e controcorrente: non a caso, d'altronde, Valeria Moriconi, nel '60, era stata chiamata da Visconti a reggere la parte di Mina in quell'«Arialda» di Testori che a Milano venne subito ritirata dalle scene tra clamori di scandalo e viperine proteste degl'immancabili benpensanti. E proprio nel ritratto di Visconti da lei tracciato («un dio dispotico, molto duro durante le prove e insieme dolcissimo») ritroviamo, del resto, le doti di cui dicevo prima: il temperamento e la sensibilità umana, una sensibilità spinta sino ai limiti della tenerezza. Vorrei, perciò, chiudere questo dolente ricordo - che volentieri intitolerei, rubando a Patroni Griffi, «In memoria di una signora amica» - con una semplice considerazione: ne «Il gabbiano» e in «Un equilibrio delicato» di Albee aveva accanto, Valeria Moriconi, quel Corrado Pani, un altro talento raffinato e controcorrente del nostro teatro, che di poco l'ha preceduta nel regno del silenzio. Insomma, se ne vanno gli ultimi pezzi del grande teatro, ossia del teatro vero: quello che è grande e vero perché sempre ed eroicamente attestato sull'incerto confine tra la finzione e la vita.
Da Il Mattino, 16 giugno 2004
Nata a Jesi (la città di Federico II e di Giovanni Battista Pergolesi) nel 1931, si accorse presto di essere bella, vita sottile, volto rotondo, bocca sensuale, corpo da pin-up. Non frequentò accademie di recitazione, ma nel 1949, nella stessa Jesi, volle fare qualcosa in teatro, in una compagnia di filodrammatici. Il primo a credere al suo talento fu il padre, che ben presto divenne anche il suo più attento spettatore , nonché, più tardi, il custode della memori a di una grande carriera. Ricordava infatti a Valeria, quando lei era ormai diventata una diva, che piccolissima, armata di matita, un bel giorno aveva scritto a sorpresa, sulla specchiera della madre: Qui ha posato la sua mano la futura Eleonora Duse .
Nel 1951, il matrimonio con Aldo Moriconi, durato dodici anni: «Dopo il primo periodo felice raccontava l’attrice subentrò un rapporto di reciproca amicizia e di rispetto, che seppe resistere anche quando lasciai mio marito per il regista Franco Enriquez». E fu proprio Enriquez, rapinoso compagno di vita e di scena, ad aprirle le porte del palcoscenico di rango. Dopo alcune esperienze nel cinema con Alberto Lattuada e Eduardo De Filippo (la filmografia della Moriconi consta di venticinque titoli a buona firma), il teatro tornava ad esigere la vitalità, la sensibilità e la passione della ragazza di Jesi. Stagione dopo stagione, Valeria ha interpretato più di duecento personaggi, diretta dai migliori registi italiani e stranieri: Enriquez, appunto, ma anche Visconti, Castri, Besson, Marcucci, Ronconi, Scaparro... Da Shakespeare a Goldoni, dai tragici greci agli autori contemporanei, un recitare solido, continuo, colto e sempre più raffinato, con lunghe trasferte a Londra, a Parigi, a San Pietroburgo, a Los Angeles.
Una vita da romanzo. Impossibile affibbiarle una prestazione più memorabile delle altre, un personaggio sopra tutti. E’ stata Medea, pazza per amore; Filumena Marturano in lingua napoletana; la vedova Giocasta di Savinio; la fiera che allattò Romolo e Remo ne I figli della Lupa di Gigi Magni, al teatro Sistina di Roma, tempio storico della commedia musicale; la Hedda Gabler di Ibsen; la Venexiana lasciva dell’Anonimo cinquecentesco tanto caro a Scaparro. P er tutto questo ha ricevuto la nomina a Grande Ufficiale della Repubblica, onorificenza di cui andava, in tutta sobrietà, molto orgogliosa. Nel Duemila ha dato voce - insieme con Pino Colizzi e con Benedetto Nardacci - ai testi di Giovanni Paolo II per la via Crucis del Colosseo.
Nel 1980, morto Franco Enriquez, il grande amore della vita (nel camerino di Valeria, immagine che catturava l’attenzione di qualsiasi visitatore, la grande fotografia del regista, incorniciata d’argento, campeggiava in bella vista davanti allo specchio del piano da trucco), era arrivato Vittorio Spiga, un giornalista bolognese. Con lui, l’attrice “che amava vivere” ha trascorso anni sereni, di confronto, affetto, ricerca intellettuale, sperimentazione artistica e impegno civile. Con lui ha tradotto testi poco noti, dato luce ad autori ingiustamente considerati minori. Con lui trascorreva sul Conero, nella casa di Sirolo, di fronte al mare marchigiano dalla spiaggia dolce e sabbiosa, le lunghe estati che ha sempre adorato.
Il mese di agosto le apparteneva decisamente. L’intensità che lo caratterizza, i colori, i sapori pieni, i primi temporali corrucciati, persino violenti, lei li ha trasportati nella recitazione, così perentoria, chiara e sensuale, così accidiosa se occorreva, così ardente e protagonistica in città e in provincia, così piena di respiro. Del “suo” mese, nel corso di un’intervista romana, disse cose bellissime: che le aveva sempre portato fortuna, che le aveva insegnato «a vedere i fantasmi nelle notti di luna piena, a credere nei folletti e nelle fate, per poi, al riaccendersi il giorno, ritrovare il coraggio di cuocersi le ossa al sole». E concluse: «Poi l’agosto è giallo, come i girasoli, i fiori che preferisco. Giallo. Il colore dei matti, di Van Gogh e di Pollock, il più bello».
Da Il Messaggero, 16 giugno 2004